È tempo di ripartire si sente ripetere in questi ultimi tempi e mi sono chiesto chi può indicarci una strada. La risposta, inevitabile per me che bazzico da più di cinquant’anni con l’arte, è stata: può essere proprio questa. Perché la storia dell’arte è storia di continue ripartenze.
Quando nel 2006 presentai la mostra di Romano Sambati “Geografie paesaggi a sud del sud” mi parve opportuno richiamare ciò che un altro suo acuto critico aveva osservato circa la sua svolta dei primi anni Novanta: «Ho l’impressione, anche se non lo confessa, che Sambati raschiando e raschiando via materia, un giorno abbia scorto qualcosa al di là dello schermo cupo e tragico delle superfici e si sia messo a ridere. Non poteva fare altrimenti, perché al di là del muro, nel regno del Nulla, ha trovato, proprio come nelle favole iniziatiche, il mondo da cui era partito. Ed allora ha capito di essere nel giusto. Nel regno del Nulla un viso sorridente deve avergli rivelato: quello che cerchi è ciò da cui fuggi, è la pittura; ricomincia daccapo, abbi pazienza e fai all’inverso il percorso che hai compiuto sin qui. E, così, da quelle superfici del Nulla, da quelle drastiche cancellazioni prende corpo la fonte originale del dipingere: il disegno» (Lorenzo Mango). E aveva aggiunto che si trattava di un “ritorno a casa”. Ma se la casa era ed è la “pittura”, con i Paesaggi a sud del sud diventava il suo Habitat naturale e antropico. I titoli, è bene dirlo, non sono stati dati mai da Sambati per “battezzare” le opere e per quelle presentate alla mostra sono incontestabili riferimenti al suo rapporto con i luoghi e gli eventi tradotto in immagini. Si provò anch’egli a dirci cosa fossero quelle sue “visioni” (mi si passi il termine, anche se potrebbe essere equivocato) : «Il vento che fa ondeggiare le cime degli ulivi o l’erba dei campi; il riflesso delle onde del mare o la sua spuma; la luna che fugge tra le nuvole spinte dal vento di scirocco sono solo riverberi di luoghi». Ma esse sono immagini ottenute utilizzando materiali, tecniche e strumenti a garanzia della loro densità e qualità espressiva (questa, grazie soprattutto alla abilità manuale). Del resto nel suo lungo percorso non ha mai ceduto a suggestioni filosofiche o concettuali. Allora era ormai lontano dal “mito” a cui pure aveva fatto ricorso per sottrarsi (sono sue parole testuali) “ad un ordine del mondo che costringe ogni cosa ad essere dolente e non c’è da sbagliare quando si sente la tristezza senza fondo nella quale precipitiamo”, e quelle opere erano veramente un ricominciare, un ripartire dalla pittura, dal colore che si manifestava nella sua effettiva pregnanza stilistica e poetica. Esse richiesero e richiedono nell’osservatore una necessaria sosta, proprio perché per la loro realizzazione avevano richiesto, ad esempio nell’uso del colore (vedi al scelta del tono e non del timbro, e dei gradi più tenui della luminosità, con esiti di delicatissime orchestrazioni tonali), scelte meditate, ponderate, per non parlare della stesura pittorica fatta per velature. È, dunque, così che avevano preso forma i “paesaggi”, quelli della sua terra, dei suoi due mari e del suo cielo. Mi venne spontaneo pensare, allora, anche a una circostanza biografica, che, cioè, egli aveva da sempre scelto di stabilire il suo studio in una casa di campagna, e pensare, poi, a quante volte poteva aver osservato, emozionandosi, la “luce di Novembre”, quante volte gustato la “campagna in autunno” e avvertito l’arsura estiva con la conseguente “siccità”, sentito soffiare il “vento tra gli ulivi” e anche scrutato il cielo in una notte di plenilunio, all’alba o al tramonto, e quante volte essergli capitato di spingersi sulle sponde dei due mari e percepirne il fascino della felice congiunzione. Tutto questo, che fa parte della sua storia, era ed è anche parte della storia millenaria degli uomini che quei luoghi hanno scelto come dimora, lasciandovi i loro segni, e si sarà depositato nella coscienza e nell’anima.
Si potrà dire che non era la prima volta che la “geografia” di questo sud del sud diventava oggetto di trascrizione poetica e pittorica, ma in quelle opere Sambati ha attinto a toni che, osservandole e riosservandole, sono convinto sfiorino la classicità. Se non sembrasse azzardato, mi verrebbe di adattare ad essi la formula Winckelmaniana dell’ideale classico, “nobile semplicità e calma grandezza. Le sue emozioni è come se si fossero ormai decantate dopo un lungo processo di distillazione, trasformandosi nella purezza e nella fragranza di una essenza. Come intendere diversamente la calma silenziosa e solenne di quei paesaggi dove gli insediamenti costieri (Otranto) si perdono tra cielo e mare, alla luce dell’alba o del tramonto, o il silenzioso e misterioso tremolio dei riflessi lunari sul cupo mare, o la luna, non più “mala”, (come lo era stata in un precedente ciclo), muta presenza, ma così variabile al variare del vento e della stagione, ora nella calda e velata densità dello scirocco (Luna di scirocco), che la fa sembrare un sole del tramonto, ora nel biancore gelido d’un’alba invernale che ce la fa sembrare un sole dell’aurora, se non fosse che quando è sole già tinge di rosa le fredde strisce nebbiose del cielo, facendosi strada, tra queste, lentamente.
Mi si conceda, per concludere, di fare una necessaria avvertenza, quella di non commettere l’errore di cercare l’identità naturale di quei luoghi o la verità fenomenica degli eventi climatici e atmosferici, essendone quelle immagini una sorta di trasfigurazione. La verità è che il suo ritorno a casa era avvenuto all’insegna di una riconquistata serenità, un ritrovarsi oltre la nostalgia e il rimpianto, il tormento e l’angoscia, oltre il dolore, nel profondo silenzio del proprio essere e del proprio vissuto.
ROMANO SAMBATI (Lequile 1938)
Romano Sambati è nato a Lequile il 22 marzo 1938. Si è formato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli con maestri come Emilio Greco e Augusto Perez, frequentando contemporaneamente l’annessa scuola di disegno dal nudo. Dal 1962 ha insegnato discipline pittoriche nel Liceo Artistico di Lecce. Prima testimonianza della raggiunta piena maturità è il ciclo di opere ispirato al De Rerum Natura di Lucrezio, esposte alla mostra collettiva Presenza e Memoria (San Cesario, Museo civico di Arte Contemporanea, 1981), ma in realtà il modo di leggere dell’esperienza dell’uomo e della sua storia alla luce dell’urgenza delle domande poste da un presente contraddittorio e problematico. Tappe successive del suo lungo percorso sono da considerarsi le seguenti personali: Galleria d’Arte Dimensione (Lecce 1985), Les males lunes (Grenoble Gallerie Karghese 1991), Opere su carta (Lecce, Centro d’Arte Telamone 1993), Natura con figure morte (Santeramo Galleria Neos 1994), Preghiere (Lequile, chiesa di San Nicola 2000), Il dolore nel Mito (Lecce, Conservatorio di Sant’Anna 2003), Geografie-Paesaggi a sud del sud (Lecce, chiesa di San Francesco della Scarpa 2006), Lacrimae Rerum (Lequile, Palazzo Andrioli, 2012), mostre che hanno via via confermato la sua coerente disposizione a rapportarsi, mai superficialmente, col mondo e con la realtà, disposizione giustamente definita dalla critica “meditativa”, alimentata anche da letture filosofiche, ma tenendo consapevolmente fede alla sua identità di artista. Grazie a questa coerenza, la sua ricerca espressiva non si è mai assestata in formule di comodo. Esempio del suo continuo rinnovarsi è il ciclo delle Geografie-Paesaggi a sud del sud, opere nelle quali è inutile cercare un qualche segno dell’identità dei luoghi e degli eventi naturali, essendo espressione di una autentica visione lirica. È considerato dalla critica tra le figure più rilevanti della storia artistica contemporanea per la ricchezza, la qualità e la profondità dei risultati della sua ricerca.
A cura di Lucio Galante