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sabato, Novembre 23, 2024

Museo Archeologico Nazionale di Taranto, le appliques in terracotta dorata – Dal Mar Piccolo al Mar Nero

 

Il Museo Archeologico Nazionale di Taranto, che il 12 maggio ha potuto finalmente riaccogliere i visitatori nelle sue sale, per lunghi mesi tristemente deserte, ospita capolavori universalmente noti la cui fama rappresenta di per sé un potente attrattore per il pubblico. Lo splendore degli Ori di Taranto e di altri manufatti unici e giustamente celebrati non deve tuttavia offuscare una moltitudine di presenze materiali magari più discrete, ma in grado di dischiudere infiniti percorsi conoscitivi al visitatore che sia disposto a lasciarsi incuriosire. Può allora accadere che il suo sguardo sia attirato da alcuni piccoli rilievi in terracotta (la lunghezza degli esemplari più complessi non supera i 20 cm, mentre l’altezza si aggira in media tra i 7 e gli 8 cm) che la didascalia affiancata alla vetrina identifica come appliques. Ottenuti da matrici, questi rilievi riproducenti soggetti figurati e motivi decorativi come rosette a cinque petali erano applicati con l’ausilio di chiodini a elementi di arredo lignei, come suggeriscono il retro piatto e la presenza di piccoli fori di affissione. L’inclemenza del
tempo non è riuscita a cancellare la nobiltà del trattamento delle superfici, che conservano tracce più o meno consistenti dell’originario rivestimento in sottilissima foglia d’oro.
Applicazioni in terracotta lavorate “a giorno” come quelle tarantine o in forma di placchette
decorate a bassorilievo, fra il IV e i primi decenni del III sec. a.C., sono documentate in contesti tombali di varie regioni del mondo greco: non solo in Magna Grecia ma anche in Nordafrica (Egitto e Cirenaica), nel nord della Grecia e nella remota area di colonizzazione ellenica gravitante sulla sponda settentrionale del Mar Nero, fra la Penisola di Crimea, l’Ucraina e la Russia meridionale. A ciascuna area sembra corrispondere un uso preferenziale di queste appliques per specifiche tipologie di arredo, quali letti funebri, sarcofagi, cassette, troni o sedute. In Macedonia, per esempio, appaiono perlopiù associate al rito dell’incinerazione e presentano sulla superficie tracce di esposizione al fuoco che ne suggeriscono la pertinenza a letti (klinai) posti sulla pira e bruciati insieme al defunto.
Le appliques tarantine in contesto Il primo studio sistematico delle appliques tarantine si deve a Reinhard Lullies, che tra gli anni Cinquanta e i Settanta ne ha proposto l’attribuzione a un atelier attivo fra il terzo e l’ultimo venticinquennio del IV sec. a.C., in grado di esportare i propri prodotti anche al di fuori della città dei due mari: in siti indigeni della Puglia come Canosa o gravitanti nell’orbita politico-culturale della metropoli magnogreca come Eraclea di Lucania, fondata dai Tarantini nel 434/33 a.C. 
La quasi totalità delle appliques dell’Italia meridionale – ne sono state rinvenute anche in
siti della Calabria e del versante tirrenico della Magna Grecia, come Poseidonia-Paestum –
proviene da sepolture a inumazione; è però degno di nota che in alcuni siti non greci, come la lucana Roccagloriosa in Cilento, appliques di probabile importazione tarantina si trovino associate a incinerazioni entro fossa, indice della loro pertinenza ad arredi bruciati insieme al corpo. A Taranto molte delle tombe che hanno restituito queste decorazioni si collocano in un settore abbastanza centrale della necropoli tardo-classica ed ellenistica, imperniato sull’asse di via Dante ed esteso a ovest fino all’Ospedale Civile SS. Annunziata, a nord fino a via Cesare Battisti e ad est all’incirca fino a via Polibio.
Nella Sala XIII del MArTA, nella vetrina 22, si possono osservare alcune appliques rinvenute, rispettivamente, in via Nettuno e in via Icco: la totalità degli esemplari delle due serie, recentemente sottoposte a restauro, sarà nuovamente esposta nell’ambito del riallestimento previsto dal progetto PON “Il Museo MArTA 3.0”, con un’originale soluzione allestitiva in grado di valorizzarne la funzione. Per cercare di metterla a fuoco dobbiamo fare riferimento alla documentazione di scavo.


Prendiamo il caso di via Nettuno. Il giornale di scavo del 1939, in data 3 febbraio, riferisce
che in occasione di lavori per la posa di una fognatura, alla profondità di 1,20 m dal piano stradale, si rinvenne una tomba a fossa scavata nel banco roccioso e coperta da lastroni di carparo, di un tipo ben documentato nella necropoli tarantina. Solo uno degli elementi di copertura rimaneva in posizione, mentre il lastrone adiacente appariva sfondato, indicando una probabile manomissione della tomba già in età antica. Del corredo si conservavano uno specchio discoidale di bronzo, una piccola brocca (oinochoe) con un motivo sovraddipinto a tralci di vite e grappoli, alcuni bottoni in vetro, elementi di ornamento personale in terracotta dorata – due pendenti di orecchini in forma di figure femminili, due terminali di bracciale a testa di ariete – e quattordici appliques – sette figurate e sette rosette – realizzate con la medesima tecnica. Il piano di roccia sul fondo della fossa, ai quattro angoli, presentava dei pozzetti approssimativamente rettangolari di cm 35 x 30 di lato e cm
35 di profondità. Questa informazione è per noi di estremo interesse, dal momento che ci consente di ricostruire il tipo arredo ligneo che fungeva da supporto delle nostre appliques.
Sarcofagi di legno, segnacoli di pietra i quattro pozzetti, in base a un espediente documentato in altri siti del Mediterraneo – dalla Tunisia all’Egeo –, servivano a facilitare la posa sul fondo della fossa di un sarcofago in legno provvisto di piedi. Per avere un’idea dell’aspetto di questi sarcofagi non occorre fare molta strada: è sufficiente allontanarsi di pochi passi in direzione del lato sinistro della Sala XIII, lungo il quale sono allineate diverse sculture che fungevano da segnacoli di sepolture ellenistiche. Due di esse – appartenenti a una tipologia che non sembra avere confronti al di fuori di Taranto – riproducono
nella pietra calcarea locale, rivestita di stucco per conferirle un aspetto meno scabro, delle curiose casse parallelepipede dotate di quattro piedi e di un coperchio a doppio spiovente.

Sarcofagi in legno di forma simile a quelli che dovettero fungere da modello per i segnacoli
tarantini vennero rinvenuti, eccezionalmente integri, all’interno dei tumuli scoperti alla fine
dell’Ottocento in località del territorio di Krasnodar nella Russia meridionale, come Anapa e
Taman. Gli splendidi disegni eseguiti all’epoca dello scavo ci aiutano ad attribuire un significato alle finestrelle rettangolari riprodotte sui fianchi e sulle testate dei cippi del MArTA: al loro interno si dispongono con studiata simmetria, a formare dei fregi figurati, appliques quasi identiche a quelle magnogreche, dalle quali si differenziano per il solo fatto di essere intagliate nel legno o modellate nello stucco. I montanti delle testate dei sarcofagi russi sono invece decorati da file di rosette, suggerendo un’analoga disposizione per i fiori in terracotta della tomba di via Nettuno.
Grifoni e Arimaspi Il linguaggio del mondo ellenistico, pur conoscendo le inflessioni dialettali, tende costantemente all’integrazione e alla koinè. Dalle sponde dei due mari di Taranto siamo così trasportati sulla costa settentrionale del Mar Nero, dove a partire dall’epoca arcaica alcune piccole enclaves greche si sono confrontate con l’impressionante vastità delle steppe eurasiatiche.
Giungendo da questo mondo alieno eppure a suo modo familiare, nel tardo IV sec. a.C., un
immaginario mitico e figurativo rutilante ed esotico ha lasciato un’impronta tutt’altro che effimera nell’artigianato di Taranto e, per suo tramite, del Mediterraneo occidentale.
Siamo nell’epoca in cui l’antica colonia spartana, per fronteggiare la crescente pressione dei
vicini Italici, è costretta a ricorrere all’aiuto di condottieri stranieri, dalla madrepatria e poi
dall’Epiro. Da questo regno alla periferia nord-occidentale del mondo greco, negli anni Trenta del IV sec. a.C., Alessandro il Molosso sbarca in Puglia alla testa di un potente esercito e sogna di eguagliare in Occidente le gesta che l’omonimo nipote – passato alla storia come il Magno – andava compiendo nel cuore dell’Asia. Motivi e costrutti ideologici elaborati alla corte macedone, anche grazie alla presenza di truppe provenienti dal nord della Grecia, si diffondono in questo periodo sulle coste del Golfo di Taranto.
Tra questi vi è un singolare motivo decorativo che rimanda a un mito altrettanto peculiare: è la saga degli Arimaspi, popolo ricco e bellicoso che nell’immaginario dei Greci si collocava sul versante orientale degli Urali e a nord-est dell’Altai, in regioni remote le cui miniere d’oro erano già conosciute e sfruttate nel VI sec. a.C. Dotati secondo alcune fonti di un solo occhio, gli Arimaspi erano perennemente in lotta con i Grifoni, creature mitiche con corpo di leone e testa e ali d’aquila che si riteneva custodissero favolosi tesori. A partire dal IV sec. a.C. il mito, nutrito di un immaginario di frontiera derivante dal contatto fra i Greci e le popolazioni nomadi delle steppe intorno al Mar Nero, si diffonde per il tramite della ceramica attica sulle rotte che collegano regioni tra loro distanti, come l’area adriatica, la Macedonia e le colonie greche della Russia meridionale.


Taranto è tra i terminali di questa rotta eurasiatica: le sue produzioni figurate – sculture funerarie in pietra tenera, vasi apuli a figure rosse, appliques in terracotta dorata destinate a decorare i sarcofagi di alcune sepolture eminenti – contribuiscono a irradiare motivi e schemi iconografici che riecheggiano lo splendore barbarico delle oreficerie degli Sciti, mediati dalla cultura figurativa di una Grecità di frontiera.
“Sciamani” sulle sponde del Golfo di Taranto. Connessioni eurasiatiche
Siamo ora in grado di attribuire un significato alle immagini delle appliques di via Nettuno,
dopo averne compreso la funzione pratica: un Arimaspe con berretto frigio e pantaloni (anaxyrides) che lo identificano come orientale imbraccia la pelta, lo scudo semilunato che nell’iconografia dei Greci caratterizza le Amazzoni e altri barbari più o meno mitici, per difendersi dall’assalto di una coppia di Grifoni. Intorno a lui altri mostri e leoni abbattono cavalli e cerbiatti, secondo un motivo che raggiungerà le popolazioni indigene della Puglia, come attestato dal notissimo trapezoforo (sostegno di tavola in marmo) da Ascoli Satriano, in questi giorni in mostra alle Scuderie del Quirinale.
Il primo greco a raccontare le gesta dei leggendari Arimaspi era stato, nella seconda metà del VII sec. a.C., tale Aristea, originario dell’isola di Marmara nell’attuale Turchia: ispirato da Apollo, compì un viaggio nell’estremo nord-est del mondo – non è chiaro se fisicamente o in spirito, secondo modalità delle quali si sono da tempo riconosciuti i punti di contatto con il “viaggio sciamanico” di remota tradizione eurasiatica –, affidandone il racconto a un poema noto appunto come Arimaspea, del quale ci rimangono poche citazioni indirette. Si narra che l’anima di Aristea, definitivamente liberata dalle catene del corpo, riapparisse 250 anni dopo la morte a Metaponto – lo stesso centro che aveva accolto Pitagora, altro celebre “sciamano” greco esule da una provincia dell’Asia – indicando ai suoi abitanti il luogo in cui istituire un culto oracolare di Apollo.
Un motivo iconografico peculiare come quello delle nostre appliques, sullo scorcio
dell’epoca classica, sembra dunque aver trovato a Taranto un terreno già preparato ad accoglierlo, complice il radicamento di dottrine salvifiche come l’Orfismo e il Pitagorismo e una lunga vicenda di contatti fra l’arco ionico della Magna Grecia e un Oriente non così sconosciuto. Ma questa è un’altra storia, una delle tante che le collezioni del MArTA sono in grado di raccontare a chi voglia e sappia disporsi all’ascolto.

Breve bibliografia di riferimento

E.M. De Juliis, Gli ori di Taranto in Età Ellenistica, Milano 1984, in particolare pp. 396, 453, n. 23
(via Nettuno).

M.C. D’Ercole, Arimaspes et griffons, de la Mer Noire à l’adriatique via Athènes, in Metis 7, 2009,
pp. 203-225.
R. Lullies, Vergoldete Terrakotta-Appliken aus Tarent, in Archäologischer Anzeiger 1958, pp. 143-155.
R. Lullies, Vergoldete Terrakotta-Appliken aus Tarent, Heidelberg 1962.
R. Lullies, Addenda zu ‘Vergoldete Terracotta-Appliken aus Tarent’, RM, 7. Ergänzungsheft 1962,
in Römische Abteilung 84, 1977, pp. 235-260.
L. Mancini, Taranto e l’affermazione del linguaggio ellenistico in Messapia. Considerazioni
sull’architettura funeraria e gli spazi del sacro, in E. Degl’Innocenti (a cura di), Il tesoretto di Specchia al Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Taranto e la Messapia tra IV e III secolo
a.C., Foggia 2020, pp. 41-65, in particolare pp. 49-50.
M. Pisani, Avvolti dalla morte. Ipotesi di ricostruzione di un rituale di incinerazione a Tebe, Atene
2013, in particolare pp. 89-95.
Didascalie
Fig. 1. Applique raffigurante un personaggio maschile recumbente con corno per bere. Da Taranto,
via Icco, 1954 (foto MArTA, P. Buscicchio).
Fig. 2. Applique raffigurante un personaggio femminile recumbente e un Erote che tira con l’arco.
Da Taranto, via Icco, 1954 (foto MArTA, P. Buscicchio).
Fig. 3. Applique raffigurante una Menade con fiaccola e pantera. Da Taranto, via Icco, 1954 (foto
MArTA, P. Buscicchio).
Fig. 4. Applique raffigurante un Arimaspe in lotta con due Grifoni. Da Taranto, via Nettuno, 1939
(foto MArTA, P. Buscicchio).
Fig. 5. Applique raffigurante un Arimaspe in lotta con due Grifoni. Da Taranto, via Nettuno, 1939
(foto MArTA, P. Buscicchio).
Fig. 6. Applique raffigurante un Grifone. Da Taranto, via Nettuno, 1939 (foto MArTA, P.
Buscicchio).
Fig. 7. Applique raffigurante un leone. Da Taranto, via Nettuno, 1939 (foto MArTA, P. Buscicchio).
Fig. 8. Applique raffigurante un cavallo abbattuto. Da Taranto, via Nettuno, 1939 (foto MArTA, P.
Buscicchio).
Fig. 9. Applique raffigurante un cerbiatto abbattuto. Da Taranto, via Nettuno, 1939 (foto MArTA, P.
Buscicchio).
Fig. 10. Applique raffigurante una rosetta. Da Taranto, via Nettuno, 1939 (foto MArTA, P.
Buscicchio).
Fig. 11. a-b. Taranto, Museo Archeologico Nazionale, segnacolo in carparo configurato a sarcofago
(foto Autore). c. Disegno ricostruttivo di una testata del sarcofago ligneo rinvenuto a Taman, Russia
meridionale (da Mancini 2020).

Lorenzo Mancini – Funzionario Archeologo MiC (Museo Archeologico Nazionale di Taranto)
Il MarTA, Museo archeologico Nazionale di Taranto

Fin dalla sua istituzione nel 1887, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto – MArTA, tra i
più importanti non solo a livello nazionale, occupa l’ex Convento dei Frati Alcantarini o di San Pasquale, costruito poco dopo la metà del XVIII secolo e più volte modificato nel corso del Novecento. Radicalmente rinnovato agli inizi degli anni Duemila, l’allestimento segue un percorso cronologico, dalle più antiche testimonianze della presenza dell’uomo in Puglia, risalenti a oltre 20.000 anni fa, alle soglie del Medioevo.
Il viaggio inizia al Secondo piano, dove la statua in bronzo tardo-arcaica di Zeus da Ugento
accoglie il visitatore. Dalla Preistoria e Protostoria della Puglia, attraverso il racconto della
fondazione della colonia spartana di Taras alla fine dell’VIII sec. a.C., fra mito, archeologia e storia, il percorso illustra tematiche quali l’archeologia del sacro, le produzioni artigianali, le popolazioni indigene della Puglia antica e le necropoli della Taranto greca, dove la tomba
dell’Atleta (490-480 a.C.) segna la transizione tra le epoche arcaica e classica.
Il Primo piano introduce il visitatore agli splendori della Taras tardo-classica ed ellenistica,
testimoniati dagli Ori di Taranto, dai ricchi corredi e dalle sculture in pietra tenera dei monumenti funerari. Uno spazio non minore è dedicato alla Tarentum romana, tra la conquista alla fine del III sec. a.C. e il basso Impero, e alle trasformazioni della città tardoantica e altomedievale.
Nuove vetrine con materiali provenienti dai depositi saranno inserite lungo il percorso espositivo nell’ambito del PON “Il Museo MArTA 3.0”, espressione del dinamismo di un Museo che ha condensato la propria missione nella formula “Past for Future”.

A cura di Lorenzo Mancini 

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