Il defluire del tempo è sempre stato legato a qualcosa di imponderabile e difficile da definire con accuratezza, tale da riuscire a uniformarne la percezione. La natura umana ne è sempre stata schiava, condensandone il passaggio nella propria sensibilità o nello spirito del momento di fronte ad accadimenti, di qualsiasi specie fossero, in grado di sospenderlo, velocizzarlo o rallentarlo fino ai minimi termini.
Il cinema, naturalmente, non fa eccezione.
A suo modo lo interpreta e lo definisce, con modalità diverse, dedite a modulazioni altrettanto soggettive. Uno dei maestri di questo modus operandi è stato, senza dubbio, l’americano Sidney Lumet, Oscar alla carriera nel 2005 e autore di film indimenticabili quali “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, “Quinto Potere”, “Il Principe della città”, “Il Verdetto”. Dotato della capacità di maneggiare il tempo e il suo scorrere implacabile, come si fa con un oggetto raro, da collezionare nell’alveo privato dei sentimenti, lì dove si cela la coscienza e il suo muto tribunale di giustizia.
Un effetto quanto mai presente ne “La parola ai giurati”, “12 Angry Men”, il suo primo lungometraggio datato 1957, adattamento del soggetto originale di Reginald Rose, in grado di raccogliere tre Nomination agli Oscar del 1958: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale. Una storia dominata dalla capacità di scegliere e di decidere da parte di un gruppo di uomini chiamati a compiere il proprio dovere di giurati in un tribunale americano. Dodici individui da cui dipende la sorte di un ragazzo accusato di aver ucciso efferatamente il padre violento, piantandogli un coltello a serramanico nel petto. A costoro, dalle professioni e dalle vite più disparate, è affidata la decisione finale, un verdetto di colpevolezza che potrebbe significare una morte atroce sulla sedia elettrica. Rinchiusi in una stanza per deliberare ed emettere il loro responso, diventano di colpo elementi temporali dalle sfaccettature multiple.
Il loro tempo non è più solo il loro.
Quando il giurato numero 8, appellandosi al ragionevole dubbio, si dichiara non del tutto convinto di una colpevolezza agli altri parsa da subito evidente, tutto di colpo si ferma e ricomincia. Come se una mano invisibile avesse deciso di modificare dall’interno il normale scorrere delle ore attribuendole una modalità differente, offrendo ai presenti la possibilità di rallentare e di acquisire consapevolezza di quello che si è, e, soprattutto, di quello che si è chiamati a essere. Una singolarità che diventa pluralità, fino a trasformare l’aspetto soggettivo del tempo, fino a renderlo oggettivo, uguale per tutti, vero giudice, non solo della vita dell’imputato ma di ognuno dei presenti. Lo stesso spettatore rimane vittima di questo effetto, con il tempo diacronico del cinema, costituito dalle sequenze frutto del montaggio, che si modifica in sincronico agganciandosi alla realtà di colui che guarda, suggestionandolo e mutuandone la percezione.
È uno straordinario Henry Fonda la lancetta che trasforma il passare delle ore e dei minuti. È il giurato numero 8, colui che gradualmente, argomentando e analizzando tutte le prove a carico dell’imputato, capovolge il punto di vista degli altri giurati. L’intero processo finisce per essere messo sotto accusa, mentre l’alternarsi dei primi piani e dei totali, con la macchina da presa che ne amplifica il significato cambiando le lenti dei suoi obiettivi, rivela lo stridere dei pensieri oscuri frenati da una verità ormai in marcia. La bellissima fotografia di Boris Kaufman fa il resto, affrescando l’angusto bianco e nero in tratti di luce e di ombre con un effetto quasi claustrofobico; è costante la sensazione di un tumulto interno, di una tensione pronta a esplodere ma sempre frenata, imprigionata nel compiersi della catarsi che porta dritto alla libertà.
Presa la decisione, fuori dal tribunale, la vita normale riprende, il tempo riparte di nuovo con le sue cadenze classiche, come se nulla fosse successo e nulla fosse cambiato. Resta una sensazione di leggerezza, quella di aver compiuto fino in fondo il proprio e l’altrui destino, quella di aver sedotto la frenesia del vivere per lasciare spazio alla coscienza della propria umanità.
di Frederick Pascali