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Il caso Xylella e la rigenerazione dell’agricoltura nel Salento

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Xylella fastidiosa è un batterio che svolge il ciclo vitale su diverse piante, oltre 300, legnose ed erbacee, coltivate e spontanee, alcune suscettibili, che si possono quindi ammalare, altre tolleranti, altre resistenti. L’elevato numero di piante in grado di ospitare il batterio garantisce al patogeno l’insediamento stabile nelle aree in cui è stato introdotto.

Ad infezione avvenuta il batterio provoca, riproducendosi e formando ammassi cellulari, occlusione dei vasi legnosi (xilematici) della pianta adibiti al trasporto della linfa grezza (soluzione acquosa di sali minerali) dalle radici verso l’alto. L’ostruzione è causa di seccumi che all’inizio interessano le foglie (bruscatura), poi i rami, quindi le branche (disseccamenti) fino a compromettere l’intera pianta. Gli olivi colpiti tendono a ricostituire l’apparato vegetativo emettendo polloni destinati anch’essi, in breve tempo e per la stessa causa, a deperire. Il batterio non è sporigeno, quindi non si diffonde per contatto o diffusione aerea, ma principalmente tramite insetti vettori (il più noto è la cosiddetta sputacchina, Philaenus spumarius) che, nutrendosi di linfa vegetale, incamerano il batterio da piante infette e lo introducono in altre piante della cui linfa si nutrono. Anche l’innesto (pratica ampiamente diffusa in campo ornamentale e agrario) può trasmettere il batterio ed è attendibile che la Xylella abbia raggiunto il Salento veicolata da vegetali infetti importati. L’epidemia sembra dunque conseguenza del commercio globalizzato non assistito da un’opportuna rete di sicurezza per gli organismi da quarantena. Nel 2008, quando apparvero i primi preoccupanti sintomi su olivi a ridosso della fascia costiera di Gallipoli, di Xylella non se ne parlava e il fenomeno colse tutti di sorpresa; furono ipotizzate diverse cause e concause (funghi, larve d’insetti rodilegno, inquinamento della falda acquifera, abbandono colturale, ecc.).

Nel 2013 il compianto prof. Martelli dell’Università di Bari, Dipartimento di Scienze del Suolo, della Pianta e degli Alimenti, individuò in Xylella l’agente patogeno causa della moria di olivi: all’epoca erano già seccati (quindi infetti) oltre 8.000 ettari di oliveto in provincia di Lecce. Le due principali varietà di olivo storicamente presenti nel leccese, l’Ogliarola di Lecce e la Cellina di Nardò, si mostrarono da subito particolarmente suscettibili alla malattia. In seguito è stata accertata la resistenza/tolleranza al batterio di due varietà: la FS17 (Favolosa) e il Leccino, attualmente utilizzate per i nuovi impianti. Ad oggi altre sei varietà sembrano mostrare caratteri di resistenza o tolleranza. Studi, ricerche, analisi e monitoraggi svolti da organismi scientifici e tecnici di spessore, regionali, nazionali e internazionali (EFSA), hanno confermato, oltre ogni ragionevole dubbio e ipotesi complottistica, che la causa della distruzione dell’olivicoltura nel Salento è da attribuire a “Xylella fastidiosa subsp. pauca ceppo ST53, CoDiRO (Complesso del Distaccamento Rapido dell’Olivo – Olive Quick Decline Syndrome, o OQDS, nella letteratura scientifica internazionale)”, organismo nocivo da quarantena. Non si conoscono metodi di lotta efficaci e il contenimento dell’infezione nei territori colpiti è la sola strategia adottata e adottabile per evitare il diffondersi della malattia.

Entrare nel dettaglio delle vicende che hanno caratterizzato per oltre 10 anni il dramma dell’olivicoltura salentina, fra linee guida, misure di emergenza e di tutela, piani straordinari, inchieste della magistratura, determinazioni, provvedimenti, delibere regionali, decisioni comunitarie, decreti, leggi nazionali e scontri fra poteri istituzionali, sarebbe veramente dispersivo e non esaustivo. Vale la pena considerare alcuni passaggi significativi del processo che ha interessato il territorio. Fra i tanti, il cosiddetto Piano Silletti (2015) voluto per il contenimento dell’infezione (eradicazione della pianta colpita e delle piante prossime entro un raggio di 100 metri) sul quale si riversarono pressioni di tutti i tipi, di piazza, politiche, mediatiche e giudiziarie con l’inchiesta della Procura di Lecce (sullo stesso Silletti e altre nove persone). Seguirono le dimissioni del Silletti e lo stop del piano, fino alla recente archiviazione (2019), accolta dalla Procura di Lecce, su richiesta della magistratura inquirente, per assenza del nesso di causalità: «Pare impossibile trovare la prova certa che, osservate le corrette regole di comportamento, l’evento non si sarebbe comunque realizzato». Traspaiono non poche perplessità (irregolarità, negligenza, pressappochismo, scorrettezze, prevalenza di interessi economici…) su come è stata affrontata l’emergenza dal sistema in generale, dai decisori politici alla macchina burocratica, dagli organismi scientifici a quelli tecnici.

Ad oggi (BURP n.8 del 24.01.2019) il sud della Puglia è diviso in:

– Zona infetta: comprende l’intera provincia di Lecce, Brindisi e parte di Taranto: è la zona in cui il batterio è insediato e in cui non è possibile eradicarlo. In questa zona la decisione non fissa alcun obbligo di eliminare le piante infette.

– Zona di contenimento: è la fascia di 20 km della zona infetta adiacente alla zona cuscinetto in cui devono essere effettuati il monitoraggio, l’attuazione delle misure di contenimento attraverso l’estirpazione delle piante risultate infette e la lotta al vettore.

– Zona cuscinetto: è la fascia di 10 km di larghezza che circonda la zona infetta. È una zona indenne in cui deve essere effettuato il monitoraggio e, nel caso di ritrovamento di un focolaio, l’applicazione di “misure di eradicazione”, che consistono nell’eliminazione della pianta infetta e di tutte le piante delle specie ospiti, indipendentemente dal loro stato di salute, presenti nel raggio di 100 m e nella lotta al vettore. In provincia di Lecce la superficie olivetata ammonta (ammontava) a circa 90/95.000 ettari, impiantati per il 53% con la varietà “Cellina di Nardò” e il 41% con la “Ogliarola leccese”, colpite a morte dalla Xylella in quanto, come accennato, molto suscettibili alla malattia. La restante parte, meno del 6%, è interessata da varietà di olivo introdotte di recente (Nociara, Leccino, Frantoio, Picholine ecc. che mostrano gradi di tolleranza/resistenza diversi). Considerando un patrimonio iniziale di olivi di circa 9.000.000 di piante, attualmente sono circa 6.000.000 le piante di olivo secche: una strage.

Gli olivicoltori, e con essi tutti i soggetti della filiera dell’olio, messi in ginocchio dalla perdita del patrimonio arboreo e da anni di mancati redditi, si dibattono stritolati da un’impietosa burocrazia, da normative imbarazzanti e da “gravami” di settore a stento tollerabili, speranzosi in sostegni, non solo economici, lontani all’orizzonte e senza i quali è impossibile ripartire. Finora gli aiuti al settore sono stati limitati al riconoscimento della “calamità naturale” per il 2015 (11.000.00 di euro dal Fondo di Solidarietà Nazionale, circa €600,00 ad ettaro alle sole aziende che, all’epoca, hanno potuto fare richiesta). È in itinere un riconoscimento irrisorio per il 2016 e il 2017 mentre di niente si parla per il 2019 e il 2020. Poi ci sarebbero gli aiuti previsti dal PSR, Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 della Regione Puglia, in particolare il bando della Sottomisura 5.2 “Sostegno a investimenti per il ripristino dei terreni agricoli e del potenziale produttivo danneggiati da calamità naturali, avversità atmosferiche ed eventi catastrofici” tristemente in transito sui tavoli della Regione Puglia, del Ministero e della Commissione Europea. Insomma, “la situazione è grave ma non è seria”, come si usa dire, in quanto certamente “serio” non è stato il modo in cui sono stati affrontati l’emergenza e l’avanzamento dell’epidemia, né è serio il modo in cui è, a tutt’oggi, affrontata la crisi di settore. Gli agricoltori (e non solo) guardano alla “rigenerazione” dell’agricoltura e del territorio salentino, ma la realtà in generale è complessa e quella agricola è tipicamente frammista ad aspetti sociali, ambientali, paesaggistici, turistici e fondiari di cui inevitabilmente occorre tener conto.

E allora cosa fare, come procedere?

Di certo “nessun vento è buono per chi non sa dove andare” quindi occorre conoscere la meta. Dopo la scomparsa dell’olivicoltura tradizionale che per secoli ha caratterizzato il settore produttivo agricolo, dopo la distruzione del paesaggio agrario degli uliveti (monumentali, millenari, secolari) delle zone interne e delle fasce costiere, dopo il crollo dell’economia locale, COME SI VORREBBE IL SALENTO DA QUI A VENTI, CINQUANT’ANNI tenendo conto delle caratteristiche, delle potenzialità e della vocazione dei terreni e del territorio? Di questo bisognerebbe parlare, se mai verrà superata l’emergenza economica con i necessari e urgenti aiuti al settore. Parlarne con coraggio, convinzione e perizia, tenendo conto della necessità di un approccio che richiede competenze diverse e multisettoriali (agronomiche, ambientalistiche, paesaggistiche, di macro e micro economia, di marketing, turistiche…) e condivisione della base sociale, imprenditoriale e politica.

Ideare, progettare, pianificare (nel breve, nel me- dio e nel lungo periodo) IL PIANO DI RIGENERAZIONE DEL SALENTO e poi realizzarlo strada facendo: queste le parole chiave per salvare l’agricoltura e il territorio salentino. Da anni è l’impegno sostenuto da alcune associazioni di categoria e professionali che, evidentemente, non possono far altro che indicare la strada il cui percorso dev’essere inevitabilmente tracciato dalla politica.

Maurizio Cezzi

 

 

 

 

di Maurizio Cezzi

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