Intervista a Derio Camassa, uno degli scopritori dei Bronzi brindisini
Nell’estate del 1992, un’immersione di addestramento di quattro ufficiali dei Carabinieri in località Punta del Serrone, a 2 km a nord di Brindisi, conduce al ritrovamento di un importante complesso di statue antiche di bronzo, in condizioni “particolarmente” frammentarie, oggi custodite nel Museo archeologico “Francesco Ribezzo” di Brindisi. La scoperta, tuttavia, non fu così inaspettata come le cronache del tempo raccontano. Già venti anni prima, nel 1972, in seguito al rinvenimento di un grande piede in bronzo, esposto al Museo Ribezzo e appartenente a una statua femminile colossale, si era cercato a lungo nei fondali marini indicati da chi lo scoprì, invano. Fondamentale si rivelò l’intervento di un gruppo di “archeonauti” molto speciali, il Gruppo Ricerche Archeologiche
Subacquee di Brindisi (GRAS), addestrato da Nino Lamboglia (1912- 1977), grande archeologo ligure e pioniere delle ricerche subacquee in Italia, e dalla sua équipe del Centro Sperimentale di Archeologia Subacquea di Albenga. Il GRAS, costituito da Fernando Zongolo, Derio Camassa, Vanni Meneghini, Sandro Mariano e Gino Zongoli, contribuì in modo fondamentale all’individuazione del punto esatto in cui si trovavano i Bronzi, partecipando alle operazioni di recupero insieme alla Soprintendenza Archeologica della Puglia, al Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (S.T.A.S.) del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, ai Carabinieri e alla Capitaneria di Porto di Brindisi. Un’operazione “spettacolare”, seguita in diretta dalla televisione e dalla stampa (anche straniera) dell’epoca, alla presenza delle massime autorità italiane in materia, e dell’allora Ministro dei Beni Culturali Alberto Ronchey. La scoperta destava stupore e interesse per l’antitesi tra la frammentarietà dei reperti che si estraevano e l’eccezionalità della loro cifra artistica. Elementi che li identificarono immediatamente come parti di opere d’arte, di epoche differenti, destinate alla fusione in una delle fonderie del territorio brindisino. Anche questa poteva essere una pratica usuale nel mondo antico, ma la particolarità di alcuni frammenti e la storia che poi gli archeologi hanno ricostruito, ha reso comprensibile quel clamore che accompagnò il ritorno sulla terra dei Bronzi brindisini. Dei 700 frammenti recuperati nella campagna di scavo durata due mesi (agosto-settembre 1992), solo 200 sono riconducibili a forme ben definite, tra cui sette teste-ritratto e due statue quasi integre. La loro datazione abbraccia un arco cronologico compreso fra la seconda metà del IV secolo a. C. e il III secolo d. C. Non erano scarti di officina, come si pensò inizialmente, ma opere un tempo esposte e poi intenzionalmente demolite. Le sculture, infatti, non solo sono prive di codoli di fusione, ma conservano segni di finitura superficiale e tasselli ribattuti, applicati per nascondere difetti o tracce di corrosione. Alcuni frammenti, caratterizzati da terminali distorti o fratture provocate in antico, avvalorano l’ipotesi di una demolizione mediante colpi violenti inferti deliberatamente,
escludendo il trasporto dei Bronzi come “opere d’arte” o “bottino di guerra”. La nave, presumibilmente affondata tra il IV e il V secolo d.C. (sulla base della datazione dei reperti più recenti), trasportava molto verosimilmente un carico di metallo già ridotto in frammenti, per essere più facilmente riutilizzato, specialmente nel caso delle statue colossali, come la Nike che doveva superare i due metri, di cui resta una delle ali.
Sotto l’aspetto tipologico, i frammenti si possono ascrivere a statue ideali e a statue raffiguranti personaggi realmente esistiti, protagonisti della storia di Roma dall’età ellenistica a quella imperiale. Cospicua risulta la presenza di bronzi che risalgono al II secolo d.C., in cui è possibile riconoscere tanto privati quanto membri della famiglia imperiale. Notevole interesse riveste una statua di bambina, di cui si conservano esclusivamente la testa e un braccio. La testa trova confronto, per il tipo di acconciatura “a melone”, nelle statue di marmo raffiguranti le piccole principesse della famiglia di Marco Aurelio scoperte a Olimpia, nel ninfeo di Erode Attico. Si potrebbe trattare di Annia Faustina o Domizia Faustina, figlie di Marco Aurelio e Faustina Minore. Agli stessi anni risale una testa femminile, dalla pettinatura analoga a quella di Faustina Minore che, per la peculiare resa delle onde “a serpentina”, è assimilabile ad alcuni ritratti provenienti da Atene e dall’Attica. Vari frammenti di acconciature e volti maschili sono tipici dell’età adrianea e antonina, come una testa frammentaria caratterizzata da una chioma a grosse ciocche e da una folta barba, in cui si è riconosciuto Elio Cesare, il principe adottato da Adriano, padre di Lucio Vero. “Può essere significativo il fatto che un ritratto marmoreo di Elio Cesare figuri fra le sculture che ornavano la villa di Erode Attico individuata nel Peloponneso, a Loukou”, scrive Katia Mannino, l’archeologa a cui fu affidato l’incarico di studiare i bronzi in occasione del riallestimento della sezione dedicata all’archeologia subacquea del Ribezzo, nel 2005. Due sono le statue iconiche ritrovate quasi integre: il busto in cui Paolo Moreno ha riconosciuto
Lucio Emilio Paolo, il console romano vincitore della battaglia di Pidna (168 a.C.) contro la Macedonia di Perseo, e la statua di giovane fanciullo ammantato in cui Katia Mannino riconobbe il Vibullius Polydeukion delle fonti epigrafiche (Polydeukes nelle fonti letterarie), figlio adottivo e discepolo prediletto di Erode Attico, morto all’età di circa quindici anni, intorno alla metà del II secolo d.C. La costante del nome di Erode Attico, sofista ateniese, ricchissimo mecenate e maestro di Marco Aurelio, vissuto nel II secolo d.C., alle cui statue in marmo edite rimandano quasi tutti i confronti citati dagli studiosi, ha orientato l’interpretazione della committenza di queste opere e dell’originario contesto di collocazione. Le sculture, infatti, molto probabilmente erano esposte in un santuario greco, forse in quello di Apollo a Delfi, dove è attestata una base marmorea di una statua bronzea di Polydeukion. La base – rinvenuta nell’Agorà Romana dove era stata reimpiegata nel IV secolo d.C. – reca un’iscrizione da cui si evince che la statua era stata innalzata dai Delfii a Vibullius Polydeukion, “l’eroe di Erode”, per la sua sophrosyne (la sua saggezza).
A Delfi, inoltre, Erode Attico aveva fatto realizzare un ninfeo che – come quello di Olimpia – era ornato di statue raffiguranti membri della sua famiglia. Infine, la presenza dell’iscrizione greca formata dalle lettere kappa ed epsilon, sulla spalla destra del busto di Lucio Emilio Paolo, identificata con il numero 25 secondo il sistema numerale alfabetico greco, suggerisce l’appartenenza della statua a una collezione esposta in Grecia o nel Mediterraneo orientale. L’ipotesi della provenienza dei Bronzi di Punta del Serrone da un santuario spiegherebbe, così, sia l’ampio arco di datazione del complesso sia la presenza, sul fondale di Brindisi, di numerose statue ideali ed iconiche di dimensioni colossali. Tra i frammenti di statue ideali, numerose e ben conservate quelle che rappresentano i filosofi. Tra queste, lo sguardo espressivo dalle ciglia di rame di Antistene, discepolo di Socrate e fondatore della scuola dei Cinici alla morte del maestro, nel 399 a.C., domina incontrastato la prima sala dedicata ai Bronzi di Punta del Serrone, nel Museo brindisino. È qui che, per una serie fortunata di circostanze, favorite da Emilia Mannozzi, direttrice del Museo Ribezzo, Alessandro Caiulo, avvocato e storico brindisino, e Adele Totaro, conservatrice del Museo Ribezzo, incontro Derio Camassa del gruppo GRAS.
Trent’anni dopo, Derio sussulta quando vede la testa di Antistene e mi racconta che avevano appena concluso lo scavo, quando all’improvviso si accorse di un occhio che brillava tra gli scogli del fondale.
Cosa ha provato in quel momento, quali ricordi ha di quell’estate indimenticabile?
«Ricordo che nel silenzio del mare mi batteva forte il cuore, come oggi quando rivedo questi Bronzi e, in particolare, questo reperto. Stavamo per terminare le ultime operazioni, avevamo già smantellato tutto, quando ho visto l’occhio. Ho smosso la sabbia con una mano ed è emersa questa bellissima testa, con le ciglia e le labbra in rame».
Come mai non avete mai ritrovato traccia dell’imbarcazione? Pensi davvero che sia stato un naufragio?
«Sicuramente lo è stato. Il fondale di Punta del Serrone è molto particolare, sottoposto all’azione erosiva delle correnti continue e della marea che fa affiorare scogli appuntiti, e poi li nasconde agli occhi di naviganti poco esperti o ignari della zona. La mancanza di sabbia e di altro carico, come le anfore per esempio, non ha permesso al legno di conservarsi neanche un po’».
Ho letto che il vostro gruppo subacqueo ha orientato fortemente le ricerche, aiutando le autorità competenti a individuare il punto preciso del giacimento. Come avete fatto?
«Sapevamo che da tempo, in quella zona, c’era un tesoro sommerso, ma a causa dei venti e delle correnti, o di indicazioni fuorvianti che circolavano di proposito, non riuscivamo a localizzarlo. Seguivamo attentamente i movimenti sospetti dei “tombaroli d’acqua” per cercare di salvare questo patrimonio e consegnarlo alla Storia, alla città di Brindisi e al nostro Museo, come era giusto che fosse».
Qual è il ricordo più importante di questa esperienza e cosa vorresti che fosse ricordato da chi questa storia non l’ha vissuta come te, come voi?
«Noi abbiamo lavorato sempre in silenzio, lontani dalla luce dei riflettori e degli onori che pure – anche in piccola parte – meritavamo. Però, non importa. Lo abbiamo fatto per passione e per lasciare a Brindisi e ai Brindisini un ricordo di quella che era stata la nostra città nel suo splendore antico, con il suo Porto».
Una foto di Derio che solleva sorridente, in muta, la testa della bambina di età antonina, è stata pubblicata in un articolo scritto da Valerie Raulin su Le Figaro Magazine, nell’ottobre del 1992. Derio, nominato Ispettore onorario dell’Archeologia subacquea dal 1992 al 1996, ha scoperto a Punta Penne (poco lontano da Punta del Serrone) anche la nota stadera in bronzo integra, con il contrappeso raffigurante Minerva e asta graduata a doppia portata, oggi esposta al Museo archeologico Nazionale di Egnazia, oltre a numerosi altri reperti in oro e in bronzo sempre restituiti alla Soprintendenza archeologica della Puglia e al Museo Ribezzo. Ci racconta con affetto l’esperienza di apprendimento delle tecniche di scavo subacqueo impartite al gruppo GRAS da Alice Freschi, prima donna archeologa subacquea in Italia, protagonista dell’équipe di ricerca di Nino Lamboglia. Ricorda la morte incredibile del professore ligure, imprigionato in acqua, in un incidente assurdo, proprio lui che dalla profondità dell’acqua aveva salvato così tanta antichità.
Prima di salutarci, guarda ancora una volta Antistene e mi dice che è il suo preferito perché è stato l’ultimo a essere ritrovato e perché senza quell’intuizione, quel voler cercare di nuovo, forse oggi sarebbe ancora sepolto sotto sedici metri di mare. Il filosofo cinico, probabile opera del bronzista ateniese Silanion, racchiude nel suo volto un fascino magnetico, emblema di quella singolare umanità di bronzo che gli “eroi invisibili” – come li ha definiti Emilia Mannozzi – del gruppo GRAS di Brindisi hanno contribuito a salvare.
a cura di Daniela Ventrelli
Pubblicato il 14 dicembre 2022 alle ore 10:24