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giovedì, Novembre 21, 2024

La speranza non è un miraggio, ma un’attesa audace

Il tempo della pandemia ci ha costretti a vivere tra miraggi e speranza, aspetti che sembrano avere qualcosa in comune, ma sono tanto diversi tra loro. I miraggi illudono, la speranza non delude. Certo, anche i miraggi hanno una loro forza propulsiva perché, come avverte l’anonimo, se è vero che «non hanno mai portato le carovane alla meta, è anche vero che senza i miraggi le carovane non sarebbero mai partite».

La speranza, però, non è un miraggio. I miraggi, infatti, si verificano nel deserto quando sembra di vedere in lontananza il riflesso del cielo sul terreno sabbioso e si pensa erroneamente di scorgere un lago; o quando, percorrendo d’estate una strada asfaltata, può capitare di vedere in lontananza il riflesso delle macchine sull’asfalto e avere l’impressione che vi sia una pozzanghera che riflette gli oggetti sufficientemente distanti. La stessa illusione avviene nei miraggi più spettacolari, prodotti da un’inversione di temperatura all’altezza degli occhi dell’osservatore, quando l’immagine appare riflessa superiormente e ci si illude di vedere oasi che in realtà si trovano oltre l’orizzonte come navi capovolte.

La speranza non va confusa neanche con l’ottimismo e ancora di più con l’illusione, la lusinga, la chimera, l’abbaglio, la prospettiva seducente e sogno irrealizzabile. La speranza

è attesa che, con il passare del tempo, si fa audace.

Sì, la speranza ha a che fare con il tempo e con l’attesa: la parola latina spes richiama anche exspectatio e, come suggerisce Eugéne Minkowski (Cfr. E. Minkowski, Le temps vécu: études phénoménologiques et phychopathologiques, Neuchâtel, Delachaux, 1933; tr. it., Il tempo vissuto: fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 1971.), il termine greco elpis dovrebbe essere collegato con la parola latina voluptas. Sperare, infatti, è desiderare; è l’estensione e la distensione del desiderio lungo il tempo, senza mai affievolirsi, anzi crescendo sempre di più, man mano che il tempo scorre. Sperare è figura del vivere che sostiene l’uomo nel travaglio del presente, senza rinunciare al futuro; è guardare oltre, destrutturare le illusioni e andare altrove. Un altrove che non sconosciuto, e proprio per questo ancora più attrattivo, spinge a camminare “oltre” ciò che ogni giorno ci seduce. Sperare è guardare oltre le comodità personali, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono il panorama, fissando lo sguardo oltre l’orizzonte e non smettere di attendere che il futuro si generi.

Soprattutto in questo tempo di pandemia, gli occhi di molti non hanno la forza di credere nel miracolo della libertà, della giustizia, del pieno riscatto e dell’importanza del non accontentarsi. Rinunciando a cercare in alto ed oltre, rimangono nella mediocrità, nell’ordine costituito, nel piegare il capo e la schiena, nei compromessi e nella retorica del gioco al ribasso. Forse abbiamo dato più peso a ciò che non abbiamo potuto fare, piuttosto che a ciò che è stato possibile realizzare, correndo il rischio di considerare il trascorrere dei giorni e dei mesi come tempo perso o soppresso se non addirittura sciupato nel rimpianto e certo da dimenticare.

Eppure, mai come in questo tempo abbiamo avuto la possibilità di vivere la “pedagogia della casa”: come quelle mura che a volte risultano strette, e gli atteggiamenti di ciascuno determinano il nervosismo o la serenità di tutti, ma che in realtà sono finestra che diventa prospettiva da cui guardare l’oltre. Se si vuole riconquistare il terreno nel cammino della speranza è urgente “ripartire” da ciò che lo stare a casa ci ha insegnato, per catapultarlo nella grande “Casa comune del mondo e dell’umanità”.

Questo è ciò che occorre: sperare cioè ripartire!

Ripartire dalla pedagogia della casa per comprendere che la “casa comune del mondo” non è un pozzo senza fondo, ma una scatola con dei confini, oltre i quali non si può andare. Per questo occorre prendersene cura, non violando tutto ciò che appartiene alla bellezza, innaffiando tutto ciò che può germogliare di bello e di buono, rispettando tutto ciò che si presenta come altro da noi, riconoscendone la sacralità.

Ripartire dalla pedagogia della casa per comprendere che la grande famiglia dell’umanità gode o soffre in base al nostro nervosismo o alla nostra serenità e che le grandi politiche della pace non si giocano sulle coordinate del potere, ma su quelle della quotidiana fragilità in cui ciascuno si impegna a dare il meglio di sé nella famiglia come nel lavoro, nello sport come nel volontariato, nella professione religiosa come nell’impegno della cittadinanza.

Ripartire dalla pedagogia della casa per allenarci a scoprire e riscoprire continuamente quelle esperienze-finestra che aprono prospettive inedite di possibilità, dove il piccolo mondo di ciascuno si apre alle grandi sfide globali, i semplici gesti di tenerezza incrementano il tasso di solidarietà universale, le parole si scoprono forze potenti nel disarmare sguardi e atteggiamenti, facendo della gentilezza uno stile di vita (cfr. Francesco, Fratelli tutti, 224). Occorre, dunque, ripartire dalla pedagogia della casa, se si vuole ancora continuare a tessere legami di fraternità e far germogliare gemme di speranza.

Solo la speranza è dotata di ali robuste per innalzare anche il nostro piccolo territorio, questo estremo lembo del Sud Salento, questo luogo di confine, questo “de finibus terrae” che è apertura all’oltre, attraverso due esperienze che mettono al centro la bellezza e la gentilezza: l’esperienza del “Parco culturale ecclesiale” per un turismo conviviale che vede le comunità diventare ospitali, generando racconti e offrendo il bello e il buono che custodiscono; l’evento internazionale di “Carta di Leuca” che, per il sesto anno consecutivo, cercherà di attualizzare la pedagogia conviviale di don Tonino Bello creando possibilità in cui avviare il processo della pace a partire dal cuore e dalla mente dei più giovani.

Sono questi sforzi che ci invitano e ci convincono sempre più a ripartire e a lasciarci sospingere dalla speranza perché non vogliamo “vivere di lamento / come un cardellino accecato” e nemmeno “morire come le allodole assetate / sul miraggio / O come la quaglia / passato il mare / nei primi cespugli / perché di volare / non ha più voglia” (Agonia di Giuseppe Ungaretti).

A cura di S.E. Mons. Vito Angiuli, Vescovo di Ugento – S. Maria di Leuca

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