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giovedì, Novembre 21, 2024

Il mondo mitologico e la tradizione grika – Ulisse, ad esempio.

Ulisse. L’uomo dall’ingegno “multiforme”, come ce lo descrive Omero. Metafora del prevalere dell’intelligenza sulla forza, dell’astuzia sulla brutalità. L’uomo curioso di conoscere, di esplorare. L’uomo integro, che antepone la fedeltà al piacere. L’uomo determinato, affidabile, che non si lascia vincere dalle difficoltà e non dimentica mai la meta del cammino. L’uomo, insomma, che il mito ci presenta con le caratteristiche che tutti dovremmo o vorremmo avere. Che forse abbiamo, in una dimensione, comunque, più quotidiana e meno avventurosa.

Una metafora, Ulisse, suggestiva anche per i nostri tempi, nei quali perfino la quotidianità sembra un viaggio accidentato e pieno di pericoli, e richiede, da un lato, ingegno e inventiva, dall’altro, tenacia e capacità di adattamento, e uno sguardo fiducioso nel raggiungimento del traguardo.

La figura di Ulisse non appartiene, tuttavia, solo al mondo classico. La si ritrova, ad esempio, con alcuni dei suoi elementi, anche nella nostra tradizione grika. Ha un nome diverso, però, per quanto altrettanto evocativo e interessante. Si chiama Mesci’Achillo, e compare in una fiaba, tra le tante raccolte da Vito Domenico Palumbo alla fine dell’Ottocento. Non ha le vesti dell’eroe, nel nostro caso, ma quelle molto più umili di un ciabattino. Un personaggio cui la gente non dà molto credito, ma capace di compiere gesta imprevedibili. Il racconto griko unisce, in questa figura, più motivi favolistici. Uno è quello del giovane che non sa cosa sia la paura. Egli, sfidando lo sgomento collettivo, si reca di notte in un castello nel quale si crede ci siano i diavoli e dove, chiunque sia entrato, è morto di paura. Mesci’Achillo, invece, ne esce indenne, con grande sorpresa dei suoi compaesani. Un altro motivo presente nel racconto è quello classico di Ulisse e Polifemo, riferito con piglio ironico e divertito. Stavolta, infatti, la furbizia del ciabattino fa leva sulla vanità del gigante che, vedendosi brutto con un solo occhio, si sottopone a un improbabile intervento di chirurgia estetica. (Di seguito, viene riportato il testo integrale del racconto).

Quali strade ha percorso l’episodio narrato da Omero per giungere infine a Maria di Pati Tranti, la narratrice di Calimera che nel 1885 raccontò la storia al Palumbo?

Questo è solo un esempio, in realtà, tra i tanti che mostrano la presenza di elementi di classicità nella tradizione popolare grika. Il Palumbo doveva esserne affascinato, nel momento in cui ascoltava e trascriveva i vari racconti. E spesso annotava i riferimenti mitologici che gli venivano in mente.

Anche lo studioso inglese Richard M. Dawkins, conoscitore del Palumbo e della sua attività, mentre raccoglieva la narrativa popolare greca, registrava con analogo interesse i rapporti tra le fiabe greche moderne e le antiche storie.

L’argomento è senza dubbio seducente. Per noi in particolare, che conserviamo il patrimonio di una lingua e di una cultura dalle origini evidenti, ma ugualmente enigmatiche. In generale, esso concerne il rapporto tra la letteratura e il folklore. Una tesi singolare viene avanzata, ad esempio, a questo proposito, dallo studioso di folklore Vladimir Propp. Egli sottolinea il legame tra i due ambiti. Rileva la coincidenza di generi, di mezzi linguistici e di stili poetici (uso di similitudini, metafore, epiteti…). Ma indica anche le differenze fondamentali. La letteratura – egli dice – è creazione di un autore singolo, mentre per il folklore la creazione non si può far risalire ad un solo autore. Nel primo caso la diffusione è scritta, nel secondo è orale. Infine, le opere letterarie sono immutabili, mentre, per quanto riguarda i componimenti popolari, l’esecutore non ripete alla lettera un qualsiasi testo, ma apporta delle variazioni, dando così luogo all’importante fenomeno delle varianti. Propp si oppone, tuttavia, alla teoria che considera la letteratura popolare un decadimento della letteratura dotta. Egli sostiene il contrario: è il folklore il grembo da cui nasce la letteratura. Il letterato non fa che attingere dal materiale che il suo ambiente, il suo popolo gli offre, trasformandolo in una irripetibile creazione personale.

È suggestivo osservare da questa prospettiva il nostro patrimonio popolare. Anche le piccole tracce di mitologia classica che saltano agli occhi del lettore delle storie grike assumono, in questo caso, intriganti connotazioni. D’altra parte, una lingua non può essere considerata solo come un sistema, fatto di lessico e di regole, che serve semplicemente per la comunicazione. Una lingua contiene anche un pensiero, una visione del mondo, nonché un bagaglio di credenze, di storie, di tradizioni condivise dai parlanti.

Sicché non può lasciarci indifferenti ritrovare, nelle nostre fiabe, accanto alla buffa versione di Ulisse e Polifemo, anche altri richiami mitologici. Al mito di Danae rimanda, ad esempio, il racconto di una ragazza, chiusa dal padre in una torre buia, che resta incinta perché colpita da un raggio di sole. Ad altri miti il racconto del giovane che uccide l’orchessa, la fa a pezzi, la getta nella pentola e la cucina, poi la serve all’orco e ai suoi amici. Ad altri ancora il motivo del protagonista sottoposto dal re a diverse prove prima di ottenere la mano della figlia. Ritroviamo poi Scilla in una figura marina, denominata mamma Serena, Fedra in un tentativo di seduzione, Achille in un episodio di travestimento, Atena la puledra in una “mula che era la Madonna”, Medusa nella figura della donna che può trasformare gli uomini in pietra. Altrove compaiono richiami a Edipo, Bellerofonte, Esopo, ecc.

Naturalmente, non si tratta di stabilire dipendenze e relazioni dirette tra storie mitologiche e narrazioni popolari, ma di immaginare, seguendo la suggestione di Propp, che da un identico mondo fantastico, elaborato e conservato in una millenaria memoria, hanno attinto i poeti e i cantori della Grecia antica così come le nostre narratrici dell’Ottocento, amorevolmente registrate dal Palumbo.

Sicché, alla fine, a noi che siamo alle prese con gli impegnativi problemi del presente, sia il grandioso poema omerico, attraverso le avventure di Ulisse, sia il semplice racconto popolare di Mesci’Achillo, riferito dalla narratrice di Calimera, suggeriscono gli stessi mezzi per superare le attuali difficoltà e raggiungere la meta: l’ingegno, la determinazione, e la fiducia in noi stessi.

O KUNTO MO’ MESCI’ ACHILLO

(…) Pirte sti’ kàccia ‘s enan daso; ce nsìgnase na votisi maletiempu. Jetti mia’ skuritava, nifta, ‘en ìfsere pu na pai; èmine ‘cé citto daso. Skupèrefse ena’ livno, ce pirte ce jùrefse allòggio ‘cessu quai spidai, c’iche ena’ briganton ecessu. Iche ena’ briganton ecessu, c’ipe: – Nce nu pocu d’alloggiu? – Sine –. On èkame nâmbi ‘cessu c’èvale mia’ plaka pu ‘mpì na mi’ sosi ègui pleo.

Ce arte ipe cino: – C’evò putten ènnâguo? – Achà, ka ‘sù, ti en egui pleo? ‘Sù ènna minis ettossu ma mena, – ipe uso briganto. C’iche tossu kristianù kremammenu ecessu. C’ipe: – Ti ènn’us kami cìnunna? – Ipe cino: – Ti ènn’us kamo? Us tro; doppu spicceo cinu pianno ‘sena -. Cino tus èsfaze ce us krema na kratestune sto’ frisko.

Arte u mbike mia paura tunù ka io’ mia plaka mali c”e tin ìsoze tuo: cinon io’ gioganto ce tìn ìsoze guali. Depoi ipe: “Andé me fèrmefse ena ènna me fermefsi tuo? Arte ènna do ti ènna kamo”, ipe. Ti pènsefse tuo? O gioganto vasta enan ammai: – Esù, – ipe tuo, – vastà enan ammai, an vasta diu, fseri t’ison òrio? – Ce ‘sù ti tevnin echi? – uso gioganto tûpe tunù. – Ce ‘vò ime guasta e conza, ftiazo puru ‘màdia ce an icha na su ftiaso ammain esena puru s’o tôftiaza: nvece na vastafsin ena na vastafsin diu, – ipe. – Ce fidese ‘sù na mo kami? – Cinon ipe: – Fidèome. Ce ella’ ‘ttù, na di pos ènna se ftiaso.

On èdese ma t’antsàrtia atta poja, atta chèria, atti’ ciofali ce o’ krèmase. O’ krèmase, ènafse mia’ lumera ce rotìgnase ena’ spido, èbbie itto spido ce u tôkafse t’ammai. Depoi cino, posse rebattitses èkame, èpese ‘cimesa, spetsefse ole tes korde, t’antsàrtia, c’ìbbie votonta n’on ivri; ma ‘e ton ìvriske ka arte io’ cekao. Tuon ìbbie kau sta pròata c’e ton embeste mai, tanta tanta. Depoi tuon bòtise kamposso ce jo’ pono ce strakko pu ìbbie èpese ce o pire’ ìpuno.

Depoi o mesci’ Achillo skòrcefse mia’ pratina, in èftise c’in efe. Depoi skosi, èbbie o derma ce o krai. Ce ipe cino, o gioganto: “‘Ttossu ènna stasì cino; ènnâgui! Cino ton embesteo; ma cino ènnâgui! Efse pròata ine”. Èffie i’ plaka ce skànkose ‘mbrò sti’ porta na jaù’ ta pròata pu kau stes anke. O mesci’ Achillo èvale o derma ‘ttupanu ce guike ce cino to tàntefse, esumpone ti e’ pròato ce nsìgnase na metrisi: – C’en ena, c’in diu, c’i’ tria… – Ce mètrise ris ta fta: – Achà, – ipe cino, – tua ine fta! – Ce ‘vò ìmone o pronò, – ipe cino pu defore. Ce cino depoi raggèato; t’iche na kami pleo?

Ce poi? Depoi ‘e tus ida ti kama’ pleo! Ce spìccefse o kunto.

Maria di Pati Tranti (Calimera, 10 agosto 1885)

MAESTRO ACHILLE

(…) Andò a caccia in un bosco. Cominciò a venir brutto tempo; diventò tutto scuro, come di notte, e il poveretto non sapeva dove andare. Rimase nel bosco. Scorse un lumicino, vi si diresse e chiese alloggio in una casetta dove c’era un brigante: – C’è un po’ d’alloggio? – Sì, sì -. Il brigante lo fece entrare, poi mise dietro un macigno perché non potesse uscire più.

Maestro Achille disse: – E io da dove uscirò? – Ah, tu vorresti uscire! Invece non uscirai più; dovrai restare qui con me, – rispose il brigante. Lì dentro c’erano tanti uomini appesi: – A cosa ti servono, quelli? – A cosa servono? Li mangio. Quando li avrò finiti, mangerò te -. Il brigante li uccideva e li appendeva per tenerli al fresco.

Il povero Achille cominciò a tremare di paura; il macigno era grande e non riusciva a spostarlo; l’altro invece era un gigante e lo poteva togliere. Ma dopo un po’ pensò: “Non mi ha spaventato il primo, dovrebbe farlo il secondo? Cercherò una soluzione”. Cosa escogitò? Il gigante aveva un solo occhio: – Tu, – gli disse dunque maestro Achille, – hai un solo occhio; se ne avessi due, chissà come saresti bello! – Qual è il tuo mestiere? – chiese il gigante. – Faccio il “guasta e aggiusta”; aggiusto pure gli occhi e, dovessi sistemare il tuo, pure lo farei; invece d’averne uno, te ne farei avere due. – Sei davvero capace di farlo? – Certo che son capace. Vieni qui, vedrai come ti sistemerò.

Gli legò con le funi i piedi, le mani, la testa e lo appese. Poi accese il fuoco, arroventò lo spiedo e con quello gli bruciò l’occhio. Il gigante allora cominciò a dar strattoni finché non cadde giù, strappò tutte le funi e cercò di prenderlo; ma non riusciva a trovarlo perché era cieco. Quello si metteva sotto le pecore e il gigante, per quanto frugasse, non lo trovava mai. Dopo aver cercato per parecchio tempo, stanco e affranto dal dolore, cadde giù e s’addormentò.

Allora maestro Achille scorticò una pecora, l’arrostì e se la mangiò. Poi s’alzò, prese la pelle della pecora e se la tenne. Il gigante diceva tra sé: “Egli sta ancora qui, ma deve uscire! Lo scoprirò quando dovrà uscire. Le pecore sono sei -. Spostò il macigno e aprì le gambe davanti alla porta per far passare sotto le pecore. Maestro Achille si mise sopra la pelle e uscì; il gigante lo palpò, credette fosse una pecora e cominciò a contare: – E una, e due, e tre… – Contò fino a sette: – Ah, – disse, – queste son sette! – Ed io sono stato il primo, – disse quello da fuori. Il gigante si disperava; ma cosa poteva fare più?

E poi? Poi non ho più visto che cosa hanno fatto. E il racconto è finito.

 (dal racconto di Maria di Pati Tranti (Calimera, 10 agosto 1885)

Salvatore Tommasi

A cura di Salvatore Tommasi

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