Professore Associato in Ginecologia e Ostetricia presso l’Università di Bologna Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Responsabile Struttura Semplice Dipartimentale di Infertilità e Procreazione Medicalmente Assistita, IRCCS Azienda Ospedaliero – Universitaria Sant’Orsola di Bologna. Autrice di 255 pubblicazioni internazionali e 188 pubblicazioni nazionali. Relatrice invitata in 289 congressi internazionali e 121 congressi nazionali.
Da anni si impegna ad aiutare le coppie che vogliono avere dei figli ma hanno difficoltà. La Pandemia ha aumentato il numero dei morti, aumentando quindi il saldo negativo della popolazione. Ma ha anche aumentato lo stato di ansia e la preoccupazione per il futuro. Quanto ha inciso nelle scelte riproduttive delle coppie?
«La pandemia da Covid 19 ha creato sin dalla prima ondata, così come nelle successive, una grave sofferenza dei servizi sanitari. Per far fronte all’emergenza pandemica sono state imposte misure di contenimento del rischio trasmissivo e ristrutturazione dell’attività degli ospedali mediante la sospensione di tutte le attività cliniche e chirurgiche non urgenti.
Nell’ambito della Medicina della Riproduzione queste disposizioni hanno comportato il blocco di tutte le procedure di procreazione medicalmente assistita (PMA), sia omologhe che eterologhe, ad eccezione delle procedure finalizzate alla preservazione della fertilità nei pazienti oncologici. Tuttavia, se da un lato aver garantito in questi pazienti, più fragili e a rischio di perdere la loro fertilità, il diritto ad un futuro fertile ed alla genitorialità, ha lasciato dall’altro senza risposte numerose coppie infertili e sub fertili. La notevole flessione del numero dei trattamenti di PMA nel 2020 e 21 determinerà un ulteriore calo della natalità che va ad associarsi al calo della natalità da gravidanze spontanee. Basti considerare che circa il 2.9 % dei nati ogni anno sono nati da PMA. La pandemia da Covid ha causato infatti non solo una grave emergenza sanitaria ma anche una profonda crisi economica ed un’incertezza programmatica sul futuro che in molte coppie ha ingenerato uno stato di ansia e di preoccupazione per il futuro tale da procrastinare nel tempo la ricerca di una gravidanza».
Siamo cresciuti in un Paese dove non era raro incontrare uomini di nome “Decimo”: il decimo nato di una famiglia. Da anni assistiamo a un decremento costante e progressivo della popolazione. Oggi siamo il Paese dei figli unici, quando va bene… Qual è la sua opinione?
«Il problema ha origine dalla ricerca della prima gravidanza in un’età sempre più avanzata rispetto alle generazioni precedenti. Nel 1995 l’età media del primo figlio in Europa non superava in nessun Paese i 30 anni, e nella maggior parte dei Paesi si collocava nell’intervallo tra 23 e 28 anni. Nel 2019 l’intervallo è salito tra i 26 e i 31 anni e l’Italia ha il primato del paese europeo dove il primo figlio si fa più tardi, in media a 31,3 anni. La ricerca in età più avanzata della prima gravidanza incide negativamente sia sul tasso di natalità che sul numero di figli per donna in età fertile per il naturale declino a cui è soggetta la fertilità nella donna già a partire dai 35 anni.
L’aumento dell’età materna è una problematica sociale, politica e medica e come tale va affrontata, le cui ragioni sono da ricercarsi in: aumento degli anni scolari, lavoro e carriera, diffusione delle strategie contraccettive, scarso supporto statale alla genitorialità e lavoro femminile flessibile, diffusione del preconcetto per cui la PMA può vincere l’avanzare dell’età materna».
I dati di gennaio 2021 indicano una media giornaliera di nuovi nati sotto la soglia simbolica delle mille unità: 992. Nel gennaio 2020 erano 1159. Lo verifica anche nella sua esperienza?
«Certamente, questi dati, come detto in precedenza, sono espressione del danno sociale e demografico determinato dalla pandemia che richiederà uno sforzo consapevole e concreto delle forze politiche e sociali a sostegno della maternità e del diritto alla genitorialità».
a cura di Gioia Catamo