Il Museo archeologico Nazionale Jatta di Ruvo di Puglia è prima di tutto la “Collezione Jatta di Ruvo”; da qui mi sembra doveroso partire per accompagnare il lettore in questo piccolo viaggio alla scoperta di uno dei musei più significativi d’Italia.
La collezione Jatta si forma tra Ruvo e Napoli nella prima metà del XIX secolo, una stagione in cui scavi archeologici e fascino per il mondo antico, nascita dei grandi Musei europei e proto ricerca scientifica convogliano nel Regno di Napoli (e poi delle Due Sicilie) collezionisti, mercanti, avventori, ma anche raffinati studiosi provenienti dall’Europa intera.
Ruvo, da piccolo centro di provincia quasi sconosciuto, attrae allora l’attenzione degli emissari di grandi potenze straniere, complici gli articoli di noti studiosi che parlano di rinvenimenti eccezionali nelle sue ricche necropoli, già nelle riviste scientifiche del tempo, come i Bullettini dell’Istituto di Corrispondenza archeologica di Roma. Questa “pubblicità” accresce in città quel “furore” di scavi più o meno leciti che si succedevano già dagli anni Venti del 1800, e che porterà lo stesso re di Napoli, nel 1836, a costituire un’apposita Commissione dei Regi Scavi di Ruvo per avviare regi cantieri, con l’obettivo di arricchire di pezzi unici le vetrine del Real Museo Borbonico, allora in formazione. A Ruvo, in questo periodo, si parla di corsa “all’oro d’argilla” per l’importanza economica che i vasi rivestono nel mercato antiquario, rappresentando per almeno un trentennio un’occupazione redditizia per mercanti e ceti meno abbienti, non di rado anche per nobili e rappresentanti dell’alto clero.
In questo panorama possiamo, infatti, isolare tre categorie di figure principali, citate nelle fonti archivistiche del tempo: i famelici (contadini, braccianti più incolti e poveri, mercanti senza scrupoli); i notabili (la buona società locale: nobili, borghesi, alto clero); gli stranieri (collezionisti, nobili e ambasciatori) che accorrono numerosi a Ruvo alla ricerca di acquisti significativi, specialmente attirati dai grandi vasi apuli a figure rosse, merce molto ambita dagli allora costituendi Musei di Belle Arti d’Europa, come il Louvre di Parigi, il British Museum di Londra o l’Ermitage di San Pietroburgo. In questo clima storico-culturale così diversificato e dinamico, tra arrivi eccellenti e conseguenti partenze improvvise (di vasi e reperti preziosi), in cui persino il Re si mette a scavare e la polizia locale sorveglia notte e giorno i cantieri, arrivando addirittura a imprigionare chi cerca di esportare clandestinamente i reperti più rari e preziosi, si distingue il programma collezionistico che è alla base della collezione Jatta, ma prim’ancora della vita e degli ideali dei suoi fondatori: Giovanni (1767-1844) e Giulio Jatta (1775- 1836).
Giovanni Jatta nel suo “Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo nella Peucezia” (Napoli, 1844) racconta che il clima di Ruvo in quell’inizio di secolo lo turbava profondamente, specialmente per quegli scavi continui, condotti solo per lucro: “Angustiava ciò sommamente il mio spirito. Vedeva bene che quei tesori sarebbero caduti in mano de’ specolatori, i quali li avrebbero fatti passare all’Estero, senza che si fosse conosciuto neppure che l’onore e il vanto di avergli prodotti apparteneva alla mia patria, com’era avvenuto per i vasi precedentemente disotterrati. L’acquistarli tutti, quando anche mi fosse stato ciò facile, superava le forze di un privato non prevenuto e non preparato a un avvenimento straordinario che fece uscire in poco tempo dalla terra migliaia di oggetti, i quali avrebbero potuto gradatamente esser tratti fuori da essa nel corso di lunghissimi anni. Mi determinai quindi a salvarne quanti avessi più potuto: nel che fui secondato anche dal mio fratello Giulio […]”.
I due fratelli ruvesi hanno rispettivamente 54 e 46 anni quando, intorno al 1821, iniziano la collezione di famiglia. Entrambi hanno un vissuto molto particolare con una lunga carriera alle spalle, specialmente Giovanni. Formatosi agli studi di giurisprudenza in una Napoli caratterizzata da un clima illuminato e riformatore pre-Rivoluzione, vive uno dei momenti più alti della sua carriera di avvocato nel lungo giudizio per abusi feudali contro il duca Carafa d’Andria. La causa, iniziata nel 1794, si era conclusa dieci anni più tardi con la stipula di una convenzione positiva per gli abitanti di Ruvo, per i cui diritti il giovane avvocato aveva tenacemente combattuto. Nei moti rivoluzionari italiani del 1799 fu perseguitato per le sue idee liberali e costretto all’esilio, per poi rientrare a Napoli con le truppe del generale
Championnet, aderendo alla repubblica Partenopea, finendo quindi nella lista dei rei di Stato, insieme a suo fratello Giulio, ex comandante dell’esercito borbonico. Durante il decennio francese Giovanni guadagnò un’ingente fortuna con la libera attività di avvocato e acquistò anche numerose delle proprietà terriere che tanta parte ebbero nella fortuna patrimoniale degli Jatta.
Ricoprì anche importanti incarichi nella magistratura del Regno di Murat, diventando sostituto Procuratore generale alla Corte d’Appello di Napoli nel 1812. Con la restaurazione dei Borbone, nel 1815, resta ancora al suo posto, in ottemperanza a quanto deciso dalle potenze alleate del Re Ferdinando IV, obbligato a mantenere lo status quo e uno spirito di conciliazione, nel rispetto delle alte cariche in servizio durante il Decennio francese. Tuttavia, nel 1821- dopo la rivoluzione e il nonimestre costituzionale del 1820 – rientra nelle liste di proscrizione delle famigerate Giunte di Scrutinio. Non gli sarà più permesso tenere cariche pubbliche, mentre Giulio sarà obbligato a risiedere a Ruvo, agli arresti domiciliari. Dieci anni dopo, quando il re Ferdinando II accordò a tutti i proscritti la possibilità di rientrare nelle cariche pubbliche, Giovanni rifiutò e Giulio fu finalmente liberato dalla pesante accusa di disertore e reo di Stato. Ormai, d’altronde, la loro attività di collezionisti era avviata e li distraeva decisamente da ogni altra forma di implicazione pubblica, spostando la lotta politica su un piano più ideologico, attraverso una nemmeno poco celata competizione alla tutela delle antichità ruvestine niente di meno che con le autorità del Regno, a volte perfino con il Re. La collezione, in poco meno di dieci anni, a partire dal 1821, raggiunse un tale livello di qualità e di numero che già nel 1828 i due fratelli pensano alla creazione di un nuovo Palazzo familiare per ospitare degnamente, al piano terra, un museo di cinque stanze che dieci anni dopo – nel 1842 – sarà costruito ad opera dell’architetto bitontino Luigi Castellucci (1798- 1877).
Gli anni di formazione della Collezione vedono i fratelli Jatta, Giovanni a Napoli e Giulio a Ruvo, impegnati nella ricerca spasmodica dei vasi più rari per forma e per disegno, quei vasi dal “pennello finissimo” che maggiormente infiammavano l’animo del giureconsulto, fine letterato e conoscitore dei classici greci e latini, oltre che della storia antica. Anni in cui avviano scavi regolarmente autorizzati su terreni familiari, soli o in società con altri “notabili” locali; anni nei quali comprano, restaurano, sventano affari, recuperano sul mercato antiquario di Napoli ciò che illegalmente fuoriesce da Ruvo, in cui barano e a volte occultano, non senza una certa soddisfazione, qualche pezzo eccezionale sul quale il Re di Napoli aveva per decreto regio il diritto di prelazione. Anni in cui frequentano i più importanti antiquari, collezionisti e intellettuali del tempo, come il Cavaliere Edme Antoine Durand, il Duca di Blacas, Francesco Maria Avellino, Eduard Gerhard e molti altri.
I documenti conservati nell’Archivio di Stato di Bari (Fondo Monumenti e Scavi di Antichità), nell’Archivio Storico della Soprintendenza ai Beni Archeologici delle province di Napoli e Caserta, nel carteggio privato dell’Archivio storico Jatta, a Ruvo, nell’Archivio storico della famiglia Blacas, a Rigny-Ussé en Indre-et-Loire, in
Francia, oltre che nei numerosi Bullettini dell’Istituto di corrispondenza archeologica di Roma e del Bullettino archeologico napoletano, conservano una cospicua testimonianza di questo tempo così speciale.
Nel 1836, però, Giulio Jatta muore prematuramente e l’anziano giureconsulto resta l’unico custode del patrimonio familiare, con un solo erede maschio (all’epoca prerogativa indispensabile per conservare una tale eredità), il nipote Giovanni Jatta, detto Giovannino (1832- 1895), figlio di Giulio Jatta e di Giulia Viesti (1795- 1848). É all’educazione di questo rampollo che vanno tutte le sue attenzioni, come scrive in numerose lettere a sua cognata, preoccupato che la collezione familiare e ciò che rappresenta possano andare persi, o peggio dispersi all’estero “ad onta” del nome italiano.
Sarà proprio Giovannino a tutelare la storia familiare, allestendo nel 1848 il Museo nel palazzo di famiglia, seguendo le indicazioni che il padre, la madre e lo zio gli avevano così premurosamente affidato. Nella lapide posta a memoria di questa grande storia familiare, nella prima stanza del Museo Jatta, si legge il ricordo affettuoso di quest’opera a otto mani.
Giovannino, rimasto orfano di padre, madre e zio a soli 16 anni, con una posizione patrimoniale stabile ed eccezionalmente ricca, si sposa a 18 anni con Angela Cappelluti (1833- 1912), con cui formerà una famiglia molto numerosa e unita, con dieci figli e quattro figlie. Grazie ai solidi insegnamenti dello zio e della madre, a sua volta trasmetterà l’amore per la collezione di famiglia e per le antichità ruvestine ai suoi figli, che eccelleranno in numerosi campi del sapere, dalla storia alla matematica, dalla chimica alla botanica, contribuendo in modo fondamentale allo studio della collezione di famiglia attraverso la pubblicazione del “Catalogo del Museo Jatta”, edito a Napoli nel 1869.
Saranno le cure profuse nella trasmissione di questo incommensurabile patrimonio storico artistico, insieme a una forte coscienza patriottica, a determinare le sorti fortunate di questa collezione che 150 anni dopo la sua formazione, anche se non senza patimenti e difficoltà, sarà salvaguardata per sempre con il passaggio allo Stato Italiano nel 1991. Nel 1993 il Museo Nazionale Jatta apre le sue porte al pubblico, nei luoghi e nei modi in cui lo avevano voluto e pensato i suoi fondatori quasi due secoli prima. Il museo, completamente ottocentesco nell’imposta- zione espositiva, reso sovraffollato da alcune e discutibili aggiunte più moderne (le due vetrine di Bronzi nella seconda stanza), da qualche mese è oggetto di un importante intervento di restauro e non è visitabile.
Propongo ai nostri lettori una sintesi delle sue quattro stanze, attraverso le immagini di qualche visione d’insieme e di alcuni capolavori che hanno reso celebre la raccolta Jatta già nei Bullettini d’arte di metà Ottocento, in Italia e all’Estero.
Giovanni Jatta, conoscendo molto bene le sale del Real Museo Borbonico, ma anche le stanze e la collezione di Palazzo Santangelo e del palazzo del prozio Domenico Cotugno (medico di Re Ferdinando IV), sotto la cui protezione aveva vissuto nei primi anni di permanenza a Napoli, aveva una certa conoscenza e familiarità con l’allestimento museale più in voga all’epoca. Si fece, infatti, costruire tutto il mobilio a Napoli e corrispondeva regolarmente con la cognata Giulia Viesti, dopo la morte del fratello Giulio, per definire con lei dettagli anche molto tecnici come l’allestimento delle vetrine, i colori, le misure tra uno scaffale e l’altro. Il fine era quello di creare un vero e proprio luogo di cultura e di evasione intellettuale, una wunderkammer tra arte e natura, con le sale prospicenti il grande giardino del Palazzo tra busti, fontane e piante ornamentali.
Lo stesso Palazzo è concepito come un luogo unitario di arte e studio, in cui si affiancano al Museo due corpi laterali, contenenti una ricca Biblioteca e un archivio privato. La scelta espositiva rivela un criterio decisamente estetizzante, in linea con il gusto dell’epoca.
In origine le stanze del Museo erano cinque. L’ultima conteneva il medagliere, trafugato in circostanze mai del tutto chiarite in una notte del dicembre 1915. Gli Jatta decisero di ordinare i reperti dalle produzioni cronologicamente più antiche, fino ai pezzi più significativi delle due stanze centrali (isolati su plinti in legno dipinto ad imitazione del marmo), in un climax ascendente che portava il visitatore allo stupore finale dell’ultima stanza, in cui era esposto il capolavoro della collezione: il vaso di Talos. Nella prima sala si conserva, infatti, la collezione delle terrecotte figurate, come indicato nel Catalogo del 1869. Si tratta di un corpus di 103 reperti, distinti in quindici tipologie secondo il catalogo moderno pubblicato dalla scrivente nel 2004. La maggior parte di queste terrecotte somigliano a quelle prodotte nei centri di area apula e campana più vicini all’ambito culturale greco. Oltre a Ruvo, ritroviamo infatti, soggetti analoghi a Egnazia, Conversano, Monte Sannace e Canosa. L’area campana è invece rappresentata da Paestum, Capua e Cuma, che producevano gli esemplari più simili a quelli della nostra collezione, mostrando un’evidente influenza artistica che questi centri esercitavano su Ruvo. Ci sono anche esemplari di derivazione orientale e soggetti d’ispirazione teatrale, provenienti dall’Attica e dalla Sicilia (Lipari), ma non pochi sono gli esempi di figurine che si caratterizzano per un’influenza artistica del tutto indigena, evidente in particolare negli abiti, nelle pettinature e nei tratti del viso, aggiunti e risistemati spesso anche dopo la cottura, segno di una probabile presenza a Ruvo di ateliers di coroplasti insieme, o accanto, alle officine dei noti ceramisti.
Le vetrine della prima stanza contengono anche una serie di esemplari di ceramica con decorazione geometrica provenienti dalle tre aree culturali apule: Daunia, Peucezia e Messapia. Una vetrina è poi interamente dedicata alla ceramica cosiddetta di Gnathia, vasi di medio-piccole dimensioni dalla vernice nera con sovraddipintura in ocra, bianco e rosa. Fine ceramica da mensa, prodotta a Taranto, tra IV e III secolo a.C.
Con la seconda stanza inizia la presentazione della ceramica a figure rosse, di produzione principalmente apula, lucana, ma anche greca. Gli esemplari più importanti furono selezionati ed esposti sui plinti. Si tratta di tre vasi apuli monumentali, due anfore e un cratere a volute, prodotti da officine di una certa importanza e attribuiti a due artisti ben noti: il Pittore di Licurgo per le due anfore panatenaiche e il Pittore di Baltimora per il grande cratere detto dei “Niobidi”, datato al 320 a.C. Soffermandoci su quest’ultimo vaso, possiamo subito affermare che si tratta dell’esemplare più grande e con il maggior numero di figure dell’intera collezione Jatta, anche se di qualità non sempre eccellente, come spesso accade nel periodo finale della ceramografia apula a figure rosse, evidente nell’uso eccessivo di riempitivi e sovraddipinture.
Il mito raffigurato nella parte principale occupa la scena su tutto il corpo del vaso e racconta l’eccidio dei figli di Niobe ad opera di Apollo e Artemide, braccio armato della Dea Latona, loro madre. Niobe, regina di Tebe con Anfione re, per Latona è rea di vantarsi della sua numerosa prole. La donna aveva, infatti, partorito ben 14 figli: sette fanciulle e sette fanciulli. La dea, visibile sulla spalla del vaso, in alto, al centro e in trono, è accompagnata da un pantheon in cui si riconoscono Iris, Atena, Ermes, Ares, Afrodite e Pan. Assiste alla scena con distacco, incarnando quella phthonos ton theon di cui i grandi classici e la tragedia greca dovevano portare all’epoca numerosi esempi, suscitando non poca impressione.
La terza stanza si distingue per la presenza di esemplari della ceramografia apula e lucana, davvero notevoli.
Ricordiamo il cratere “delle Esperidi” del Pittore di Licurgo e il Cratere delle “Leucippidi” del Pittore di Sisifo sui due plinti centrali, ma anche il cratere “di Cicno” della cerchia del Pittore della Nascita di Dionisio, lateralmente a sinistra, entrando nella stanza.
In fondo a destra, sempre rispetto all’entrata, si trova il cratere proto lucano con il mito di Fineo, del Pittore di Amykos. Centralmente, sul fondo a sinistra della stanza, fu collocato il busto marmoreo di Giovanni Jatta junior, a significare l’importanza di questa sala per il contenuto che i suoi curatori avevano voluto darle e anche per la presenza, nelle vetrine che circondano i vasi sui plinti, dei noti bicchieri a protome zoomorfa, i rhytà, di cui tutti i collezionisti erano grandi appassionati.
Si ricordi a tal proposito che il duca di Blacas , ambasciatore francese a Napoli e consigliere di Luigi XVIII e Charles X (fratelli di Luigi XVI, per intenderci), era venuto a Ruvo nel 1826 ad acquistare proprio tre di questi noti bicchieri, provocando le ire di Giovanni Jatta che vedeva in questo genere di affare il tradimento del valore più alto che lui associava alle antichità di Ruvo: il concetto di una Patria e di un patrimonio da difendere e conservare a Ruvo, neanche a Napoli!
La collezione Jatta possiede circa un centinaio di esemplari di questi bicchieri a testa di asino, bue, cavallo, rana, leone, toro, delfino, grifone (e altre forme rare), di produzione apula e attica, vanto e orgoglio della raccolta per il magistrato ruvese che in una lettera al fratello Giulio, il 30 luglio 1828, scriveva che “nessuno aveva una serie di teste di diversi animali rispettabili come la sua, nemmeno il Re!” Difficile operare una selezione nei vasi da descrivere in questa sede, ma spero che il lettore non me ne voglia se scelgo di ricordare la storia che trasmette il vaso detto di “Fineo”, anche perché si tratta di uno dei rari casi di cui conosciamo il contesto di ritrovamento.
Dalla corrispondenza tra Giovanni e Giulio Jatta, analizzata dalla scrivente nell’ambito del progetto di ricerca internazionale Rubi antiqua, già accolto dal dipartimento ANHIMA UMR 8210 (CNRS – Parigi), ora dalla Regione Puglia in collaborazione con l’Università di Friburgo (Svizzera), in particolare in due lettere datate 12 e 15 dicembre 1827, sappiamo che il vaso fu ritrovato alcuni giorni prima in uno scavo iniziato in un fondo nelle campagne di Ruvo, non lontano dalla Porta Sant’Angelo. Qui si rinvennero numerose tombe, di cui alcune integre, ma modeste nelle dimensioni e nel corredo e due, invece, di grandi dimensioni, poste l’una accanto all’altra e già violate in antico dove, tra numerosi frammenti, gli Jatta ritrovarono due tra i vasi più importanti della loro collezione: il cratere lucano di Fineo e il noto cratere apulo attribuito al Pittore della Nascita di Dioniso, baccellato, con scena continua di corsa di quadrighe, oggi presente nella quarta stanza del Museo Jatta. Il vaso di Fineo non era integro, ma l’importanza del pezzo per raffinatezza, composizione e mito fu subito evidente.
Giovanni lo fece restaurare a Napoli, da Don Aniello Sbani, suo restauratore di fiducia, e se ne appassionò a tal punto da mettersi a studiare a lungo per identificarne il mito e spiegare al fratello, e ai colleghi e agli amici, storia e significato.
Il 12 dicembre del 1827 scrive al fratello: <<Ho veduta già scoverta la nave, la quale sta sotto uno dei manichi. Questa nave mi farà spiegare il vaso. Io ho cominciato ad aprire i libri, e mi lusingo che ne prenderò la costruzione>>. Questo vaso a figure rosse è generalmente attribuito al Pittore di Amykos, che operava nella colonia achea di Metaponto, e si data alla fine del V secolo a.C. (tra il 425 e il 400 a.C.). È un cratere a volute con gli attacchi desinenti in protomi di cigno, con anse decorate da girali, foglie e palmette, che risultano comuni a un ristretto gruppo di esemplari italioti di scuola apula. Si tratta di vasi che derivano da prototipi magnogreci in bronzo. Sul corpo del vaso è rappresentata una scena figurata che si svolge senza soluzione di continuità, anche sui fianchi, con la “cronaca” della liberazione del Re di Tracia Fineo dalle Arpie, ispirata quasi certamente a un lungo passo del II libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, più che al “Fineo” di Eschilo, come in passato alcuni hanno ipotizzato.
Il re di Tracia compare in alto, al centro, sul lato principale del vaso. Alla sua sinistra sono raffigurati Giasone e la prua della nave Argo, in basso il fedele Parebio, in abiti orientali, ed Ermes. A destra di Fineo, i boreadi alati Zete e Calaide, inseguono due Arpie. Sul lato opposto, sotto le anse, gli Argonauti sono rappresentati in riposo, attorno ad Atena e presso una fontana.
Nella scena è rappresentato il momento immediatamente successivo alla razzia quotidianamente compiuta dalle Arpie ai danni del povero re, condannato dagli dei alla cecità perché aveva abusato del dono della predizione che gli era stato concesso. Alla rappresentazione di figure in movimento del lato principale, si contrappongono, nella metà opposta del vaso, le immagini degli argonauti in riposo, disposti in gruppi, alcuni muniti di armi, altri dei soli attrezzi da palestra, come il personaggio seduto di fronte ad Atena, la divinità protettrice dell’impresa che favorì la costruzione della nave Argo.
Il cratere di Ruvo riveste particolare importanza anche perché restituisce la rappresentazione più completa del mito di Fineo e degli Argonauti, più volte raffigurato nell’arte greca, sin dall’età arcaica, e documentato nella ceramica italiota solo su un frammento attribuito al Pittore di Hearst.
Infine, nell’ultima e piccola stanza, dove centralmente rispetto all’entrata è posto il busto togato del magistrato ruvese, sono esposti alcuni tra i capolavori della ceramografia apula e attica, tra cui il vaso di Talos, i dinoi Macchitelli e Cervone, il cratere con la corsa delle quadrighe, rinvenuto insieme al cratere di Fineo, e numerosi altri vasi di importazione greco-orientale. Il vaso di Talos è un cratere attico a figure rosse, attribuito ad un ceramografo che gli studiosi hanno convenzionalmente chiamato Pittore di Talos, dal nome del mito raccontato proprio in questo vaso così importante. La sua datazione si attesta tra il 430 e il 420 a.C., la produzione è attica e il ceramografo sembrerebbe un ben inserito nel circolo di artisti (scultori, soprattutto) dell’Atene periclea.
Dal punto di vista iconografico, sebbene la raffigurazione si svolga su tutto il vaso senza soluzione di conti-
nuità, si possono individuare due momenti ben distinti dell’episodio narrato. Nel lato A, all’estremità sinistra è situata la prua della nave Argo, con tre argonauti, fra cui due dei figli di Borea e Giasone, da solo sulla scaletta, pronto a sbarcare sull’isola; segue la figura di Medea, elegante in un lungo chitone finemente panneggiato, che sorregge una coppa. La scena centrale vede protagonisti il gigante bronzeo Talos sconfitto e morente, sorretto dai Dioscuri Castore e Polluce. Il suo corpo metallico, anatomicamente definito con precisione scultorea, è ulteriormente evidenziato dalla sovraddipintura in bianco, in contrasto con le restanti figure rosse. Espediente scelto dall’artista per dare maggiore tridimensionalità alla figura di Talos. All’estremità destra riconosciamo Poseidone e sua moglie Anfitrite, leggermente sopraelevati rispetto alla figura di fanciulla che dovrebbe rappresentare l’isola di Creta che, priva del suo custode di bronzo, fugge smarrita.
Il lato B, reintegrato da importanti interventi antichi di restauro, è stato privato di queste aggiunte quando il Museo fu acquisito dallo Stato italiano, in un’operazione che fu a lungo criticata. Nella scena compaiono Castore e Polluce, coronati da una piccola Nike che volteggia sulle loro teste e centralmente la figura di Atena alla quale i figli di Zeus avevano dedicato la vittoria dell’impresa. A destra della scena Medea e Giasone, probabilmente a colloquio. Ogni personaggio raffigurato nel vaso è presentato da un’iscrizione greca, posta al di sopra di ciascuna figura. Anche questo vaso ricorda, quindi, il mito degli argonauti, uno dei soggetti più amati evidentemente, a quel tempo, dai committenti di questi oggetti così ricercati, in questo caso nel racconto dell’uccisione del gigante di bronzo Talos. Varianti diverse dello stesso mito si ritrovano in numerosi autori: Apollodoro, Sofocle, Platone, Luciano, Iginio, Servio, Ovidio, Plinio, Plutarco, Pausania. La versione che qui, come nel vaso di Fineo, sembra essere stata seguita dal ceramografo, è quella proposta da Apollonio Rodio nel IV libro delle Argonautiche. Giovanni Jatta nel Catalogo del 1869 traduce lui stesso una lunga sequenza narrativa (Argonautiche, IV, vv. 1636-1688), a cui si rimanda per la fedeltà della traduzione al testo greco (G. Jatta, 1869, pp. 815- 816) e che qui si riporta solo nei versi che descrivono l’incantesimo mortale subito dal gigante Talos ad opera di Medea:
“[…] Supplichevole adorandole adoprò tre volte magici carmi, tre volte le preci; e coll’invido sguardo, poi ch’ebbe invelenito l’animo, affascinò gli occhi del metallico Talo; spirogli un grave furore, gli pose finalmente innanzi de’ crudi fantasmi e micidiali. “O padre Giove, io mi sento abbattuto dal terrore; non per morbo o per piaghe soltanto si vien dunque a morte, ma v’è ancora qualcuno che ci ferisce da lontano?” E così Talo, benché di bronzo, fu domato dalla potenza della venefica Medea; imperciocché nello svellere le grosse pietre, per impedire che entrassero nel porto gli Argonauti, egli urtò col malleolo ad una prominenza di sasso, tal che uscì dal foro fatale il suo sangue simile al piombo liquefatto; né potè molto reggersi in piedi appoggiato allo scoglio; ma come alto pino, che i taglialegne lasciarono sui monti non al tutto reciso dalle scuri, allor che si partirono dalla selva; nella notte dei venti ai primi colpi si scuote, e quindi cade giù spezzato dalla ceppaja; così colui per qualche tempo si tenne ritto sugl’indefessi piedi, ma reso alfine esanime stramazzò con grandissimo rumore.”(Argonautiche, IV, vv.1668-1688). Le attenzioni del giureconsulto ruvese verso la scelta dell’educazione migliore per Giovannino, perché diventasse “un uomo di garbo e istruito”, perché fosse preparato all’amore di Patria e al rispetto per quella cultura tramandata anche attraverso l’immenso patrimonio artistico rappresentato dalla collezione di vasi “italo- greci”, furono ben ponderate e lungimiranti.
Se oggi il Museo Jatta è ancora qui, intatto nel suo allestimento originario, ammirato e apprezzato da studiosi e appassionati del mondo intero, lo si deve soprattutto alla fiducia incondizionata che Giovanni Jatta attribuiva alla funzione civile della cultura, oltre che alla sua capacità di trasmetterla alle generazioni successive attraverso i suoi scritti, le orazioni, la sua statura morale elevatissima, di cui il nipote, Giovanni Jatta junior, e con lui tutti i suoi numerosi figli, furono degni eredi.
Breve bibliografia di riferimento
Andreassi, Jatta di Ruvo, Bari 1996.
Bucci, Il Museo Nazionale Jatta, Bari 2000.
Di Palo, Dalla Ruvo antica al Museo archeologico Jatta, Fasano 1994.
Jatta, Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo nella Peucezia, Napoli, 1844.
Jatta, Catalogo del Museo Jatta, Napoli 1869.
Jatta, Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo nella Peucezia , II edizione, con prefazione di MicheleJatta, pp. I-XCII, Ruvo 1929.
Milanese, In partenza dal Regno, Firenze 2014.
Sena Chiesa, Vasi, immagini, collezionismo, Milano 2008.
Sichtermann, Griechische Vasen in Unteritalien. Aus der Sammlung Jatta in Ruvo, Tübingen, 1966.
Ventrelli, Le Terrecotte figurate del Museo Nazionale Jatta di Ruvo, Bari 2004.
Ventrelli, Le voyage du duc de Blacas dans les Pouilles en 1826. L’incognito d’un ambassadeur et d’un collectionneur aristocratique, in Identités dissimulées, Le voyage anonyme dans les sociétés anciennes et modernes, Limoges 2020, pp. 271- 291.
di Daniela Ventrelli
Archeologa, dottoressa di ricerca in storia antica, responsabile scientifica del progetto internazionale Rubi antiqua sulla storia del collezionismo di antichità da Ruvo di Puglia all’Europa, collabora con numerosi enti di ricerca e musei nazionali e internazionali.
Borsista post dottorato in archeologia classica (2011-2013) nell’UMR ANHIMA 8210, a Parigi, collaboratrice scientifica di conservazione del Museo del Louvre (2012-2014). Ricercatrice al CNRS di Parigi dal 2014 al 2018, promotrice e coordinatrice del programma Rubi antiqua, vincitrice del concorso Emergence(s) 2013, promosso dal Comune di Parigi e cofinanziato dalla Regione Puglia. Dal 2016 collabora con la cattedra di archeologia e storia dell’arte antica dell’Università di Friburgo, in Svizzera, per lezioni e seminari sull’archeologia della Magna Grecia e come curatrice di esposizioni internazionali. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche, in italiano e in francese, ha coordinato convegni internazionali e seminari universitari per il dipartimento ANHIMA UMR 8210, di cui è membro associato.
Dal 2019 è consulente archeologa per la Regione Puglia (Dipartimento Turismo, Economia della Cultura e Valorizzazione del Territorio) e per il Teatro Pubblico Pugliese, con incarichi di responsabilità in merito alle attività del Polo biblio-museale regionale e particolare cura dei rapporti con l’Estero per l’internazionalizzazione delle attività culturali regionali.