“Spazia ampiamente la vita del saggio che non si sente chiuso, come gli altri, entro limiti angusti” scriveva Seneca. Spaziare oltre i confini conosciuti è stata da sempre una delle sfide dell’uomo, da Ulisse a Colombo. Le grandi esplorazioni geografiche fecero nascere l’era moderna donando vasti orizzonti alla conoscenza e rivelarono una nuova, meravigliosa visione del nostro pianeta. Un grande unico pianeta al centro dell’universo che i progressi dell’astronomia indicarono essere soltanto una piccola navicella spaziale come tante, in viaggio a velocità folle nell’immenso spazio interstellare. Ancora una volta il progresso scientifico ci ha donato una nuova, rivoluzionaria immagine del nostro pianeta ed ha inevitabilmente cambiato il nostro pensiero.
“Spazia ampiamente la vita del saggio…abbraccia col ricordo il passato, utilizza il presente, pregusta il tempo che deve ancora venire”. Ma c’era un’altra sfida da cogliere: spaziare oltre i limiti inesorabili del tempo. Nella seconda metà del XIX secolo, Charles Lyell (1797 – 1875), mettendo a punto gli strumenti della moderna geologia, infrange per la prima volta la barriera del tempo, restituendoci la storia sino ad allora sconosciuta del nostro pianeta. Risalgono così dagli abissi del tempo geologico storie inaudite e singolari, che superano spesso ogni capacità di immaginazione umana.
Queste storie sono scritte in maniera più o meno frammentaria nei paesaggi e nelle rocce presenti sulla superficie terrestre. È così possibile leggere in località del tutto periferiche dal punto di vista geografico i segni lasciati da eventi di portata planetaria. Per convincerci di questo basta compiere una breve passeggiata ad Otranto o fare una breve sosta a Punta Ristola, l’estremità meridionale della Puglia, per leggere nelle rocce una storia incredibile: il prosciugamento del Mar Mediterraneo.
Attualmente il Mar Mediterraneo è in comunicazione con l’Oceano Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra. Lo stretto separa la penisola iberica a sud dal continente africano, ha una larghezza minima di 14 km tra Punta de Tarifa (Spagna) e Punta Cires (Marocco) ed una profondità massima di circa 286 m. Attraverso lo Stretto di Gibilterra le acque oceaniche, con minore contenuto salino e più leggere, entrano in superficie nel Mediterraneo mentre al di sotto dei 150 m di profondità sono le acque mediterranee, più salate e dense, a muoversi verso l’oceano.
Attualmente la quantità di acqua che il Mar Mediterraneo riceve tramite pioggia e fiumi non compensa le perdite di acqua per evaporazione dalla sua superficie. Ciò nonostante il livello del mare rimane costante perché ogni anno il Mediterraneo riceve dall’Oceano Atlantico più di 2000 km3 di acqua.
L’area dello stretto di Gibilterra, 5,6 milioni di anni fa, venne sollevata al di sopra del livello del mare per cui l’Oceano Atlantico fu separato fisicamente dal Mar Mediterraneo. Le ragioni di questo fenomeno sono state imputate al sollevamento della crosta terrestre in corrispondenza dell’area dello stretto e all’abbassamento generale del livello del mare prodotto dall’aumento di volume della calotta glaciale antartica in questo periodo.
Il Mar Mediterraneo divenne così un grande lago salato. Per 260 mila anni la forte evaporazione produsse il prosciugamento quasi totale del bacino e la deposizione di sali (gesso, anidrite, salgemma) con spessori sino a 3 km. L’elevato livello di salinità e le temperature estive molto elevate finirono molto probabilmente per trasformare il bacino del Mediterraneo in un grande deserto salato. Il Salento, fino a questo momento ricoperto dalle acque marine, divenne una terra emersa; le rocce affioranti furono soggette a processi di disgregazione molto intensi e nella parte più superficiale ridotte in frammenti (clasti) di varie dimensioni.
La forte evaporazione delle acque del Mediterraneo determinò la precipitazione sul suo fondo di spessi depositi salini, detti evaporiti. Nel 1868, il geologo svizzero Karl Mayer-Eymar, analizzando le formazioni rocciose nei dintorni di Messina, e in particolare gli strati di gesso ricchi di zolfo, identificò per primo l’esistenza di questo momento cruciale nella storia del Mediterraneo. Il periodo geologo chiuso dal prosciugamento del Mediterraneo, esteso tra 7 e 5.3 milioni di anni fa circa, venne da lui battezzato Messiniano. I depositi salini messiniani sono stati poi puntualmente intercettati da campagne di sondaggio dei fondali mediterranei nel corso degli anni Settanta del secolo scorso.
In aree interessate da un forte sollevamento per cause tettoniche, questi depositi sono stati sospinti al di sopra del livello del mare, per cui si rinvengono oggi in affioramento. Nell’Appennino bolognese questi depositi sono costituiti da grossi cristalli di gesso, dalla forma caratteristica a coda di rondine; a causa dei riflessi lunari questi cristalli sono conosciuti anche con il nome di selenite. La solubilità dei depositi gessosi ha dato qui vita ad un paesaggio carsico molto particolare, caratterizzato dalla presenza di numerosi inghiottitoi carsici e valli cieche. A queste rocce saline, ricche di minerali solfatici, si deve inoltre la presenza delle varie sorgenti termali tipiche della fascia pedeappenninica emiliano-romagnola (Castrocaro, Salsomaggiore, ecc.).
Nelle Marche e in Sicilia, invece, i depositi salini si presentano arricchiti in zolfo a causa di processi chimici secondari. Nell’isola l’estrazione del minerale dalle viscere della terra è attestata già nel II-III sec. a.C.. Il periodo di maggior sfruttamento delle miniere, le solfare, si ebbe però dalla prima metà del 1800 fino alla metà del 1900. Esse caratterizzarono gran parte dell’industria mineraria e del commercio siciliano, così come parte della produzione letteraria e della cultura immateriale legate alle tradizioni e alla vita dei minatori. Le condizioni di lavoro infernali dei “carusi” nelle solfare sono ad esempio descritte da Luigi Pirandello, figlio di un gestore di solfara, nella novella “Ciaula scopre la luna”.
All’inizio del periodo geologico chiamato Pliocene, il sollevamento del livello del mare e l’abbassamento tettonico dell’area dello stretto di Gibilterra posero nuovamente in collegamento l’Oceano Atlantico con il Mar Mediterraneo. Questo fenomeno fu molto rapido; in corrispondenza dello stretto si formarono cascate di acqua marina di dislivello e potenza superiori a qualunque cascata attuale, con una portata superiore di cento volte a quella delle Cascate Vittoria lungo il fiume Zambesi (Africa centrale) su un fronte di alcuni chilometri. I segni erosivi di queste immense cascate sono stati riconosciuti sui fondali del Mare di Alboran, nell’area ad est dello stretto.
Secondo alcune stime, il riempimento del Mediterraneo potrebbe aver richiesto non più di un centinaio di anni. Nel Salento il rapido sollevamento del livello del mare produsse il blando rimaneggiamento della coltre detritica formatasi sulle rocce affioranti. Si formò quindi un corpo geologico sedimentario di origine marina con caratteristiche molto particolari: la Formazione di Leuca.
Questa formazione geologica deve il suo nome alla località in cui per la prima volta è stata riconosciuta sul campo. La formazione appare costituita da frammenti di roccia (clasti) immersi caoticamente in sabbia più o meno grossolana. Il colore è grigio-chiaro, i fossili visibili ad occhio nudo (macrofossili) sono molto rari.
In maniera inusuale queste rocce non si presentano disposte in strati, come la maggior parte delle rocce sedimentarie di origine marina, ma mostrano un assetto caotico. La rapida risalita del livello del mare prodotta dalla inondazione, infatti, non ha permesso una profonda rielaborazione e ridistribuzione della copertura clastica ad opera del moto ondoso per cui, ad esempio, gli spigoli dei clasti non sono stati arrotondati per formare dei ciottoli. I processi di disgregazione delle rocce affioranti, infatti, determinano la formazione di frammenti di roccia caratterizzati da spigoli vivi, i clasti. Quando questi vengono trasportati per lungo tempo e per lunghe distanze da un corso d’acqua o dal moto ondoso subiscono una profonda usura degli spigoli per cui assumono una forma arrotondata diventando dei ciottoli.
Due bellissimi affioramenti delle rocce della Formazione di Leuca sono visibili a Otranto. Il primo è nel porto, in corrispondenza di una parete di scavo che oggi fa da muto sfondo alla banchina e che meriterebbe una valorizzazione culturale. Il secondo nella bella insenatura di località Le Orte dove determina la presenza di una costa dalla morfologia tormentata. Altro luogo suggestivo dove ammirare questi particolari depositi dalla genesi unica è a Punta Ristola, il punto più meridionale di Puglia, dove costituiscono delle falesie a strapiombo sul mare. Qui è possibile ammirare la differenza tra le rocce affioranti nella parte bassa della falesia, le Calcareniti di Andrano, caratterizzate da una normale stratificazione e l’aspetto caotico che contraddistingue le rocce appartenenti alla Formazione di Leuca.
Ma ormai siamo all’epilogo della nostra storia. L’inondazione del bacino del Mediterraneo riportò il livello del mare nella posizione usuale determinando la completa sommersione della penisola salentina che ritornò quindi rapidamente ad essere un fondale marino. Così resterà, se pur con brevi interruzioni sino ad un milione di anni fa, fino a quando le spinte tettoniche determinarono il recente sollevamento dell’area e lo sviluppo del paesaggio fisico attuale.
A cura di Paolo Sansò