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giovedì, Novembre 21, 2024

Non c’è Bene ad Otranto

Potrebbe essere una allusione al difficile momento che Otranto sta attraversando, con gli amministratori sotto le forche caudine della magistratura, invece è il titolo di un libro di Elio Paiano su Carmelo Bene.

Occuparsi di Carmelo Bene mi ha sempre procurato cautela, accortezza, ponderazione, una certa sensazione di disagio, insomma, consapevole di avere a che fare con un campo minato. Averlo dovuto studiare agli inizi del mio percorso accademico al DAMS di Bologna come uno dei rappresentanti della seconda avanguardia teatrale, aver visto diversi suoi spettacoli ed essere rimasto stupefatto dalla visione di “Hommelette for Hamlet” non hanno attutito la riverenza, il timore e la convinzione che qualsiasi forma di trattamento della sua opera, letteraria, poetica, teatrale, musicale, cinematografica, televisiva e di tutte le altre forme d’arte di cui si è occupato, fosse superficiale, inadeguata, non pertinente.

Ma c’è un ma. La lettura di “Non c’è Bene ad Otranto”, un libello a cura di Elio Paiano, letto in un paio d’ore di divertimento e, non lo nascondo, esplosive risate. Nessuna intenzione a sminuire il lavoro di Paiano, anzi esso è estremamente apprezzabile in quanto in poche pagine riesce a tracciare un profilo inedito, insolito, dissacrante del rapporto tra una Otranto pettegola, ciarlona, linguacciuta e l’Elevato.

Riassumo, in breve e parzialmente, l’aneddotica descritta da Paiano come l’episodio dell’invito violento a sloggiare fatto al turista tedesco con il catamarano giallo attraccato al porto che gli distrugge il bel vedere dalla sua finestra sui bastioni dei Pelasgi.

La richiesta di finanziamento all’amministrazione comunale del progetto “Un appello ai popoli del mare” che fosse udibile a tutte le navi, i mercantili, le vele, le imbarcazioni ed a qualsiasi natante in transito nel Canale d’Otranto, tra Adriatico e Ionio, in grado di arrivare ai popoli del mare, che lo ascoltino navigando, dal costo di un miliardo.

La processione della Madonna dell’Altomare che gli passa sotto casa e lui a declamare sul tetto brani di “Sono apparso alla Madonna” tirandosi dietro tutti gli improperi e maledizioni dei fedeli otrantini a cui urlava; “Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna […] Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu […] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: un miracolo è la trasparenza”. Solo per miracolo non venne linciato dai fedeli che si stavano arrampicando uno sull’altro per raggiungerlo sul tetto.

Gli scanzonati otrantini che accertatisi della sua presenza nella dimora sui Bastioni si divertivano a suonare il campanello provocando una veemente reazione che soddisfaceva la loro goliardia.

La casa allagata in pieno agosto per la rottura di un tubo, con tutti gli idraulici in ferie e l’unico volontario, Roberto detto il Moro, che tappa il tubo con degli stracci e tenendolo stretto con la mano chiede una buona bottiglia per alleviare la noia aspettando per ore il tubista e ad operazione conclusa il maestro lo ringrazia con un sonoro “Grazie Roberto, l’uomo più intelligente di Otranto!”

È l’episodio dell’Immemoriale, però, che mi porta indietro nel tempo, quando preparando la mia tesi di Laurea, verso la fine degli anni ’70, me ne occupai a partire da una sua brillante intervista dell’allora direttore del Quotidiano Antonio Maglio, ma su questo argomento mi ripropongo di ritornarci con un articolo dedicato. Qui, però l’argomentare di Paiano diventa serio e con qualche punta di rammarico. L’Immemoriale, presentato da Carmelo Bene in una conferenza stampa, doveva essere il luogo, la sua casa otrantina sui Bastioni, dove tutto il patrimonio fatto di preziose registrazioni, appunti, agende, progetti poteva essere di fruizione pubblica. Ma non in un luogo qualsiasi, bensì in quel suo rifugio intimo di Otranto.

“Un castellaccio brutto, con gli angeli di scena, le gigantesche specchiere, i tavolini in madreperla, i rubinetti di rame e così via. […] Ma poi arrivano una, due, tre, cento riunioni, intellettuali e politici, cause giudiziarie, inventari, periti e perizie. Alla fine, nel 2009 tutto finisce, l’Immemoriale è sciolto. Il materiale oggi è visitabile. È anche ben allestito, ma è a Lecce, gli manca la scena. Quella casa con l’odore del pesce, i colori dei frutti di mare, le urla e le risate tra le volte a stella, le sedie, la libreria in pietra leccese e la terrazza dove immaginare le attrici in lizza per una parte. Tutta quella speciale atmosfera è ormai andata perduta per sempre e resterà solo nei ricordi di poche persone”. Cit. p. 25 “Non c’è Bene ad Otranto”.


Tra la fine degli anni ’70 e il principio degli anni ’80, Carmelo Bene conobbe i suoi maggiori trionfi. Straordinario melomane, profondo critico musicale, esaudì il suo grande sogno di essere chiamato alla Scala di Milano recitando da solista in un memorabile Manfred in forma di concerto e la sua voce fu degna compagna delle musiche di Schumann. Tra il pubblico, ad acclamarlo alla Scala, c’erano anche i filosofi e gli psicoanalisti che lo avevano descritto a tutto il mondo come un monumento teatrale, un fenomeno unico, un prodigio del pensiero profondo. Maestri come Gilles Deleuze, Pierre Klossowski alla cui amicizia fu legato per tutta la vita. A quattro mesi dalla sua scomparsa, il critico Italo Moscati titolava uno speciale della rivista Hystrio, “Un mattatore all’antica futurista”. Lo stesso Moscati diceva: “Credo che Carmelo sia stato e continuerà ad essere l’ultimo degli attori italiani all’antica, sulla scia degli attori che alimentano e alimenteranno ancora per poco le nostre asfittiche stagioni teatrali”.

Un fotogramma del film “Nostra Signora dei Turchi”, girato quasi completamente tra Santa Cesarea, Otranto e Badisco

Carmelo Bene era il mattatore per eccellenza che aveva mutato e quindi riciclato la stagionata, acclamata e odiata figura dello stesso mattatore, rimescolandola con le sue ansie di dominio assoluto, ma potendo contare anche nei suoi scandalosi inizi sui contributi di affascinati filosofi e semiologi più che di critici e giornalisti.

Carmelo Bene scrisse un’immodesta ed eccessiva biografia che intitolò “Sono apparso alla Madonna” di cui l’incipit cita, “Su un asse di appena quaranta chilometri distante Otranto, in Campi Salentina, pianura sconfinata agricola, di grano, vino, ulivi, e tabacco, soprattutto tabacco, un Atlas di tabacco, ha luogo la mia nascita di Re Sardanapalo. Vedo montagne di donne «d’ogni forma», «d’ogni età», il numero effettivo di queste tabacchine si può quantificare almeno sulle millequattro). Mi ritrovo quattrenne palleggiato da questa montagna di nudo donnesco animale, negli spogliatoi di una azienda, tra un intervallo e l’altro destinato alla cernita o all’imballaggio, e ai vari trattamenti del tabacco. Accanto a questo, tre ordini religiosi: scolópi, salesiani, gesuiti. Latino e greco antichi anche parlando del più e del meno, latino ecclesiastico, certo sport, ogni sabato e domenica. Premio: Lecce. Lecce come premio o come castigo”.

A Roma si iscrive a Giurisprudenza e poi all’Accademia di Arte Drammatica, abbandona quest’ultima come dice lui o viene cacciato come dicono gli altri, ma sono pur sempre abbandoni già scritti, già coerenti con una violenta necessità di affermazione. Primo debutto clamoroso è il “Caligola” di Albert Camus che gli cede personalmente i diritti, nonostante la giovanissima età. Carmelo Bene inizialmente ne è l’interprete diretto da Alberto Ruggero ma presto si autodirige. Certamente voleva essere famoso e considerato dalla stampa, ma corteggiava con ruvida classe ed elegante disinvoltura i Deleuze, i Derrida, i Klossowski di Parigi, una infinità di estimatori ed esegeti acquisiti strada facendo.

Un fotogramma del film “Salomé”

Dagli anni ’60 Carmelo Bene è l’autentico caposcuola di una avanguardia europea che si confronta a forza con quella nordamericana, ma con una differenza sostanziale. Nei suoi confronti, l’artista italiano dà del nuovo teatro un’immagine scomposta e ricomposta violentemente. Tra il ’61 e il ’62 realizza il primo Amleto, il primo Pinocchio e fino al ’63 spettacoli-cabaret con titoli significativi come “Addio Porco” e “Cristo 63”. Nello spazio di tre, quattro anni Carmelo ha già steso l’intero tessuto del suo lavoro teatrale con una fretta tragica. Testi, parole, eventi e musicalità che verranno visitati con sempre maggiori mezzi, ma che già formano un quadro preciso all’interno del quale, questa lotta aperta contro il teatro di interpretazione si legge in profondità.

Agli esordi Carmelo Bene debutta in salette improvvisate, veri e propri magazzini teatrali dove il successo e l’esaurito sono garantiti dalla scarsità degli spazi, ma il pubblico che l’affolla scende da automobili di lusso, donne ingioiellate, pellicce che spesso accoglie con i suoi attori a colpi di pennellate sul viso o apostrofi volgari. Ma parte da qui quello che alla fine del ventesimo secolo teatrale, in Italia e altrove porterà certamente il segno di Bene, quello di una rivalutazione globale del linguaggio teatrale e della sua enunciazione che si cristallizzano in un elemento preponderante del teatro di Bene, la “Voce e la sua Musicalità”, il “Corpo e la sua totale invasione dello spazio scenico”. Con lui, l’attore ridiventa la componente essenziale del fatto teatrale, ma non solo, egli è in assoluto attore e autore nel senso pieno del termine, attraverso una vastissima operazione contro i testi stessi che egli non solo sovverte, ma stravolge. Gli effetti sono coinvolgenti e più l’attore privilegia il suo isolamento poetico, più la sua forza sul pubblico aumenta di volta in volta.

Celebre la sua avversione per ogni forma di critica teatrale e soprattutto per i critici di professione inadatti a capire l’essenza del suo lavoro come evidenziano queste sue dichiarazioni; “… per me i critici teatrali non esistono. Per capire un poeta o un artista, almeno che questo non sia soltanto un attore, ci vuole un altro poeta o un altro artista”.


 di Mario Blasi

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