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Restare è inquietudine, mutamento, mobilità…

da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020

Da lungo tempo mi occupo – non solo a livello di pensiero, di riflessione culturale, ma anche con scelte di vita ed esistenziali – di “antropologia della restanza”, di “quel che resta”, del “restare”.

Ho scritto libri, saggi, articoli – tra antropologia, storia, letteratura, psicoanalisi – su questi motivi. Ho seguito e curato iniziative promosse in tutte le regioni d’Italia da gruppi locali, associazioni, comunità impegnate in iniziative di resistenza, resilienza, restanza, di rigenerazione, soprattutto nelle aree interne, nei luoghi dello spopolamento e dell’abbandono. Potrebbe sembrare, allora, che l’imprevisto e necessario periodo del lockdown, che in lingua italiana suona come “confinamento”, sia stato accolto come una sorta di inveramento e di accettazione – come il risultato di una profezia – con facilità, quasi come un destino. E invece, l’essermi a lungo interrogato sull’etica, sulla bellezza, sulla necessità del restare – frutto di una scelta politico, culturale, esistenziale – rende ancora più doloroso e impegnativo fare i conti con un “restare” non per scelta, ma per necessità, per convinzione civile, per senso di responsabilità.

Restare a casa ai tempi del Coronavirus è molto diverso dalla filosofia del restare prima di questa catastrofe, che non è un’apocalisse, ma che all’apocalisse fa pensare. La mia idea, la mia concezione, la mia pratica del “restare” non hanno nulla a che fare con staticità, immobilità, attesa, apatia, ma raccontano una scelta di vivere e di abitare diversamente, di stabilire un rapporto vero con i luoghi, immaginando il restare come un atto di inquietudine, di mobilità, di mutamento.

Restanza richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi, appunto, in esilio e stranieri nel luogo in cui si vive e che diventa il sito dove compiere, con gli altri, con i rimasti, con chi torna, con chi arriva, piccole utopie quotidiane di cambiamento. Disponibili anche allo scacco, all’insuccesso, al fallimento, al dolore.

Restare non significa contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo.

Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. Questa concezione, questa pratica, questa etica della restanza assume oggi un altro senso, un’ulteriore verità, nel momento in cui dalle città del Nord, dai luoghi dell’esodo, migliaia e migliaia di persone sono tornate o vorrebbero tornare.  Intellettuali e studiosi pongono una domanda decisiva e cruciale: «Che si fa con i giovani tornati al Sud?». Questa è un’occasione unica, da non sprecare. Anche per una sorta di “rivoluzione antropologica”: cancellare le antiche distanze e incomprensioni tra partiti e rimasti, tra rimasti e coloro che ritornano. Sono i rimasti, assieme a quelli che adesso tornano, che forse non se ne erano mai andati, a dovere custodire memorie, a osservare rovine, a dovere intrattenere un diverso rapporto con i luoghi, a dover dare senso alle trasformazioni, a porsi il problema di riguardare i luoghi, di proteggerli, di abitarli, viverli, renderli vivibili.

Ho ripreso il mio cammino nei paesi, ho letto tante memorie degli studenti e dei giovani e avverto un sentimento nuovo: la possibilità che si possa fare qualcosa di concreto e di veramente incisivo, fino a poco tempo fa, immaginato soltanto da piccole minoranze. Attenzione, però, a posizioni localistiche, a chiusure, a false retoriche identitarie, a generici e strumentali inviti al ritorno ai paesi, magari da chi ha promosso e praticato sempre un’esasperata visione urbanocentrica. Attenzione anche a ri- vendicazioni contro un generico Nord, a visioni neoromantiche e a nostalgie inautentiche di un buon tempo antico mai esistito. Restare significa innovare, aprirsi al mondo esterno. Occorrono scelte politiche rivoluzionarie, in controtendenza rispetto al passato, un “ritorno”, diverso dal passato, alla terra, all’agricoltura, a pratiche di elaborazione e trasmissione culturale.

Serve un nuovo patto tra “partiti” e “rimasti”, tra generazioni diverse, tra governo nazionale e istituzioni locali. Siamo dinnanzi a un “che fare” che riguarda tutti: in primo luogo, oltre al governo, le Regioni, e poi Comuni, associazioni, Università, sindacato, Chiesa, movimenti dal basso, mondo del volontariato. Riguarda chi torna, chi resta, chi parte, chi, comunque, scopre un nuovo senso dell’abitare ed è persuaso ad affermare una diversa “presenza”. Sono in tanti a pensare che, finalmente, sia possibile una rigenerazione dei luoghi e della memoria, la costruzione di neo-comunità. Bisogna ripartire dai margini, dalle periferie, dagli ultimi di tutte le aree interne e delle periferie urbane, dei centri storici in abbandono, sia al Sud che al Nord. Anche da un nuovo sentimento dei luoghi e del passato da proiettare verso il futuro.

di Vito Teti


Vito Teti è ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”. Si è occupato di storia e antropologia dell’alimentazione, di antropologia del viaggio e dell’emigrazione, di antropologia religiosa, con particolare riferimento al Mezzogiorno d’Italia e al Mediterraneo. I percorsi della costruzione identitaria, il motivo della melanconia e della nostalgia, l’antropologia dei luoghi e dell’abbandono, la storia e l’antropologia dello spopolamento e delle rigenerazione dei luoghi, il rapporto antropologia-letteratura sono al centro della sua scrittura e delle sue numerose pubblicazioni, alcune delle quali tradotte all’estero. Ha realizzato numerosi documentari etnografici nel Sud Italia, in Calabria e in Canada per conto della Rai. È autore di reportage fotografici, di racconti, di memoir e narrazioni in cui intreccia, in maniera originale, etnografia, storia, autobiografia, memoria orale e memoria individuale.
Tra i suoi scritti più recenti: Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli 2004; n. ed. 2014; Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet 2011; Maledetto Sud, Einaudi, 2013; Terra Inquieta, Rubbettino, 2015; A filo doppio. Un’antologia di scritture calabro-canadesi (con Francesco Loriggio), Donzelli, 2017; Quel che resta, Donzelli, 2017; Il vampiro e la melanconia, Donzelli, 2018; Il colore del cibo, Meltemi, 2019; Pathos (con Salvatore Piermarini), Rubbettino, 2019.

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