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domenica, Novembre 24, 2024

Un bancomat per prelevare tempo – di Sara Bottazzo

Saggi e romanzi. Trattati di Filosofia, Sociologia e Fisica. Citazioni, slogan e aforismi. Titoli di film, di canzoni e di spartiti musicali, ma anche opere d’arte, associazioni e persino scuole di pensiero. Il tempo è in tutto ciò, ma anche in altro. Tanto altro ancora. 

È nei pensieri di tutti i giorni, nelle vicende passate, nelle morse del presente, nelle prospettive future. Modula in modo capriccioso i rimpianti, rende vischiose le malinconie, comprime le gioie, dilata le paure, sbrana le emozioni; ma riesce anche mettere ordine tra le priorità, a riparare i torti, curare le ferite, recuperare le verità, esaltare i valori che contano. 

E tuttavia, in un’epoca che ci distrae da noi stessi e da chi ci sta accanto, noi corriamo contro di esso, intrappolati in una immaginaria corsia di sorpasso, col piede nervosamente premuto sull’acceleratore, impegnati in manovre improbabili e insensate.

Spinti dalla fame di vita e schiacciati dal bisogno di avere tutto e subito, diventiamo vittime della rapidità e viviamo con estremo disagio la condizione dell’attesa, mentre l’orizzonte si accartoccia restituendoci in cambio ansie e malesseri sconosciuti.

Sara Bottazzo

La gran parte di noi, dunque, soffre di quella che in Psicologia viene identificata come Sindrome del Bianconiglio: una definizione che ci riporta al romanzo Alice nel paese delle meraviglie (Charles Lutwidge Dodgson, 1865) restituendo alla nostra memoria il personaggio del Coniglio bianco che, con il suo grande e inseparabile orologio, corre a perdifiato, perseguitato dal tempo, ripetendo continuamente “È tardi. È tardi.” 

È una sindrome di cui un po’ tutti conosciamo i sintomi: la sensazione di non riuscire a fare tutto ciò che vorremmo; il bisogno di controllare continuamente l’orologio; la paura di non farcela; il timore di risultare inadeguati; l’irascibilità in caso di contrattempi.

La competitività esasperata verso cui ci spinge la cultura occidentale comporta, infatti, una percezione distorta del tempo, intrecciata a forme di disagio che si rivelano incontrollabili e che ci logorano profondamente.

È nelle situazioni in cui gli eventi ci costringono a rallentare, reagiamo come il Daniel del film The Karatè Kid” (Regia di J. G. Avilden; 1984) nei confronti del Maestro Miyagi che, con la celebre frase “Dai la cera, togli la cera” impone all’allievo, che gli aveva chiesto di insegnargli a combattere, il compito lungo, faticoso e apparentemente non finalizzato di lucidargli le macchine. La fretta del ragazzo di raggiungere in tempi brevi il proprio obiettivo, trasformatasi in rabbia e protesta, gli impedisce dunque di comprendere che l’esecuzione di quel compito apparentemente inutile, lo avrebbe portato a irrobustire il suo animo e a conquistare i traguardi desiderati.

Il successo clamoroso di questo film, che nonostante i suoi quasi quarant’anni continua ad essere una pietra di paragone indiscussa nel confronto tra culture, spinge il nostro sguardo al di là dei confini usuali per farci approdare in terre caratterizzate da antropologie diverse dalle nostre e che possono sorprenderci.

Un valido esempio, in questo periodo prenatalizio, che è notoriamente tempo di regali, può essere il confronto tra le modalità con cui viviamo il dono noi occidentali e quelle con cui vi si approcciano i giapponesi: se, infatti, da questa parte del mondo, a cominciare dai bambini, ci si avventa sui regali (confezionati in genere in modo vistoso) scartandoli frettolosamente per impossessarci di ciò che contengono, dall’altra parte del mondo vi è un’idea culturale opposta, che dal punto di vista lessicale trova espressione nel termine “tsutsumi”, con cui si indica l’arte di impacchettare i regali avvolgendoli in materiali semplici ed eleganti che hanno la funzione di proteggere, sorprendere e farne contemplare la bellezza, senza alcuna fretta e senza alcun bisogno di bruciare il piacere del dono.

E forse può sorprenderci ancora di più sapere che alcune tribù dell’Amazzonia, come quella degli Amondawa, sono sprovviste sia di orologi che di calendari, non festeggiano i compleanni, non conoscono il prima e il dopo e vivono un eterno presente, in cui il tempo non è quantificabile, non è suddivisibile e non è incasellabile in ipotetiche sequenze grafiche e/o algoritmiche: semplicemente non esiste!

Per noi esiste, invece! 

Eccome! 

E lo percepiamo come un nemico che sembra sfuggirci e prenderci in giro. Sempre in affanno contro di esso, logorati da una lotta impari e persa in partenza, lanciati nelle direzioni più disparate, protesi verso il raggiungimento del prossimo obiettivo, continuiamo a cronometrarlo, a porzionarlo e a distribuirlo.

L’impazienza con cui viviamo la gran parte dei nostri giorni finisce per renderci incapaci di coglierne l’essenza e, contestualmente, questa folle corsa in cui siamo coinvolti e travolti ci impedisce di dare slancio alle nostre stesse idee e ai traguardi raggiunti che, non di rado, implodono senza darci alcuna gioia.

Finiamo per rimandare le gioie a domani, i desideri a dopo e persino i pensieri al poi e, intanto, accecati dall’idea che il tempo è denaro, non ci accorgiamo che molte porte si stanno chiudendo per sempre, alcuni treni partono senza più tornare e tante stagioni finiscono senza che i nostri sensi se ne siano accorti.

Ma… davvero il tempo è denaro?

Forse dovremmo chiederci se lo consideriamo tale perché lo riteniamo un bene prezioso oppure perché siamo vittime delle politiche economico-finanziarie globali che ci inducono a usare espressioni come capitalizzare tempo, guadagnare tempo, perderlo, investirlo, rubarlo. 

A questo proposito Ugo Biggeri, nel luglio del 2017, scriveva che credere che il tempo sia denaro è una aberrazione e una violenza contro l’umanità e la natura poiché esso, in realtà, misura la nostra vita, le nostre relazioni e la nostra felicità. Occorre piuttosto che il tempo che passiamo lavorando, investendo, spendendo, non sia solo denaro, ma sia vita e generatore di senso per le comunità. (U. Biggeri, Le domande di senso che in finanza non ci poniamo, in l’Avvenire, 17.07.2017).

Negli stessi anni anche Roberto Gervaso si scagliava contro questo stereotipo denunciando il fatto che il processo di monetizzazione del tempo ne ha trafugato il carattere di sacralità impedendoci di percepirlo come il valore dei valori nel senso cosmico/esistenziale del termine. Aggiungeva che occorre recuperarlo in tutta la sua sacralità e valorizzarlo nella quotidianità, in quanto il tempo coincide con la vita stessa e concludeva con un richiamo: “Insomma, avari ed avidi di tutto il mondo sappiate che nell’Aldilà il Bancomat non esiste!” (Cfr: https://www.olympos.it/cambiamento-il-tempo-non-e-denaro.html)

Si tratta di un’espressione singolare che può suggerire fantasie sfrenate sulle prossime frontiere della scienza e della tecnica e che potrebbe orientare verso l’invenzione-creazione diuna sorta di… bancomat per prelevare tempo. Penso a un bancomat da regalare a noi stessi e a chi amiamo, a cominciare dai bambini, come si faceva fino a qualche decennio fa con il libretto di risparmio. Penso a uno strumento che ci aiuti a recuperare il tempo perso, a depositarlo in un luogo sicuro e a prelevarlo quando ci serve. 

Si tratta di un’invenzione ancora tutta da progettare verso cui, tuttavia, quasi a sorpresa, ci orientano alcune piste di riflessione-azione che si fanno strada nei micromondi individuali e nei macromondi collettivi. Interessanti appaiono, infatti, i risultati di un’indagine, condotta qualche anno fa (2016) da uno dei maggiori istituti di ricerche di mercato a livello mondiale (GfK Growth from Knowledge) che coinvolgendo oltre ventiduemila persone in diciassette paesi, compresa l’Italia, ha rivelato che la percentuale di coloro che vorrebbero avere più tempo piuttosto che più soldi è maggiore del triplo (31%) rispetto a quella di chi preferisce il contrario (9%). 

Si fa strada, dunque, la consapevolezza che il tempo rappresenta la risorsa più preziosa di cui disponiamo e che il nostro rapporto con esso ha implicazioni dirette e immediate sulla qualità della nostra vita. E non è un caso il fatto che un numero crescente di persone si stia orientando verso il work life balance, ovvero verso un equilibrio sempre maggiore tra vita privata e lavoro. 

Stiamo, forse, cominciando a comprendere che l’iperattività quotidiana ci impedisce di vivere in modo soddisfacente il tempo che abbiamo a disposizione e, contestualmente, anche di comprenderlo.

Si sta delineando pertanto questo nuovo trend, rinforzato nel periodo pandemico dall’introduzione e/o estensione del lavoro agile in quasi tutti i settori aziendali che ha determinato, soprattutto nei lavoratori più giovani, un ripensamento delle proprie priorità e la ricerca di forme contrattuali alternative a quelle tradizionali (part time, quiet quitting, gig economy) in funzione di una più ampia libertà in ambito lavorativo e di  una maggiore quantità di tempo da dedicare a sé stessi, agli affetti e alle proprie passioni.

Sono scelte interessanti che rivelano, in chi le fa, un atto d’amore e di fiducia verso sé stessi e che danno ragione a Michela Murgia convinta che riconoscere la felicità sia una forma d’intelligenza perché molte volte il momento felice ci passa accanto e noi non lo capiamo perché siamo troppo presi, stanchi, in Burnout e perché le cose da fare soverchiano quello che dobbiamo essere. (Intervista a Vanity Fair, 20-06-2023).

di Sara Bottazzo

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