La Pietra leccese è una roccia sedimentaria di origine marina formatasi tra 15 e 7 milioni di anni fa e affiorante nel Salento leccese, in particolare nelle aree di Lecce e di Cursi-Melpignano. Questa roccia a grana omogenea e di colore giallo-paglierino è stata ampiamente utilizzata come materiale da costruzione già in epoca preistorica nell’architettura megalitica per realizzare dolmen e menhir. In epoca romana grossi blocchi di Pietra Leccese furono utilizzati sulla costa leccese per realizzare nel II secolo d.C., sotto l’Imperatore Adriano, il molo del porto romano di San Cataldo. Ad ogni modo, la Pietra Leccese è indissolubilmente legata allo sviluppo dello stile barocco che nel Salento leccese rende uniche le facciate di molte chiese e palazzi. Questa roccia, infatti, può essere facilmente estratta in blocchi ed è estremamente lavorabile cosicché rappresentò il materiale perfetto per liberare da ogni vincolo la fantasia degli scalpellini locali.
La Pietra Leccese è ben conosciuta in geologia per il ricco contenuto paleontologico scoperto negli ultimi due secoli proprio grazie all’attività estrattiva. Questa roccia conserva, infatti, numerosi resti fossili, tra cui preziosi scheletri più o meno completi di vertebrati marini, essenzialmente pesci e mammiferi.
Tra i fossili caratteristici della Pietra Leccese quelli che più hanno colpito la fantasia popolare figurano i denti di un grosso squalo, il Charcorocles megalodon: il più grande squalo mai esistito con una lunghezza di circa 18 m, che popolò praticamente tutti i mari del mondo nel periodo compreso tra 15.9 e 2.6 milioni di anni fa.
Nel Medioevo questi fossili suggestivi, all’epoca denominati “glossopetrae” (lingue di pietra) erano molto ricercati come amuleti contro la sventura, il malocchio, il mal di denti infantile e assolutamente necessari per corteggiare le donne virtuose nonché per restituire la favella ai balbuzienti. Elisir prodotti con glossopetrae polverizzate costituivano potenti medicinali utili per la cura di febbri, ustioni, malattie veneree e pustole oltre che per le doglie, epilessia e alitosi; erano inoltre ritenute particolarmente efficaci contro i veleni.
Secondo Plinio il Vecchio questi strani oggetti piovevano direttamente dal cielo nelle notti senza luna mentre il naturalista Ignazio Giorgio (1730) riporta la credenza comune che le glossopetrae fossero “strali fulminei oppure saette celesti cadute con la pioggia dalle nubi”. Secondo gli abitanti di Malta, grande produttrice di glossopetrae, la loro genesi era da ricondurre al miracolo di San Paolo avvenuto secondo la tradizione sulle coste maltesi il 10 febbraio del 60 d.c. San Paolo e i suoi discepoli imbarcati su di una nave diretta a Roma fanno naufragio a causa di una forte mareggiata in una insenatura della costa dell’isola di Malta. I naufraghi si salvano raggiungendo a nuoto, o sui rottami della nave, la vicina spiaggia (l’attuale Saint Paul Bay). Riportano gli Atti degli Apostoli (At 28, 2-6): «I suoi abitanti ci trattarono con gentilezza: siccome si era messo a piovere e faceva freddo, essi ci radunarono tutti intorno a un gran fuoco che avevano acceso. Anche Paolo raccolse un fascio di rami per gettarlo nel fuoco; ma ecco che una vipera, a causa del calore, saltò fuori e si attaccò alla sua mano. La gente del luogo, come vide la vipera che pendeva dalla mano di Paolo, diceva fra sé: “certamente questo uomo è un assassino: infatti si è salvato dal mare, ma ora la giustizia di Dio non lo lascia più vivere”. Ma Paolo, con un colpo, gettò la vipera nel fuoco e non ne ebbe alcun male. La gente invece si aspettava che la mano di Paolo si gonfiasse, oppure che Paolo cadesse a terra morto sul colpo. Aspettarono un bel po’, ma alla fine dovettero constatare che Paolo non aveva alcun male. Allora cambiarono parere e dicevano: questo uomo è un Dio».
Secondo la credenza maltese, San Paolo maledisse le vipere che da quel giorno, insieme agli altri serpenti dell’isola, furono privati dal loro veleno. Da quel momento la natura avrebbe prodotto spontaneamente nelle rocce dell’isola le glossopetrae, oggetti taumaturgici a forma di lingua di serpente utili per combattere i veleni.
Le glossopetrae svolsero un ruolo chiave nella nascita della geologia come scienza. Il primo studioso ad occuparsene è Fabio Colonna (Napoli, 1567-1640) che in una sua opera del 1616 le esamina e le attribuisce correttamente a denti fossili di squalo. L’opera di Fabio Colonna, pur se molto succinta, è molto importante perché i fossili vengono comparati ad organismi viventi, ne viene riconosciuta la natura organica ed è introdotta la discussione sulla formazione dei fossili su basi scientifiche. Secondo Colonna, i fossili si formano in seguito a deposizione dei resti di organismi su fango soffice dove rimangono sepolti; durante il consolidamento, i resti subiscono poi alterazioni più o meno complete della loro composizione ad opera dei “succhi” delle rocce. L’unica tavola a corredo del testo, che si avvale della tecnica di incisione su rame, mette a confronto i denti di squalo con le glossopetrae di Malta ed altri fossili (fungi lapidei) con coralli attuali.
Un supporto più completo all’origine organica dei fossili da un punto di vista descrittivo, comparativo e geologico venne fornito nel 1667 da Niccolò Stenone (Copenaghen, 1638 – Schwerin, 1686) in un testo corredato da tavole ottenute da incisioni su rame in cui riporta lo studio anatomico della testa di uno squalo attuale ucciso al largo di Livorno.
Stenone si inoltra in una circostanziata ipotesi scientifica sull’origine organica dei fossili, attribuendo correttamente le glossopetrae ai denti di uno squalo di dimensioni molto maggiori dell’attuale, vissuto nel passato geologico del pianeta. Partendo dalla glossopetrae, Stenone introduce criteri rigorosi per leggere le rocce sedimentarie e riconosce i fossili come una componente importante degli strati che si formano per deposizione e sedimentazione di sostanze trasportate nell’acqua. I resti degli animali marini si depositano sul fondo del bacino, mentre altra vita prospera nelle acque soprastanti. L’indurimento del terreno, dovuto a sollevamento per terremoto o per ritiro delle acque, è responsabile di modificazioni nei resti che si ritrovano così spezzati e pietrificati.
Le glossopetrae stimolarono una terza opera fondamentale per la storia della geologia. Agostino Scilla nella sua opera “La vana speculazione disingannata dal senso” (1670), corredata da splendide tavole, sostiene che le osservazioni della natura smentiscono le supposizioni filosofiche circa l’origine dei fossili. Il libro nasce come impulsiva risposta di Scilla ad un corrispondente maltese che sosteneva l’origine inorganica delle glossopetrae. Scilla ammettendo le sue carenze culturali, afferma che l’osservazione diretta suggerisce una evidente somiglianza tra i fossili e gli organismi viventi. Osservò inoltre che i denti di squalo si innestano su di una mascella cartilaginea, e per questo motivo possono staccarsi e fossilizzare separatamente.
Scilla osserva le rocce sedimentarie di Messina, dove vive, esprimendo opinioni sulle possibilità di trasporto e deposizione dei sedimenti da parte dell’acqua. Le ventotto tavole che corredano l’opera di Scilla sono estremamente accurate e riflettono la maestria dell’artista e l’accuratezza del naturalista, che era solito osservare gli esemplari con l’occhialino (non si sa se con questa parola egli intendesse la lente d’ingrandimento o il microscopio). Opportunamente, l’autore aveva scelto esemplari fossili ed i loro corrispondenti viventi, spesso provenienti dalle stesse zone, per sostenere l’origine organica dei fossili.
Le glossopetrae, in passato ritenute potenti amuleti e farmaci efficaci, hanno quindi avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della geologia come scienza moderna. Grazie alle glossopetrae, i fossili smisero per la prima volta di essere degli “scherzi di natura” (lusus naturae) o delle rocce particolari (lapides sui generis) per divenire dei formidabili archivi naturali da cui estrarre preziose informazioni su antichissimi ambienti ormai sprofondati nell’abisso del tempo geologico.
di Francesco Gianfreda e Paolo Sansò