Al centro l’uomo e le sue problematiche esistenziali
Di Arnaldo Miccoli ho avuto modo di interessarmi in occasione della sua personale del 2016 (Cavallino, Galleria del Palazzo Ducale). Per prassi metodologica ho, allora, passato in rassegna la letteratura critica che lo ha accompagnato nel suo, ormai lungo, percorso artistico, deducendone, con convinzione, che le sue opere, per la densità dei significati, non ammettono approcci critici approssimativi e richiedono una lettura analitica. Considerato il solito spazio disponibile, ho scelto, perciò, per presentarlo, tre opere che mi sembrano emblematiche della profondità della sua poetica e del suo modo di rapportarsi alla realtà delle vicende umane.
La prima opera è Ultimo tentativo di equilibrio (olio su tela, cm.51×61, del 1984). A destra una figura a mezzo busto indossa una sorta di divisa e ha in testa un cappellino di dimensioni più ridotte del capo, sfoggia un sorriso ambiguo, reso tale dalla fisionomia marcata, nel profilo del naso quasi adunco, nel formato dell’unico occhio visibile e nelle labbra. Parzialmente appoggiato con una zampa sul suo capo, un gallinaccio con volto umano è impegnato in un esercizio fatto con una lunga cannula tenuta con la bocca e terminante con una piccola sfera al disopra della quale è sospesa nell’aria una pallina, mentre con la seconda zampa regge un filo a sua volta collegato a una seconda pallina; infine, un terzo personaggio, dall’aspetto più giovanile, che indossa una divisa e un elmo parzialmente trasparente, anch’egli impegnato in un esercizio fatto con una cannula terminante con una concavità destinata ad accogliere la pallina tenuta sospesa dal gallinaccio. Non v’è ambientazione, è come se si trattasse di una inquadratura ravvicinata su tutte e tre le figure e il titolo conferma che sono impegnate in un esercizio di una qualche difficoltà e, chissà, quante volte provato, le divise che indossano rimandano al mondo del circo – inutile aggiungere che il gallinaccio, per la sua straordinarietà, sembra proprio il classico fenomeno da circo. Dal punto di vista figurativo esso non può che appartenere alla categoria dell’immaginario. Non a caso, per tante altre immagini che popolano le opere dell’artista, la critica ha fatto ricorso a ulteriori categorie: il “grottesco-magico”, il “mostruoso”, l’ibrido”, il “macabro”, il “ferino”, il “demoniaco”, comprese le categorie storico-artistiche, quali “surrealismo”, “arte visionaria”, “naturalismo”, che, se si vuole, sono anche indicative delle scelte che egli ha via via fatto per dare forma al proprio immaginario. Nel dipinto c’è, poi, come un’atmosfera di sospensione, alla quale concorre la componente cromatica, fatta di trasparenze e di “cangiantismi” ottenuti con effetti luministici, cioè schiarendo il colore determinandone il cambiamento. La domanda che verrebbe da porsi, allora, è: quale sarà l’esito di quell’ultimo tentativo di raggiungere l’equilibrio, come suggerisce il titolo? Sull’eventuale esito positivo non sembra rassicurante l’ambiguo sorriso del presentatore, né l’improbabile abilità del gallinaccio, e neppure la misteriosa età del terzo protagonista. Potrebbe, allora, aver ragione Riccardo Barletta, uno di più acuti critici dell’arte di Miccoli, che vi ha visto “una specie di sottile parabola molto enigmatica sull’umanità che non trova l’ubi consistam”, una interpretazione che nasce probabilmente dal tema del circo, il cui mondo ha sempre affascinato, come è noto, artisti e letterati, un mondo nel quale vive “la dimensione della favola, dell’illusione, dell’incantesimo”, ma nasconde anche “la realtà della fatica, del tragico e dell’inquietudine”. Anche per questo è indispensabile capire che uso ha fatto di quel mondo l’artista Miccoli. Come per altri temi da lui trattati, a mio avviso, quello di fondo resta l’uomo con le sue problematiche esistenziali, per questo i suoi dipinti non sono mai divagazioni fantasiose o estemporanee incursioni nel variegato mondo della realtà, ma ricerca di risposte alle contraddizioni nelle quali l’uomo da sempre si dibatte. È indubbio che egli abbia attinto a varie fonti dell’arte del ‘900, ma le sue sono state sempre scelte meditate e selezionate.
Il secondo dipinto è Nel nome di Marte (olio su tela, cm.148×188, del 2015). Sullo sfondo un agglomerato di case ci dice che siamo in presenza di un ambiente cittadino. Ciò che subito osserviamo in primo piano è una serie di figure e oggetti che sembrano disposti in modo affastellato, non sono, cioè, distanziati tra di loro, e dal punto di vista spaziale, v’è una impostazione a-prospettica, che, è inutile ricordare, a partire dalle avanguardie artistiche del primo Novecento in poi fa parte del codice linguistico dell’arte e, se si vuole, anche delle nostre abitudini visive. Sebbene i vari elementi siano iscrivibili in uno schema piramidale, la loro disposizione non stabilisce una gerarchia, la sua funzione è quella di sottolinearne il reciproco legame. La conferma viene dalla loro identificazione iconografica. La posizione più alta è riservata alle due figure nude, un uomo e una donna, che si riconoscono, grazie ai due attributi del frutto e del serpente, nei progenitori, Adamo ed Eva. La prima figura alla loro destra, grazie all’elmetto e alla serie di medaglie appuntate sulla sua giacca, lo si può riconoscere come un ex-militare, pluridecorato per meriti di guerra, che sembra reggere una bambola e un rotolo di carta. La figura che segue è un uomo che regge dietro il suo capo una maschera e poggia la sua mano destra su un gatto, a dare senso a questa figura sono, dunque, due motivi, che secondo la tradizione iconografica simboleggiano l’una, cioè la maschera, la falsità, e quindi l’inganno, e l’altro, cioè il gatto, il male; la figura alla sinistra dei progenitori è di più difficile riconoscimento. Potrebbe essere in questo caso d’aiuto la sua gestualità. La mano sul petto indica una partecipazione emotiva, qui associata alla disposizione del capo tutto rivolto verso l’alto, e al gesto dialogante della mano destra. Completano l’iconografia gli oggetti. La bambola e il cavalluccio, due giocattoli, che potrebbero essere un rimando iconografico all’infanzia, e gli
attrezzi sportivi messi dentro una cassa, in particolare la mazza da baseball e il pallone da rugby, che potrebbero essere un rimando ai due sport più praticati negli Stati Uniti, e quindi per metonimia un riferimento a questi stessi. Per completare il discorso sull’iconografia bisogna ritornare al titolo, che contiene il nome di un’antica divinità, Marte, dio, appunto, della guerra, che nel dipinto ha assunto le vesti di un ex militare. Si può, dunque, concludere che Arnaldo Miccoli ha realizzato una vera e propria allegoria, precisamente una allegoria della guerra. Ma qual è il suo significato? Tenendo conto dei simboli non si sbaglia nel dire che la guerra è manifestazione del male, che ha a che fare con il peccato dei nostri progenitori, e che chiama sempre in causa la responsabilità dell’uomo, sempre il vero artefice, sia che si nasconda dietro una maschera (l’ipocrisia verso la guerra è una costante nell’uomo), ma in realtà accarezzando il male, sia che se ne assuma i meriti con i suoi gesti eroici. La guerra, inoltre, comporta atroci conseguenze, quando tra le vittime vi sono i bambini, a cui rimandano i giocattoli. È stato più volte messo in risalto da altri critici il peso che ha il colore nella pittura di Miccoli, anzi c’è stato chi ha sostenuto ch’esso è elemento distintivo delle diverse fasi della sua ricerca, strettamente connesso col diversificarsi delle tematiche via via affrontate, qualificandosi nella scelta delle tinte e nella modalità di stesura e associato o meno all’uso del disegno come strumento di definizione delle forme, come è avvenuto proprio in questo dipinto. Qui il colore non indulge a piacevolezze o brillantezze, prevalgono i toni freddi e spenti – vedi, ad esempio l’azzurro freddo del cielo -, l’atmosfera è cupa, è come se non ci sia più vita, le forme e le linee sono rigide e spigolose. Al tema della guerra fa riferimento il terzo dipinto (olio su tela, cm.65×50, del 2015), il cui titolo, With war in my mind, è segnato, a caratteri ben visibili, all’interno della raffigurazione: un soldato pluridecorato, raffigurato secondo l’impostazione tipica del ritratto ufficiale – posizione frontale, con divisa e medaglie onorifiche -, ma che, nell’indefinitezza delle sue fattezze, è reso quasi fantasma di sé stesso, con impressi i segni lasciati dalla guerra, nella mente e nel fisico, tali cioè da privarlo di ogni speranza di futuro. Come non ricordare, allora, proprio grazie al titolo, la nota vicenda dei tanti reduci della guerra nel Vietnam, irrimediabilmente segnati da tale evento!
Arnaldo Miccoli è nato a Cavallino (Lecce) nel 1938. Diplomato all’Istituto d’Arte “Giuseppe Pellegrino” di Lecce, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Roma seguendo i corsi di Peppino Piccolo e Franco Gentilini e l’Università Cattolica di Studi sociali della stessa città. Risale al 1965 il primo soggiorno negli Stati Uniti, durante il quale si dedica alla pittura, oltre che all’insegnamento, e dà inizio alla lunga serie delle mostre personali, con la prima del 1968 presso la Lucinda Art Gallery di Tenafly N.J., alla quale sono poi seguite tutte le altre, ora divenute numerose, prevalenti quelle tenute in città americane rispetto a quelle in centri italiani ed europei. Dopo due brevi rientri in Italia nel 1973 e 1979, nel 1981 si è stabilito definitivamente a Tenafly nel New Jersey, senza recidere il suo legame con l’Italia, dove conserva il suo studio di Cavallino in via Crocifisso, 27. A segnare via via i passaggi del suo lungo percorso artistico sono state proprio le personali, come, ad esempio, quella del 2006 (Lecce, Castello di Carlo V), sì che la critica ha potuto evidenziare il processo di maturazione e di arricchimento e le peculiarità delle sue opere che lo hanno reso e lo rendono tuttora personalità di notevole rilievo nel contesto artistico contemporaneo.
di Lucio Galante
Pubblicato il 13 dicembre 2022 alle ore 12:29