da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020
L’immersione nei paesaggi del Salento continua tra i segni e i gesti della spiritualità e della quotidianità degli antichi abitanti del territorio.
Sulle tracce del sacro: simboli e miti vengono da lontano
Il viaggio tra i segni e i paesaggi del sacro nel Salento antico ricomincia dalle sue innumerevoli grotte, i più antichi monumenti sacri della storia dell’uomo, luoghi di socializzazione e di preghiera, spazi delle prime manifestazioni dell’arte, quella parietale, ma anche luoghi della sepoltura e della cura dei morti. Alcune sono percepite come luogo simbolico già dal Neanderthal. Quindi il Sapiens continua a utilizzarle per tutto il resto del Paleolitico, nel Neolitico e poi nell’età dei Metalli come spazio in cui offrire alle forze soprannaturali che sovrintendono e regolano il ciclo della vita beni di ogni tipo (alimenti lavorati, primizie, piccoli oggetti preziosi, ecc.) per invocare la fertilità di uomini, piante e animali, e per dipingere, sulle pareti, narrazioni che hanno come protagonisti eroi, antenati, divinità nel tentativo di entrare così in contatto con esse.
Nella Grotta dei Cervi, in quelle delle Veneri, della Trinità, del Fico, vengono deposti da mani antiche una infinita varietà di beni in onore di un dio cui sono date, spesso, forme femminili, nell’eterna speranza di ottenere in cambio la rigenerazione per il mondo animale, vegetale, umano. Il dono, lo scambio rituale, avviene in luoghi percepiti come naturali ombelichi della terra, nei quali, evidentemente, è possibile entrare in contatto con le forze soprannaturali. I visitatori/viaggiatori del museo Castromediano, grazie ad una installazione di realtà aumentata, potranno rivivere le sensazioni e le emozioni di una discesa nella Grotta delle Veneri.
Ancora, gli agricoltori-allevatori del Neolitico, tra gli 8.000 e i 6.000 anni fa, percepiscono le grotte come gli spazi più idonei allo svolgimento di una molteplicità di rituali di carattere iniziatico o propiziatorio; mentre le comunità dell’età del Rame (4.000-2.000 a.C.) e del Bronzo, nel II millennio a.C., le considerano segno tangibile del legame, stretto e indispensabile, con i propri antenati defunti. In questo periodo le grotte, insieme alle strutture ipogee (naturali piuttosto che costruite dall’uomo) e ai megaliti, costituiscono il paesaggio eletto per la sepoltura e la cura dei morti, ora nettamente distinto e separato dai luoghi dove vivere.
Grotte affacciate sul mare, terrazzi e approdi rappresentano, più tardi, le evidenze di una nuova religiosità.
Sul finire dell’VIII sec. a.C., infatti, la fondazione di colonie greche lungo l’arco ionico accende ancor più l’interesse sul promontorio salentino, che gli antichi chiamano Iapigio. Accordi e scambi tra genti greche e messapiche avvengono da questo momento in poi sotto la garanzia di Thaotor Andiraho o Zis Batas, il dio che protegge i viaggi e i commerci.
Nel nostro viaggio nei Paesaggi del Sacro, il racconto di queste grotte-santuario sulle cui pareti marinai, proprietari di navi, mercanti, semplici viaggiatori hanno inciso per secoli le loro preghiere agli dei per una buona navigazione, le promesse di offerte in cambio di buon vento (anfore di vino, bestiame, statue in bronzo) e il loro
ringraziamento per il buon viaggio fatto, è affidato ancora una volta alle visioni di luce di Hermes Mangialardo che ricreano, negli spazi fluidi del Castromediano, immaginari anfratti Raccontano di Grotta di San Cristoforo e il terrazzo antistante, affacciati sulla splendida insenatura di Torre dell’Orso, con i santuari in parte crollati che ancora conservano un altare e fosse per le offerte e gli oggetti usati per le cerimonie; del terrazzo di Punta Ristola a picco sul mare profondo di Leuca con il suo enorme altare di ceneri e ossa (i capretti sacrificati agli dei) e le grotticelle-deposito di offerte; e, infine, della Grotta della Poesia, la più interna di un complesso di cavità carsiche a sud di Roca connessa a sorgenti di acqua dolce (posìa nel dialetto della Grecìa Salentina significa acqua sorgiva) con le sue preghiere di pietra (così le chiamava lo scopritore), una fitta ragnatela di inscrizioni in messapico, greco e latino a coprire i 600mq delle sue pareti.
Con il tempo, gli abitanti della Messapia mutano il modo di rappresentare gli dei, e i segni del sacro non si identificano più unicamente con lo spazio delle grotte. Dal VI sec. a.C., infatti, in molte aree del Salento affiorano forme di strutturazione degli spazi dedicati al culto, con l’introduzione di recinti, altari, escara (altari di ceneri) e depositi votivi in forma di pozzetti. Le pratiche cultuali, offerte e sacrifici, si diversificano e si adattano ai campi d’azione delle tante divinità, mentre cominciano ad apparire elementi strutturali (cornici, capitelli colonne) che trovano la loro naturale collocazione in spazi sacri.
L’emersione precoce di questi segni è certamente legata al processo di ellenizzazione in atto da tempo in Messapia. E in tutto questo un ruolo fondamentale lo giocano le storie e i miti raccontati per immagini sulle statue e sui vasi che, attraverso il mare, arrivano dalle coste ioniche e dai centri dell’Asia minore, da Corinto e
da Atene. Queste narrazioni diventano così spettacolari media per veicolare modelli e ideali greci, nel graduale processo di riferimento ai valori universali della cultura ellenica.
Le comunità locali, di fatto, si mostrano pienamente in grado di assimilare e rielaborare il nuovo linguaggio formale e le nuove tecniche artigianali provenienti dall’esterno, incrementando, sul finire del V sec. a.C., il consumo di una produzione magnogreca di vasi a figure rosse che, nei due secoli successivi, compariranno nei contesti messapici in quantità sempre crescente.
Così, scene di vita quotidiana, immagini di dei ed eroi, vicende del mito, racconti e storie raffigurati sui vasi aiutano a sedimentare le storie di popoli diversi, a rinnovare amicizie, costituire abitudini, acquisire e fare propri stili di vita e usi e costumi, e non sentirsi esclusi da quella grande koinè culturale che, da un certo momento in poi, accomuna tutto il Mediterraneo, da una sponda all’altra
Ma il rapporto con i Greci non determina forme di mera assimilazione: l’articolazione degli spazi sacri e le pratiche cultuali conservano caratteri peculiari propri dei Messapi.
I Messapi chiamano ‘pana’ le cose buone. Storie di vita quotidiana
La quotidianità dei cacciatori-raccoglitori paleolitici e mesolitici del Salento è raccontata dai manufatti in pietra scheggiata conservati per millenni nelle grotte. Nei villaggi neolitici si producono vasi in ceramica, attrezzi in osso, conchiglia, ossidiana, si realizzano tessuti, si leviga la pietra. Nelle comunità organizzate dell’età del Rame emergono gruppi di potere che si autorappresentano mediante l’ostentazione di beni.
Con l’età del Ferro, il Salento, l’antica Messapia, comincia lentamente a distinguersi all’interno di un’unità culturale che contraddistingue la regione degli Iapigi. Legami ed affinità rimangono forti ed evidenti, dall’uso di seppellire i morti in posizione rannicchiata ai decori geometrici sui vasi, ma il dialogo profondo, precoce e continuo con la grande civiltà greca da parte delle elites aristocratiche messapiche introduce novità e distinzioni tra le genti messapiche, daune e peucete.
Tra le novità che caratterizzano i Messapi, la più netta ed evidente è l’introduzione della scrittura, con l’adozione dell’alfabeto tarantino, già sul principio del VI sec. a.C. Meno evidenti ma non meno distintive sono poi le produzioni riferibili ad un artigianato ceramico specializzato che si distingue per i motivi geometrici in bruno su fondo chiaro già a partire dall’VIII sec. a.C. Grazie al mare, principale tramite delle influenze elleniche e illirico-balcaniche, il repertorio dei vasi si arricchisce di forme, motivi e segni: svastiche, losanghe, meandri, raggi pendenti e reticoli. Attorno alla metà del VII a.C., nella decorazione si introduce la bicromia, mentre, nel secolo successivo, con la rivoluzionaria introduzione del tornio veloce, si aggiungono due nuove classi ceramiche, quella a fasce e quella acroma, che continueranno ad essere prodotte fino all’arrivo dei Romani.
Tra le forme di gran lunga più caratteristiche della produzione geometrica messapica ci sono da un lato il cratere (vaso per mescere il vino) con anse a fungo, poi soppiantato nel corso del V sec. a.C. dalla forma a colonnette di derivazione greca, dall’altro la lekythos ariballica (per contenere unguenti profumati) e la trozzella che sopravvive, con varianti e modifiche nella morfologia e nelle decorazioni, fino alla fine del III sec. a.C. e oltre. Così chiamata dallo studioso tedesco M. Mayer agli inizi del ‘900, la trozzella si impone come forma distintiva dei corredi funerari femminili.
È caratterizzata da due manici a nastro ornati alle estremità da rotelle plastiche in argilla, che ricordano le carrucole dei pozzi: trozza nel dialetto locale significa ‘ruota’. Negli esemplari più tardi, ai motivi lineari geometrici si sostituiscono gli elementi vegetali – rami di edera o ulivo, rosette, fiori di loto, palmette -, secondo un gusto comune e diffuso non solo nelle officine dei vasai messapici, ma anche in quelle tarantine, attiche, alessandrine, greco-orientali. Rarissima nella ceramica messapica è la rappresentazione della figura umana: nel museo si conservano due soli esemplari, uno con scena di caccia sul collo e l’altro, di fattura eccezionale, con Eracle.L’itinerario nella quotidianità dei Messapi, in rapporto vivo e stretto con i costumi della Grecia e della Magnagrecia, continua con i racconti del simposio, vale a dire l’arte dello stare insieme tra pari, con gli straordinari vasi in bronzo (ciste, lebeti, paterae, hydriai, oinochoai) e lo strumentario (spiedi, colini, mestoli, grattugie) per mescere il vino e arrostire le carni; dell’arte della guerra, con armi da offesa e da difesa (punte di lancia e giavellotto, cinturoni ed elmi) e della paideia, la palestra, con gli strumenti per gli allenamenti e le immagini di gare sportive e agoni musicali; della musica – intesa come unione di suoni, canti e danze -, incredibilmente presente in tutte le occasioni pubbliche e private, civili e religiose, come dimostrano le tante immagini sui vasi. E ancora con il racconto della vita quotidiana al femminile: sono oggetti di uso personale che rimandano alla toilette (specchi, fibule, pinzette, contenitori di olii profumati, ecc.) all’arte della tessitura e al mondo dell’infanzia, dai giochi all’educazione. I reperti che si susseguono serrati nella fitta scansione delle vetrine sono il riflesso di una società complessa e organizzata, con una ordinata ed efficiente divisione dei ruoli ed una funzionale ripartizione dei compiti: piccoli oggetti di tutti i giorni e, più rari, oggetti di prestigio, strumenti di lavoro, ornamenti e, ancora, le straordinarie immagini sui vasi a figure rosse di produzione greca o apula ci restituiscono preziose testimonianze degli usi, dei costumi e dei rituali degli abitanti di questo estremo lembo d’Italia.
La cura dei morti, dovere di chi resta
è l’uomo di Neanderthal, nel Paleolitico medio, a praticare per primo il culto dei morti, riflesso di un pensiero simbolico strutturato e dell’instaurarsi di relazioni sociali. Con la diffusione del Sapiens, le pratiche funerarie si fanno più complesse e i defunti continuano ad essere sepolti negli spazi in cui si abita o nelle immediate vicinanze.
Nel corso del Neolitico, compaiono i primi spazi dedicati esclusivamente alle sepolture e allo svolgimento delle cerimonie funebri: le necropoli. Nel Salento, una delle prime necropoli è quella di Samari, dove sono attestate tombe scavate nel terreno con accanto spazi cerimoniali. Straordinaria per organizzazione e caratteristiche è poi la necropoli di Serra Cicora, risalente al V millennio a.C., con i suoi circoli di pietra, le fosse e i monumenti megalitici.
Nell’età del Rame, molte grotte ospitano centinaia di individui e si diffonde la pratica dei cumuli di terra e pietre a protezione delle inumazioni e incinerazioni dentro vasi. Succede a Salve, dove la necropoli (90 sepolture tra tumuli contenenti una o più incinerazioni in vaso e grandi tombe a lastroni con decine di inumazioni) è utilizzata per circa 1000 anni; e a Grotta Cappuccini, dove tra il 2500 e il 2300 a.C., 300 individui vengono sepolti insieme a vasi, oggetti di ornamento, manufatti in rame.
Singolare ed unica nel panorama archeologico dell’Italia meridionale è l’assenza, nel Salento, di sepolture riferibili al periodo compreso tra il IX e il VII sec. a.C., con l’eccezione dei neonati deposti all’interno di contenitori in argilla (enchythrismoi). Più che alla casualità delle scoperte, il fatto è imputabile alla scarsa visibilità archeologica dei rituali connessi alla sepoltura. Raccontando di Falanto, mitico condottiero dei Parteni fondatori di Taranto, alcune fonti antiche riferiscono della pratica di incinerazione dei defunti e della successiva dispersione delle ceneri durante i riti funebri (Giustino, Epit. III 4, 10-18).
A cominciare dal VI sec. a.C., il rituale funerario dei Messapi prevede l’inumazione entro fosse rettangolari scavate nella terra o nel banco tufaceo di base, o in sarcofagi di pietra locale, come nel resto del mondo greco e italico. Ma, secondo un costume esclusivo dei Messapi, le necropoli si estendono anche in settori distinti delle aree urbane, alternandosi ai nuclei di abitazioni. Inoltre, le tombe sono utilizzate nel corso del tempo per più deposizioni, connotandosi spesso come tombe di famiglia, della quale, a volte riportano il nome, inciso o dipinto sulle pareti interne. La sepoltura è seguita dalla deposizione del corredo: gli oggetti utilizzati in vita e le offerte di cibo accompagnano il defunto anche nella vita ultraterrena. Si tratta spesso, ma non esclusivamente, di oggetti indicativi dello status sociale (età, genere, ruolo) del defunto, o necessari allo svolgimento della cerimonia funebre; in ogni caso offrono, ad archeologi e studiosi, preziose informazioni sulla socialità e sulla economia di queste genti. L’identità e il ruolo del defunto sono affidate alla presenza, tra gli elementi del corredo, di oggetti di lusso, materiali esotici, monili preziosi, raffinati vasi figurati, importati dalla Grecia e dall’Oriente attraverso il Mediterrraneo, pregiati per fattura e perfezione tecnica, ma ancor di più perché carichi di valori simbolici. Successivamente, dal IV sec. a.C., questi sono demandati alle prestigiose architetture funerarie: si attestano, infatti grandi ipogei a più camere, decorati da pitture, sculture e rilievi, sul modello delle contemporanee tombe principesche macedoni ed epirote. I grandi ipogei ornati da sculture e rilievi, come quello delle Cariatidi a Vaste (in parte conservate al MArTa di Taranto) o quello cosiddetto delle porte dipinte, o ancora, il più famoso ipogeo Palmieri di Lecce (nel quale è possibile oggi immergersi con una esperienza di realtà aumentata) non sono solo i luoghi di sepoltura delle aristocrazie messapiche ma anche, e soprattutto, i luoghi della loro autorappresentazione ideale. Di contro, la presenza numerosa nei corredi funebri delle ceramiche sovradipinte, la cosiddetta ceramica di Gnathia, racconta del consolidarsi di una classe media, indissolubilmente legata alla crescita economica e demografica, all’acquisizione e alla circolazione di più evolute tecniche di sfruttamento agricolo, ad una maggiore e più semplice circolazione di risorse.
Nei decenni iniziali del I sec. a.C., le necropoli poste all’interno dei circuiti murari delle città messapiche vengono abbandonate. Continuano, invece, ad essere utilizzate, almeno in parte, quelle poste all’esterno delle città. Il fenomeno è da mettere in relazione con l’acquisizione dello statuto municipale romano per Lecce (Lupiae), al termine della guerra sociale (89 a.C.). Con la fine dello stesso secolo, è evidente un’altra trasformazione nel rituale funerario: la cremazione del defunto, talvolta insieme al corredo, e la deposizione delle ceneri in urne di terracotta, vetro o pietra.
NOTE:
Per approfondire i Paesaggi del Sacro:
Sissa, M. Detienne, La vita quotidiana degli Dei greci, 1989, (ed. italiana Bari 2001);
Pagliara, Santuari costieri, in Atti del XXX Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 4-9 ottobre 1990, pp. 503-526;
D’Andria, A. Dell’Aglio (a cura di), Klaohi Zis, Il culto di Zeus a Ugento, Catalogo della mostra, Ugento Museo Civico luglio 2002 – febbraio 2003, Cavallino 2002;
Lombardo, Tombe, iscrizioni, sacerdoti e culti nei centri messapici: aspetti peculiari tra sincronia e diacronia, in Archeologia dei luoghi e delle pratiche di culto, Atti del Convegno Cavallino 27-27 gennaio 2012; pp. 155-164;
L. Tempesta, Le immagini greche arrivano in Messapia, in Capolavori del Museo Sigismondo Castromediano, I Quaderni del Museo Provinciale 2″, Lecce 2014, pp. 61-93.
Per approfondire i Paesaggi dei Vivi:
G. Yntema, The Matt-Painted Pottery of Southern Italy, Utrecht 1985;
Lippolis (a cura di), Arte e artigianato in Magna Grecia, Catalogo della Mostra Taranto, Convento di San Domenico 1996, Napoli 1996;
Semeraro, En Néusì, ceramica greca e società nel Salento arcaico, Lecce-Bari 1997;
Ingravallo, Lontano nel tempo. La preistoria del Salento, Lecce 1999;
Alessio, G. Andreassi, Lo Sport nell’Italia Antica. Taranto, la Messapia, la Daunia, Foggia 2004;
Mannino, Vasi attici nei contesti della Messapia (480-350 a.C.), Bari 2006;
L. Tempesta, Usi, costumi e rituali dei Messapi, in Capolavori del Museo Sigismondo Castromediano, I Quaderni del Museo Provinciale 2, Lecce 2014, pp. 31-59;
Giardino, F. Meo (a cura di), Muro Leccese, I segreti di una città messapica, Lecce 2016;
Ingravallo, G. Aprile, I. Tiberi, La Grotta dei Cervi e la Preistoria nel Salento, Lecce 2019.
Per approfondire i Paesaggi dei Morti:
Lombardo, Tombe, necropoli e riti funerari in “Messapia”: evidenze e problemi, in “Studi di Antichità” 7, 1994, pp. 25-45;
Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in “Studi di Antichità” 7, 1994, pp. 137-203;
M.T. Giannotta, Una tomba rinvenuta a Vaste nel 1915 e il ruolo della trozzella nei corredi funerari messapici, in “Studi di Antichità” 11, 1998, pp. 169-178;
Aprile, E. Ingravallo, I. Tiberi, I tumuli della necropoli di Salve. Architetture e rituali nell’ideologia funeraria dell’età del Rame, Bari 2018.
di Anna Lucia Tempesta – (foto di Raffaele Puce)