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giovedì, Novembre 21, 2024

Io e il Griko

Da piccolo parlavo in griko.

Non amo parlare di me. Se talvolta lo faccio, uso la maschera della poesia. Ma, su questo argomento, parlando di me, tutto diventa più chiaro. Il caso ha voluto, infatti, che la storia del griko si intrecciasse con la mia. Nel senso che sono l’ultimo testimone (a livello generazionale) di questa lingua. Il griko era infatti la mia lingua materna. Sono nato in una famiglia umile, ma onesta e laboriosa. Una famiglia contadina. Pure le famiglie dei miei parenti, dei miei vicini, della maggior parte della gente del mio paese, assomigliavano alla mia. Anche se il mondo stava cambiando e bisognava adattarsi, cercando nuove attività e nuovi lavori, tutte le persone che conoscevo erano ancora legate, immerse nei valori, nella mentalità, nella struttura della civiltà contadina. E la loro lingua era il griko. Perché parlavamo questa lingua? Una volta, da bambino, lo chiesi a un adulto. Mi rispose: “Jatì ìmesta griki” (perché siamo griki). Era la consapevolezza di un’identità che si esprimeva nella lingua.

Eravamo greci, un po’ diversi, ormai, come la nostra lingua che, a furia di stare in terra straniera, aveva accolto in sé le parole e i suoni che le stavano intorno. Da quanto tempo stavamo in terra straniera, noi e la nostra lingua? In questa punta estrema dell’Italia, della Puglia, nel Salento? La domanda se la posero, poi, gli studiosi della cultura “alta”, quando si accorsero della strana, eccezionale, presenza. Era la fine dell’Otto- cento. Discettarono sulla nostra origine, bizantina o magnogreca, con dovizia di analisi, ma senza mai accordarsi. Gli ultimi studiosi hanno infine tagliato il nodo gordiano e hanno proposto una lunga, ininterrotta continuità, a partire addirittura dalla civiltà cretese. Millenni di storia, insomma, racchiusi nell’umile scrigno del griko.

Aveva avuto una cultura “alta” anche il griko, in realtà. Un tempo, mentre i contadini parlavano il loro greco popolare, c’erano maestri che scrivevano e insegnavano il greco dotto, c’erano monaci che copiavano opere antiche, c’erano preti ortodossi che officiavano i riti religiosi. Dal Seicento in poi, nulla più di tutto questo. La Riforma cancellò l’ultima traccia della cultura dotta, quella religiosa. Rimase solo la lingua parlata dal popolo, trasmessa oralmente attraverso le ultime generazioni. Un attaccamento tenace, per quanto territorialmente ridotto in un nucleo di nove, ora sette, paesi.

A cinque anni seppi di conoscere un’altra lingua. La nascita di mio fratello segnò, nella mia famiglia, lo spartiacque. Lo stesso spartiacque caratterizzò ogni famiglia del mio e degli altri paesi grecofoni. Solo un paese lo dilazionò di qualche anno. Senza alcun referendum, si decise allora tutti insieme che era tempo di cambiare abito comunicativo. I “vecchi” continuarono a usare tra loro il griko, con i “nuovi” si usò il dialetto romanzo. Una Babele, cui si aggiunse l’italiano perché si andava a scuola, si ascoltava la radio, si accoglieva la nuova civiltà.

L’italiano divenne poi, per me e per i miei coetanei, la lingua del lavoro, della socialità. La cultura italiana dotta, ufficiale, moderna, divenne la mia, la nostra cultura. Il griko (aveva anche una sua cultura, questa lingua?) fu relegato, comprensibilmente, forse, all’ambito strettamente familiare, ma divenne anche, meno comprensibilmente, sinonimo di ignoranza, di arretratezza, di subalternità. Un abito da buttare alle ortiche, come un vecchio attrezzo, un vecchio mobile. Una casa inadatta, da demolire.

Quanto più, tuttavia, la mia lingua materna diventava per me oggetto di memoria e non di uso, quanto più dalla casa dei miei genitori, sempre più vuota, essa si trasferiva nella mia mente, tanto più cresceva in me l’attaccamento e la considerazione nei suoi confronti. Il desiderio di darle continuità. Mi imbattei in uno studioso calimerese del passato, Vito Domenico Palumbo, che della nostra tradizione linguistica e del nostro patrimonio di cultura popolare aveva fatto il suo ambito principale di studio, dedicandovi tutta la vita, e mi accorsi della ricchezza e dell’importanza di quanto lui aveva raccolto. Decisi di seguire le sue tracce. Dando conti- nuità al griko, come lui aveva iniziato a fare, imitato da altri suoi estimatori, attraverso la scrittura. Mettendo a servizio del griko gli strumenti appresi nell’ambito della cultura “dotta”. Rendendo al griko, e alla sua cultura, la dignità che spetta loro secondo gli stessi parametri della cultura ufficiale.

Pur essendo consapevole della scarsa attrattiva di un lavoro del genere presso le nuove generazioni, succubi spesso di una totale e acritica accettazione della modernità, ritengo comunque un mio dovere “generazionale” quello di testimoniare un passato e, in particolare, una lingua di cui il destino mi ha voluto partecipe. Si tratta, credo, di un piccolo, ma inestimabile tassello per ricostruire una storia e un’identità.

Glòssama

(La nostra lingua)

Ti ene e glòssama? Pedàimmu!

‘En i’ loja tse chartì,

ka ‘sù pianni ce mattenni meletonta;

c”en i’ loja ka vrìkane grammena 

‘s kané mea paleon lisari,

‘s ena’ ticho kau stin grutta.

E glòssama e’ fonì,

fonì manechò. 

(…)

 

Cos’è la nostra lingua? Ragazzo mio!

Non sono parole d’un vecchio manoscritto,

che a fatica tu impari a decifrare;

né parole scolpite

sopra un’antica lastra di pietra,

su di un muro, in una grotta.

La nostra lingua è voce,

voce soltanto.

Tu mi chiedi qual è il suo inizio, com’è giunta fino a noi,

chi l’ha portata da queste parti,

chi l’ha appresa per primo.

Chi lo sa, ragazzo mio!

Non ti importa saperlo.

È la voce che abbiamo succhiato

dal seno di nostra madre: come il suo latte

dolce,

come il sorriso delle sue labbra;

voce che ci vestiva, trastullava, accompagnava a letto;

voce che ci insegnava le canzoni, le preghiere, l’amore,

e il mondo;

voce dell’ulivo, del fico,

voce del focolare.

Lo ricordi tu, il focolare?

E la pignatta con i piselli,

il pentolone appeso alla catena

dove si bollivano le verdure,

la scodella con l’olio bollente

dove si friggevano i calangi per Natale?

E il braciere? Lo ricordi il braciere?

Si accendevano prima i rami secchi, fuori, al vento,

perché s’alzasse una grande fiamma e i carboni

diventassero di fuoco.

– Quante storie ci ha raccontato,

quelle sere d’inverno, lì intorno al braciere,

la comare Filomena!

Come il fuoco è la nostra lingua:

ci ha riscaldato la vita.

Nessuno ha messo più ramoscelli,

nessuno ci ha soffiato sopra

perché la fiamma s’alzasse un po’,

e adesso si spegne,

con noi.

Che ti rimane? Un po’ di cenere, un bianco mucchietto.

Se tu vai a toccarlo, con una paletta nera,

se provi a rivoltarlo, ecco, vien fuori una scintilla,

una timida fiammella,

e si spegne poi,

con te.

 

(…)

Ti su meni? Lillì statti, enan aspro kulumài.

An esù pai n’on enghisi, ma mia’ mavri paletteddha,

a pai n’on escalisi, na!, su kanni kammìa spitta,

sozzi doi mian addhi vampa,

depoi sbìnnete,

ma ’sena.

(Da: Tommasi Salvatore, Alia loja, Ghetonìa, 2009)

di Salvatore Tommasi


Salvatore Tommasi è nato a Calimera (Lecce) nel 1950. Laureato in Filosofia e in Lingue e letterature straniere, dopo un’esperienza di ricercatore presso l’Università statale di Mosca, ha insegnato Filosofia e Scienze della formazione nella Scuola secondaria superiore.

Ha pubblicato nel 1988 un libro di poesie, “Le mie bandiere” (Firenze Libri). Da anni si occupa del recupero e della valorizzazione della lingua e della cultura greco-salentine. Ha scritto, in tal senso, “Katalisti o kosmo”, (Ghetonia, 1996), raccolta di dialoghi e guida grammaticale del griko; “Io’ mia forà… Fiabe e racconti della Grecìa Salentina” (Ghetonia, 1998), con la trascrizione, traduzione e studio di un ricchissimo patrimonio di narrativa popolare, frutto della ricerca sul campo compiuta da Vito Domenico Palumbo alla fine dell’Ottocento; “Alia loja” (Ghetonia, 2009), raccolta di versi in lingua grika; “E òrnisa ce o sciddho, Manuale di griko per ragazzi” (Kurumuny, 2016-2019).  È inoltre autore di “Loja amerikana”, commedia brillante in griko rappresentata al teatro Politeama di Lecce nell’ambito della rassegna di teatro dialettale “Le parole della memoria” (ed. 2004) e alla quale è stato assegnato il primo premio, nonché dell’atto unico “Sìmmeri”, premiato anch’esso al concorso bandito dalla Società degli Scrittori Teatrali di Cipro nel 2012.
Nel 2010 ha pubblicato il romanzo in lingua italiana “Sarakostì”, dedicato al lavoro dei carbonai di Calimera negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale (Nuova edizione Argo, 2019); nel 2016, “I tesori della cassapanca”, raccolta di racconti per ragazzi dedicati ai vecchi mestieri (Ed. Kurumuny); nel 2018, “Vito Domenico Palumbo, Letterato della Grecìa Salentina” (Ed. Argo). Di prossima pubblicazione, infine, un “Dizionario di griko” (per i tipi di Argo), al cui manoscritto è stato assegnato il secondo premio “Tullio De Mauro”, nell’ambito del concorso nazionale Unpli “Salva la tua lingua locale” 2019.

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