Potrei dire, per esprimere sinteticamente il mio pensiero, che ciò che rappresenta Dante per l’Italia e la sua cultura, lo rappresenta Vito Domenico Palumbo per la Grecìa Salentina. Si parva licet… Studioso dalla poliedrica personalità, letterato, folklorista, poeta, egli ha raccolto e trascritto con cura maniacale ogni espressione popolare della cultura greco/salentina. Inoltre, attraverso la sua opera, egli ha dato, per così dire, dignità letteraria a una lingua che, nonostante il suo glorioso passato, era sopravvissuta solo per trasmissione orale, come semplice appannaggio del popolo illetterato.
Qui, però, vorrei proporre un approccio insolito all’illustre personaggio, riservandomi di dar conto dei suoi più importanti contributi culturali nell’illustrare successivamente singoli aspetti della cultura grika. Del resto, una persona insolita lo fu, il nostro studioso, geniale e controcorrente. E quindi incompreso e osteggiato.
Riferirò dunque solo un piccolo dettaglio della sua figura, marginale, forse, ma che potrebbe rappresentarcelo in una luce più viva e intrigante, e incuriosire il lettore. Come incuriosì, e inquietò, i suoi compaesani, che lo guardarono con distacco e con sospetto, elaborando e diffondendo su di lui strane dicerie.
Un piccolo paese, si sa, è il regno delle dicerie. E su “don Vito” ne circolavano parecchie. Esse dovettero essere così forti da condizionare la stessa memoria che restò di lui. Sopravvivono ancora – come ho avuto modo di constatare – a un secolo dalla morte. Qualche tempo fa, infatti, ho sentito discorrere di lui un’anziana donna: ricordava, a proposito dello scrittore, il racconto di sua madre. «Parlava con i morti» mi riferì, con un tono di voce che conservava tuttora viva la riprovazione: «Faceva cose diaboliche – disse – Una notte, mentre era nella sua casa di campagna, poco distante dall’abitato, intento a pratiche occulte, fece scatenare un terremoto e scappò, seminudo e in preda allo spavento, a chiedere aiuto in paese».
Si diceva anche che, nei giorni successivi alla sua morte, si udirono per molto tempo nella sua abitazione strani rumori notturni: la sua anima vi era rimasta evidentemente intrappolata e non riusciva ad andarsene via. Si dovette ricorrere alla benedizione del sacerdote. Aggiungete che egli manifestava, nei confronti delle comuni pratiche religiose, un atteggiamento distaccato e critico (in un poemetto in griko metteva, ad esempio, alla berlina chi faceva sfoggio di religiosità per convenienza e per godere di una buona reputazione) e che il suo contrasto con il parroco del paese si era espresso perfino attraverso manifesti.
Sicché, dopo la morte dello studioso, un suo illustre contemporaneo, amico ed estimatore, Giuseppe Gabrieli, nel chiedere al Sindaco di onorarne degnamente la memoria, sentì il dovere di precisare: «Qualcuno dei buoni Calimeresi forse si scandalizzerà e di me e della mia proposta. ‘Il professor Palumbo non era uomo religioso, nel senso comune della parola: non fu certo un praticante, né un uomo perfetto’. Eh! sì, è vero». Testimonianza importante, che ci descrive efficacemente la situazione. Il Palumbo, insomma, non era religioso “nel senso comune della parola”. Anzi, in un appunto che ho trovato tra alcuni suoi manoscritti, egli denunciava l’esteriorità e il bigottismo dei cattolici praticanti: «Di cristianesimo ce n’è tanto nel cattolicesimo, quanto in un gambero preistorico fossile c’è del gambero antico». Questa presunta “irreligiosità” (non vera, peraltro, perché nelle poesie compare un profondo senso del divino che anima l’universo) fu, in un piccolo paese di contadini analfabeti, il tratto che, tra i vastissimi interessi dello scrittore, attirò maggiormente l’atten- zione, e la riprovazione. Fu ingigantito, rielaborato, deformato. Alimentò le dicerie. In realtà non erano solo dicerie.
l nostro studioso fu anche indagatore dell’occulto. Nella sua biblioteca ho trovato un libro dal titolo “Le livre de mèdiums”. È di Kardec Allan, studioso francese che, sotto questo pseudonimo, pubblicò numerosi scritti di carattere spiritico. Palumbo stesso voleva pubblicare una sua conferenza dal titolo “Il diavolo”: probabilmente il progetto restò solo nelle intenzioni, ma testimonia lo studio di tali argomenti. E poi, che si fosse cimentato in sedute spiritiche, lo racconta lui stesso. Ho trovato, tra alcuni manoscritti inediti, un testo in versi, (datato 1897) nel quale questo suo interesse viene apertamente, seppur ironicamente, riconosciuto. Rispondendo a un “sedicente Flavio” egli confessa: “per quanto dei fenomeni / spiritici entusiasta / sia stato da principio; / pure di tale pasta / non sono da permettere / che per divertimento / mi si rigiri e menisi / pel naso o per il mento; / nemmeno da uno spirito; / anche mi voglia bene: / è cotesta una storia / che punto mi conviene”. E dichiara di voler concludere questa storia che non aveva portato ad alcun risultato.
La sua incontenibile curiosità intellettuale, dunque, lo aveva portato a indagare anche su tali fenomeni che, al suo tempo, erano argomenti in voga tra scienziati e filosofi. Lo aveva fatto, evidentemente, con la libertà che gli era propria, senza remore e infingimenti. Questo desiderio di conoscenza gli aveva procurato la riprovazione degli uomini. Probabilmente non quella di Dio, al quale si rivolgeva con parole del genere: «Padre buono, che non sei nei cieli, come dicono, ma sei dappertutto, e della tua bontà è piena ogni cosa, le stelle e i pianeti, le anime ed i corpi». Forse, il “Padre buono” gli avrà perdonato quel desiderio tutto umano di scoprire prima del tempo i segreti dell’aldilà.
Roda ce kàttia (Rose e spine)
Questa composizione, che ritengo una delle più belle poesie d’amore scritte in griko, appartiene a una raccolta di testi poetici che V. D. Palumbo intendeva pubblicare (e della quale aveva previsto anche il titolo, Roda ce kàttia – Rose e spine – ed elaborato la copertina qui riportata). La raccolta rimase inedita, come la maggior parte del suo lavoro dedicato al griko. Venne pubblicata, con lo stesso titolo, a cura di Paolo Stomeo (Lecce, 1971). Da tale edizione ho tratto il testo griko (p. 51). Il testo italiano è una mia libera traduzione
di Salvatore Tommasi
Salvatore Tommasi è nato a Calimera (Lecce) nel 1950. Laureato in Filosofia e in Lingue e letterature straniere, dopo un’esperienza di ricercatore presso l’Università statale di Mosca, ha insegnato Filosofia e Scienze della formazione nella Scuola secondaria superiore.
Ha pubblicato nel 1988 un libro di poesie, “Le mie bandiere” (Firenze Libri). Da anni si occupa del recupero e della valorizzazione della lingua e della cultura greco-salentine. Ha scritto, in tal senso, “Katalisti o kosmo”, (Ghetonia, 1996), raccolta di dialoghi e guida grammaticale del griko; “Io’ mia forà… Fiabe e racconti della Grecìa Salentina” (Ghetonia, 1998), con la trascrizione, traduzione e studio di un ricchissimo patrimonio di narrativa popolare, frutto della ricerca sul campo compiuta da Vito Domenico Palumbo alla fine dell’Ottocento; “Alia loja” (Ghetonia, 2009), raccolta di versi in lingua grika; “E òrnisa ce o sciddho, Manuale di griko per ragazzi” (Kurumuny, 2016-2019). È inoltre autore di “Loja amerikana”, commedia brillante in griko rappresentata al teatro Politeama di Lecce nell’ambito della rassegna di teatro dialettale “Le parole della memoria” (ed. 2004) e alla quale è stato assegnato il primo premio, nonché dell’atto unico “Sìmmeri”, premiato anch’esso al concorso bandito dalla Società degli Scrittori Teatrali di Cipro nel 2012.
Nel 2010 ha pubblicato il romanzo in lingua italiana “Sarakostì”, dedicato al lavoro dei carbonai di Calimera negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale (Nuova edizione Argo, 2019); nel 2016, “I tesori della cassapanca”, raccolta di racconti per ragazzi dedicati ai vecchi mestieri (Ed. Kurumuny); nel 2018, “Vito Domenico Palumbo, Letterato della Grecìa Salentina” (Ed. Argo). Ultima pubblicazione: “Dizionario di griko” (per i tipi di Argo), al cui manoscritto è stato assegnato il secondo premio “Tullio De Mauro”, nell’ambito del concorso nazionale Unpli “Salva la tua lingua locale” 2019.