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sabato, Novembre 23, 2024

1923-2023, cent’anni fa i primi due romanzi psicologici italiani

Li scrissero un triestino (allora ignoto) e un tarantino (allora molto noto). Oggi la situazione è completamente rovesciata


Cent’anni fa, nel 1923, nel pieno di uno sconvolgimento epocale della società europea e della sua stessa identità culturale, vengono pubblicati in Italia due romanzi paradigmatici di quella cultura della crisi che caratterizzò il periodo entre-deux-guerres; sono romanzi di forte impianto autobiografico ma non sono autobiografie, e sono i primi esempi in Italia di romanzo psicologico, scavano nel profondo, sfiorano il flusso di coscienza. Uno dei due, anzi, è proprio un romanzo psicoanalitico, anche se della psicoanalisi si fa beffe. 

Nel 1922 Joyce, un déraciné emblematico anch’egli della cultura della crisi, che viveva da tempo autoesiliato dall’Irlanda natìa, ed aveva soggiornato per molti anni a Trieste ancora austroungarica, aveva già pubblicato Ulysses, ma il romanzo che porta al parossismo il flusso di coscienza, con allucinazioni e giochi di parole che lo rendono praticamente intraducibile, ebbe anche grane giudiziarie per “oscenità”: fu pubblicato in Inglese a Parigi, ma nel Regno Unito e negli Usa ne fu vietata la stampa per oltre 14 anni, e in Irlanda poté essere pubblicato solo nel 1966. La prima traduzione italiana si avrà solo nel 1960. Un’opera considerata oggi un pilastro della letteratura del XX secolo, insomma, fu negletta ed ebbe circolazione molto limitata.

Nel suo lungo soggiorno triestino, dove si manteneva insegnando lingue, Joyce aveva stretto amicizia con un altro sradicato con ambizioni letterarie, ex bancario passato a dirigere la fabbrica di vernici del suocero: un ebreo di lingua tedesca, suddito dell’imperial-regio governo absburgico che si immedesimava però nella cultura italiana. Si chiamava Ettore Schmitz, era nato nel 1861 ed aveva pubblicato, nel 1892 e 1898, in autoeditoria, due romanzi in Italiano caduti nell’oblìo. Joyce e Schmitz erano molto interessati alle teorie di un altro ebreo austroungarico, Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, che proprio nel periodo fra le due guerre sarebbe deflagrata nella cultura europea. E se l’inconscio è presente nell’Ulysses (sconosciuto peraltro in Italia, come accennavamo) lo sarà anche nei due romanzi italiani apparsi l’anno dopo. 

Il primo lo pubblica il triestino Schmitz, in quasi autoeditoria presso l’editore Cappelli, col nom de plume utilizzato per i primi due libri: uno schermo che cerca di portare ad unità il suo profondo dissidio fra due delle sue tre culture (quella ebraica resta sullo sfondo): Italo Svevo. Un altro gigante della letteratura del Novecento, silenziato dalla critica e dal mondo letterario italiano, riconosciuto solo post mortem, e molto dopo la morte. L’opera è La coscienza di Zeno, uno dei libri fondamentali del XX secolo. Quelli che non la 

ignorarono stroncarono tanto l’opera quanto Svevo (che riuscì solo a godere, fino al fatale incidente d’auto che nel 1929 gli troncò la vita, di un certo credito negli ambienti intellettuali francesi, oltre al sostegno di Joyce, che ancora non era considerato un protagonista), con la quasi sola eccezione di Montale: che nei primi anni Venti non contava poi granché. 

Il secondo romanzo, intriso di morboso psicologismo, con qualche concessione al monologo interiore più che al flusso di coscienza, appare invece a puntate su una prestigiosa rivista letteraria, la Nuova Antologia, e l’anno dopo, 1924, presso uno dei più importanti editori italiani, Mondadori. Il titolo è per la verità infelice: Pricò, fra virgolette, perché s’intenda che è un nomignolo, deformazione di “precoce”, appioppato all’ipersensibile bambino protagonista della narrazione. In edizioni successive fu completato con un sottotitolo, I bambini ci guardano, come il film girato nel 1943 da Vittorio De Sica su soggetto e sceneggiatura dell’autore del romanzo, Cesare Giulio Viola, classe 1886, originario di Taranto, romano d’adozione, un potente giornalista culturale, già poeta del circolo crepuscolare romano (ma il suo unico libro di versi non lo pubblicò in autoeditoria, come Corazzini, Govoni o Palazzeschi, o presso piccoli stampatori, bensì da Riccardo Ricciardi, raffinato editore napoletano), novelliere di successo (la sua raccolta Capitoli è uscita presso Treves, uno dei giganti dell’editoria dell’epoca), che ha già intrapreso l’attività drammaturgica che ne farà uno degli autori italiani più rappresentati tra gli anni Venti e i Cinquanta. Viola ebbe anche tangenze futuriste, fu in seguito sceneggiatore cinematografico (fu uno dei quattro sceneggiatori di Sciuscià, premio Oscar) e collaborò con la radio e la nascente televisione.

Figlio dell’archeologo Luigi che, originario di Galatina, era stato il fondatore del Museo nazionale archeologico di Taranto (il primo ad essere istituito nell’Italia unita) e di Taranto era stato anche per breve tempo sindaco, Cesare Giulio, detto Cecè, aveva patito negli anni liceali all’Archita la separazione fra i genitori come un profondo trauma, che cercherà di esorcizzare in pressoché tutta la sua successiva attività di romanziere e di commediografo e che sublimerà nell’ultimo romanzo a fortissimo tasso autobiografico, Pater, dalla gestazione più che trentennale, dove cerca di riconciliarsi con la famiglia divisa, in particolare per colpa del nonno materno, un rapace imprenditore e padre-padrone che aveva imposto alla figlia di abbandonare il marito. Poco dopo aver ricevuto le prime copie di Pater, quasi per un perfetto meccanismo scenico, Viola trovava la morte per un improbabile incidente, molto teatrale: era nella sua villa di Positano, parlava al telefono dondolandosi sulla sedia, che cedette: cadde all’indietro, batté la nuca e morì in diretta telefonica. Dopo decenni di successi, cadde rapidissimo su di lui l’oblio.

Se in Pater “assolve” tutti i familiari, padre e madre, e persino il nonno, nel suo primo romanzo, Pricò, Viola narra una vicenda a tinte fosche, simile alla sua, ma più tragica: qui la separazione fra coniugi esaminata con sgomento da un bambino precoce è dovuta ai ripetuti tradimenti della donna che, perdonata, ricasca nel tradimento e provoca il suicidio del marito. Un meccanismo di proiezione che non abbandonerà mai Viola: in quasi tutte le sue opere le famiglie sono sfasciate e le protagoniste femminili sono donne perdute. Ma in Pricò è interessante il tentativo di scavare nel flusso di coscienza, quasi sfiorando il monologo interiore, di un bambino.

Beninteso, i due romanzi del 1923 sono molto differenti; e se il passare del tempo ha reso onore a Svevo e alla Coscienza, ha ingiustamente fatto cadere l’oblio sul drammaturgo, sceneggiatore cinematografico e novelliere di grande successo, oggi dimenticato. Se Pricò (subito tradotto in Francese e in Olandese, è stato riedito solo di recente, come gli altri due romanzi di Viola e il suo libro di versi, da Scorpione) non vale certo la Coscienza, merita comunque un ritorno di attenzione; specie per la junghiana sincronicità con la quale furono pubblicati i primi due romanzi psicologici italiani, intrisi di freudismo, quasi psicoanalitici. Due romanzi “europei”. E Viola, un intellettuale a 360 gradi di rango quantomeno europeo (anche a voler sorvolare sul premio Oscar), merita di essere conosciuto e ri-conosciuto.

di Giuseppe Mazzarino

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