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sabato, Novembre 23, 2024

L’eleganza dell’ESTETICA

INTERVISTA DI MICHAEL MUSALEK 

Quando etica ed estetica si sono affacciate nella discussione sulla salute mentale e sulla psichiatria, ovvero quando i ricercatori hanno colto l’importanza di tale discorso per la cura dei pazienti e il discorso sulle istituzioni?

Bene, direi che la domanda sull’etica inizia con la psichiatria stessa. Ma come critica istituzionale, credoabbia avvio con Michel Foucault, negli anni ‘60, quando produce le sue memorabili riflessioni sull’istituzione manicomiale. A mio avviso, la domanda sull’estetica in psichiatria inizia con lui. Anche se non lo ha mai scritto esplicitamente, per me si tratta di un approccio estetico: Foucault non ha lavorato solo sull’aspetto etico riguardo alla malattia mentale e all’istituzione totale ma era invece davvero molto interessato al concetto che definiva “l’essere umano e la sua esistenza come un’opera d’arte”.

Foucault cita naturalmente anche Nietzsche, che è stato il primo ad introdurre la dimensione estetica nel campo di ricerca sulla mente e sul pensiero, parlando anch’egli dell’essere umano come opera d’arte. Dopo ne ha parlato Foucault, e quindi io ho ereditato da entrambi il concetto, portandolo questa volta all’interno dell’analisi psicopatologica.

Quindi si può dire che l’etica appaia con la nascita stessa dello studio della mente, e che quindi l’estetica arrivi più tardi; ma io, francamente, credo invece che l’etica sia figlia dell’estetica. Questo perché l’essere umano ha sin dal principio anelato ad avere una vita confortevole e bella, e questo non è un problema di etica bensì di estetica, e solo in seguito diventa consapevole che la gioia, ad esempio, può non essere sufficiente e che quindi c’è bisogno di uno strumento in grado di regolare il bisogno e il comportamento. È lì che nasce l’etica, il cui fondo è quindi quello di una regolazione del bisogno, regolazione della spinta estetica originaria.

Come si declinano quindi l’etica e l’estetica nel campo della salute mentale, ma non solo?

Per me, l’estetica è “estetica sociale”, diversa ovvero dall’estetica individuale che si focalizza solo sul soggetto e non sul soggetto che vive con altri soggetti. La questione fondamentale per il nostro lavoro è invece sociale, il fatto ovvero che i soggetti vivono insieme e non da soli. L’estetica sociale ha tre dimensioni fondamentali: estetica sociale come un campo di interesse e prospettiva sul mondo, attraverso la quale possiamo dare senso alle nostre esperienze; estetica sociale come metodo alternativo a quello delle scienze naturali (come quello scientifico o statistico), un metodo speciale di pensiero e azione; estetica sociale applicata, ovvero la definizione di un modo di vivere, un modo di comportarsi e vivere la vita nel quale i principi etici siano la principale fonte quotidiana di ispirazione.

Quindi, per tornare alla domanda, tutte e tre le dimensioni hanno un senso. La prima dimensione gioca un ruolo chiave nel definire un programma di trattamento basato sull’estetica sociale. Obiettivo della cura potrebbe ad esempio non essere l’astinenza dalle sostanze, ma riuscire a vivere una vita piena di gioia.

Ma come poter raggiungere l’obiettivo? Abbiamo bisogno di un metodo estetico-sociale per riuscire a sperimentare questo tipo di vita. Abbiamo quindi infine bisogno di compiere dei passi pratici, come abbiamo fatto a Vienna negli ultimi dieci anni. Perché per il cambiamento non basta pensare ad una vita estetica-sociale, non dobbiamo solo parlarne ma dobbiamo viverla nella clinica.

Su queste basi teorico-pratiche, quale potrebbe essere allora il ruolo di estetica ed etica nella cura del corpo, nella cura medica?

Mi riferirò qui a Wolfgang Welsch, filosofo e antropologo tedesco, che distingue due modalità fondamentali dell’estetica: l’“estetica superficiale” e l’“estetica profonda” (Aesthetics Beyond Aesthetics). L’estetica superficiale la troviamo nel discorso sulla chirurgia plastica (come anche nell’abbronzatura ecc.), ma non è il tipo di questione alla quale mi riferisco quando discuto di “estetica sociale”. Ciò di cui discuto io fa invece parte del campo dell’estetica profonda, quella che deriva dal citato concetto di Foucault di “essere umano come opera d’arte”, ovvero dalla possibilità che abbiamo di farci opere d’arte, di configurarci in un modo nuovo, evolvere in una nuova e migliore maniera. Possiamo fare delle mosse concrete per migliorarci. Un piccolo esercizio è quello di sorridere. Una volta ho comunicato all’Istituto Anton Proksch che quello sarebbe stato l’anno del sorriso: mi sorrisero tutti! Il primo passo era fatto. Il secondo passo sarebbe stato quello per cui tutti dovevano diventare consapevoli che non si sorride abbastanza, che i bambini lo fanno molto più spesso di noi adulti, e non va bene!

Escludendo a questo punto gli eccessi e le esagerazioni dovute a patologie sottostanti, possiamo considerare il bisogno di estetica come una espressione dell’umano percorso verso la perfezione?

Facciamo una distinzione all’interno del concetto di perfezione. Da una parte c’è la perfetta funzionalità, che ci interessa e non ci interessa in questo caso. Dall’altra abbiamo invece la perfezione estetica, il cui grado maggiore è quello dell’eleganza, un alto grado di eleganza. Facciamo un esempio: tu sei alla ricerca di un medico per una consulenza chirurgica e ti trovi a scegliere tra due gruppi di chirurghi, uno di medici eleganti e uno di medici non eleganti; osservandoli, noti alcuni che lavorano in maniera elegante e gli altri che danno invece l’impressione di non essere eleganti. In ogni caso, ed è questo che lega estetica e funzionalità, i risultati dei medici eleganti sono molto migliori di quelli dei medici non eleganti, testimoniando così di una connessione molto forte tra l’estetica e i risultati nel proprio lavoro. Non è come la maggior parte delle persone pensano, ovvero che bisogna puntare alla perfezione in ciò che si fa (nella pratica e nella tecnica), ma invece per poter avere un buon funzionamento a livello medico in generale si deve essere eleganti. Lo stesso dicasi per il campo della psicopatologia e della psichiatria. Alcuni psichiatri intenti ad indagare il campo sintomatico e l’esperienza dei loro pazienti appaiono davvero eleganti, si ha quasi l’impressione che stiano semplicemente chiacchierando. Nulla di più. Altri, invece, lavorano come dei veri e propri poliziotti, devono trovare gli indizi a tutti i costi e così via. I primi ottengono le migliori informazioni per fare una diagnosi accurata, perché, mi capirai, di fronte ad un poliziotto, tu dici solo quello che devi dire. Cos’altro vorresti dire? L’eleganza gioca un ruolo preponderante nel funzionamento e nella perfezione. Quindi per me, lavorare in maniera estetica rappresenta la base fondamentale per un buon funzionamento e quindi per il conseguimento della perfezione.

Possiamo quindi parlare della perfezione, o della ricerca della perfezione come un valore? E, in questo senso, come l’estetica incontra l’etica?

C’è una grande differenza tra etica ed estetica rispetto al concetto di perfezione. Se osserviamo il concetto di perfezione da una prospettiva etica, è abbastanza noto che se seguissimo tutte le regole, nessuna esclusa, senza nessuna eccezione, otterremmo la perfezione. La perfezione sarebbe il risultato ultimo del seguire il “già dato”.

Questo non è evidentemente il caso del discorso estetico, per il quale la bellezza perfetta non è quella che deriva da regole e norme perfette. Ho discusso questa questione con un pittore, un mio caro amico che ora è mancato, che dipingeva soprattutto busti di donna. Lui così diceva: <<Per dipingere un busto fatto bene, se vuoi avere ovvero due seni perfetti da un punto di vista estetico, devi realizzarli in maniera leggermente differente. Non possono essere totalmente simmetrici perché sembrerebbero artificiali e non erotici, senza nulla all’interno. Devono avere una leggera differenza, non essere perfetti. Solo così possono essere belli>>. Esiste una differenza quindi tra perfezione estetica e perfezione etica. È lo stesso nel campo della musica: se esegui un brano tenendo a mente solo il punto di vista fisico, dei suoni, degli intervalli ideali, rispettando le note e le pause, oppure se componi un pezzo perfettamente armonico, alla lunga tutto diventa noioso, tutto uguale, non bello. Servono delle differenze. Così come in l’architettura: progetti una serie di villette a schiera. Non c’è nulla di bello, è stancante. Servono piccole differenze, ma non troppe differenze perché altrimenti si creerebbe il caos e non è certo qualcosa di bello. Le differenze sono necessarie per avere il bello, e noi, in quanto esseri umani e non macchine, ne siamo provvisti per fortuna, e in grande quantità.

 a cura di Paolo Colavero


Michael Musalek

Studia Medicina a Vienna, si specializza in Psichiatria e Neurologia e quindi in Psicoterapia. A capo del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Vienna, (1989-2001), lavora anche come Psichiatra di Collegamento dell’Unità di Psico-dermatologia della stessa Università. Senior Lecturer dal 1990, dal 1997 è Professore di Psichiatria presso la Scuola di Medicina dell’Università di Vienna. Dal 2001 Direttore Medico del Dipartimento Alcolismo e Dipendenze dell’Anton Proksch Institute di Vienna, dal 2004 è Direttore Medico Generale dello stesso Istituto, una delle più grandi e note cliniche europee ad occuparsi di cura delle dipendenze (più di 12.000 pazienti trattati per anno). Professore presso la Sigmund Freud University di Vienna e Visiting Professor presso l’università di Belgrado, ideatore e animatore del Programma Orpheus, dal 2015 dirige l’Istituto per l’Estetica Sociale e la Salute Mentale della Sigmund Freud University. Membro attivo della World Psychiatric Association , dell’European Psychiatric Association, nel Comitee on Education, Chaiperson della Psychopatholgy Section dell’EPA e Chairperson della Clinical Psychopathology Section della WPA.

Paolo Colavero

Paolo Colavero

Nel 2007, su invito di Gilberto Di Petta, a sua volta introdotto quello stesso anno da Arnaldo Ballerini, ho iniziato a frequentare i meeting della Sezione Psicopatologia dell’European Psychiatric Association (EPA). Il venerdì pomeriggio dell’incontro, che si tiene da sempre presso il mitico Hôpital la Salpêtrière di Parigi, Gilberto mi presentò come un allievo della gloriosa Scuola Italiana di Psicopatologia Fenomenologica, lasciapassare che mi permise di introdurmi (insieme al collega Matteo Rossi) in quel circolo ristretto di fini psicopatologi europei. Una quindicina in tutto, provenienti da Finlandia, Portogallo, Inghilterra, Romania, Grecia, Norvegia, Germania, Italia e Austria. Austriaco era appunto il Chairperson della Sezione, il prof. Michael Musalek, poco dopo divenuto semplicemente Michael, uomo di grande cultura e umanità, che ci accolse immediatamente nel gruppo, rallegrandosi della presenza di nuove giovani reclute. Dal 2007, sempre con Gilberto Di Petta e senza soluzione di continuità, frequento la riunione annuale della Sezione, luogo nel quale ho conosciuto Peter Berner, uno dei protagonisti della psichiatria europea del ‘900, e dove sono diventato collega e amico di nomi come John Cutting, Femi Oyebode, Pedro Varandas, Maria Luisa Figueira e Michael Musalek. Quando ho saputo che il focus del nuovo numero della rivista sarebbe stato su etica ed estetica, ho proposto immediatamente a Michael una intervista sulla sua idea di etica ed estetica in medicina e psichiatria, proposta che lui ha accolto subito con grande entusiasmo e generosità, regalandoci una introduzione molto centrata, leggera e profonda allo stesso tempo, che sono certo aiuterà il lettore a calarsi immediatamente al centro del problema e, non meno importante, dell’atmosfera.

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