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venerdì, Settembre 20, 2024
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C’era una volta… il tempo delle azioni consapevoli – di Maria Rita Pio

In una serata di primo fresco invernale, un pastore tornava dal pascolo con le sue pecore le sue capre e le mucche. L’aria profumava di freddo schietto e di legna bruciata nel focolare sotto ad un paiolo carico di promesse di cibo buono e caldo per l’anima. Il pastore si fermò a guardare il cielo che in quella serata era limpido e luccicante di stelle. Respirò profondamente chiudendo gli occhi e immaginandosi il momento esatto in cui avrebbe varcato la soglia di casa, finalmente. Aveva fame e tanta. Mentre si lasciava cullare da questo pensiero, aprì dolcemente gli occhi sognanti per poi sgranarli pieni di stupore rimanendo a bocca aperta a guardare il cielo che era diventato di diamanti brillanti che accompagnavano e attorniavano una scia luminosissima, che per uno strano motivo si era fermata sulla sua traiettoria. Cos’era? Uno di quei diamanti scese, sfiorando il suolo davanti a lui, e poté notare che quella luce era causata da un tastevin appeso al collo di un sommelier. Il sommelier con un cenno elegante della mano indico una strada e disse: “percorri fino al bivio che profuma di fiori e frutta rossa sfumatura, prugne sotto alcool e more, tu rotea a sinistra e quando senti nell’aria sentori di fiori gialli misti a frutti tropicali, note di ananas accentuate, fermati. Aspetta che la botte abbia finito di donare le sue note speziate di vaniglia, di tostato. Prendi tutto e carica su un carretto. Segui questa scia che ti porterà in una terra meravigliosa, bagnata da due mari dove la sua terra è generosa e unica. Percorrila tutta finché non arrivi al finibus terrae. In questo luogo comincia la magia dei due mari che si incontrano.

Il pastore chiese chi avrebbe dovuto incontrare e il maitre à penser, giunto poco dopo il sommelier, disse: “vada, vada e non chieda…capirà”. Il pastore pensò che qualcuno di speciale aveva incrociato la sua strada. Non si fece troppe domande e partì. Era di maniere educate e il suo pensiero comincio a formulare l’idea che comunque non si sarebbe potuto presentare a mani vuote. Durante il cammino giunto nella Daunia si recò presso il presidio slow food e comprò del formaggio podolico legato con dello spago e lo mise a cavalcioni sul cavallo. Soddisfatto disse:” lo chiamerò caciocavallo podolico del Gargano”. Si fermò a prendere le fave di Carpino altro presidio slow food. Il pastore comprava solo cose di eccellenza e nei presidi slow food. Non dimenticò le cozze di Taranto, le cipolle rosse di Acquaviva delle Fonti, le lenticchie di Zollino, il pane di Altamura, gli olii extravergini di oliva, il capocollo di Martinafranca. Magari un antipasto ci sta’ per sollevare gli animi, pensò non sapendo chi avrebbe incontrato e con quale umore. Pesce azzurro fritto in scapece, pittule, friselle, cozze gratinate e vari sott’oli di vegetali come i cardoncelli e le melanzane…e i dolci? Ma certo il dolce non può mancare e allora prese cartellate al vino cotto e al miele, porceddhuzzi, le tette delle monache, mostaccioli e l’immancabile “cupeta” o meglio il croccante alle mandorle e alle nocciole. Eppure qualcosa mancava, ma cosa. Il vino, mancava il vino, non ne aveva a sufficienza e trovandosi in zona di produzione del Primitivo e del Negroamaro visitò qualche cantina. Giunto in un grande piazzale si rese conto che la terra era finita c’era solo il mare, anzi due mari che si incontrano e danzano insieme. Era arrivato. Si trovava a Santa Maria di Leuca e piano piano la piazza cominciava a riempirsi di gente, Il pastore chiese il nome di quella terra lunga e meravigliosa che aveva attraversato, pianeggiante, collinare e a tratti montuosa e di straordinaria bellezza. Il suo viaggio era iniziato dall’area del Gargano passando per il Tavoliere delle Puglie, l’Arco Ionico tarantino, la terra di Bari, la valle d’Itria, l’arco subappennino dauno e il Salento.

Ma cosa l’aveva portato in quel luogo di straordinaria bellezza territoriale e storica? Tra la folla si fece largo il maestro concertatore della notte della taranta e chiese al pastore di risalire costeggiando il mare fino a raggiungere il punto più orientale del paese, la terra di Otranto vicino al faro in località Palascia. Quel luogo è il primo in tutta la penisola a vedere il sole sorgere. Lì con tutta la gente avrebbero aspettato la prima alba dell’anno nuovo, dando inizio all’alba dei popoli. Il pastore commosso da tutto quel calore e speranza sincera che quella gente straordinaria emanava, organizzò un banchetto di condivisione beneaugurante con tutta la gente che continuava ad arrivare. Si rese conto che quelle persone venivano da ogni luogo della penisola e anche da oltre suoi confini. Erano genti piene di nuovi pensieri e nuovo amore per la terra, quello giusto, quello sincero, quello rispettoso e consapevole.

Maria Rita Pio

Assegnato alla salentina Irene De Blasi, il Premio dell’”International Astronomical Union”

La studiosa fa parte del Dipartimento di Matematica “G. Peano”  dell’Università di Torino. L’Associazione Internazionale promuove gli studi astronomici in tutto il mondo


Sono stati assegnati i Premi “IAU (International Astronomical Union) PhD” per le tesi di dottorato in tema di Astronomia: la dottoressa leccese Irene De Blasi, ricercatrice del Dipartimento di Matematica “Giuseppe Peano”  dell’Università di Torino, ha ricevuto il riconoscimento per la sua dissertazione nella “Division A Fundamental Astronomy.

Il titolo della sua tesi è “Dynamics and stability in Celestial Mechanics: from galactic billiards to Nekhoroshev estimates”: è stata scelta, tra gli elaborati proposti da candidati provenienti da tutto il mondo, per l’altissima qualità della ricerca condotta e l’eccellenza dei risultati scientifici ottenuti nel campo dell’astrofisica. La missione della “IAU” è, infatti, quella di promuovere l’astronomia in tutti i suoi aspetti (inclusi ricerca, comunicazione, istruzione e sviluppo) attraverso la cooperazione internazionale.

Irene De Blasi

Il Premio “IAU PhD” riconosce gli eccezionali risultati scientifici degli studenti di dottorato in astronomia di tutto il mondo. Ognuna delle nove divisioni della “IAU” assegna un premio al candidato che ritiene abbia svolto il lavoro più notevole nell’anno precedente.

Irene De Blasi è una giovane matematica di origini leccesi, che è approdata a Torino per frequentare il Dottorato di Ricerca in Matematica Pura e Applicata e, successivamente, è  entrata nel gruppo di Meccanica Celeste guidato da Susanna Terracini.

Il suo campo di ricerca continua ad estendersi nell’ambito dello studio dei sistemi dinamici per la Meccanica Celeste, ma anche allo studio della stabilità orbitale dei satelliti, che prosegue e affianca quello di un particolare tipo di sistema dinamico, chiamato biliardo galattico, nato allo scopo di studiare il moto di una particella in una galassia ellittica con un buco nero al suo interno.

Irene De Blasi, nel marzo scorso, è stata anche eletta componente della “EMS Young Academy” (EMYA), l’Accademia dell’”European Mathematical Society”, che raccoglie il meglio della matematica europea tra le giovani generazioni.                   

(Gabriele De Blasi)

  1. Imperat. Adriano 10/b, Lecce, 338 4771579

La lentezza in fotografia

Tante sono le modalità dell’andar a foto, le foto scattate in un lampo, situazioni catturate in un secondo, l’attimo in cui qualcosa ci passa davanti o una situazione di cose e persone che avvistiamo all’improvviso e il nostro click è istantaneo, fulmineo, a catturare l’emozione.

Naturalmente qui sono a parlarvi della mia esperienza di fotografo paesaggista, di scogliere, di mare, vento e cieli impegnati da nuvole che a volte stazionano sopra torri e paesaggi, scenari in cui la “lentezza” ci permette di cogliere tutti i cambi di luce, di nuvole che scorrono veloci, di mare ora calmo, ora all’improvviso mosso, scomposto, agitato…

Se si vuol cogliere davvero l’essenza di un luogo lungo la costa, se si vuole intimamente scoprirne i segreti, le sfumature, i colori, non si può far altro che usare “lentezza”.

La “lentezza” che si ottiene dal non aver fretta, dall’aver tempo a disposizione per osservare ogni piccolo cambiamento nel cielo, nelle nuvole che ora si addensano e dopo poco si disperdono, dando vita a ritagli che sembrano trame di dipinti.

Ed è straordinario come una torre costiera, sempre la stessa, una scogliera, un mare conosciuto e frequentato possano offrire di sé , in ogni minuto che passa, una situazione di luce e colore diversa, stessi elementi per un racconto, una scenografia complessa a comporre un’opera in cui gli elementi raccontano il meglio di sé stessi.

Oggetti immobili e fissi che vestono di luce e colori sempre diversi nello scorrere dei minuti e delle ore: è così che si riesce a cogliere e immortalare in fotografia la magnificenza del creato in tutte le sue peculiarità e sfumature.

È il mio modo preferito di intendere e “fare” fotografia, la “lentezza” come elemento per scoprire l’anima delle cose, dei luoghi e degli elementi e raccontarla a chi si trova davanti alle mie fotografie.

di Alfonso Zuccalà

Domenico Colaianni, dal festival della Valle d’Itria ai teatri del Sol Levante

Domenico Colaianni si è diplomato in canto con il massimo dei voti, sotto la guida di A.M.Balboni, presso il Conservatorio di Musica “N. Piccinni” di Bari, sua città natale. Ha frequentato i corsi di preparazione curati da Magda Olivero, Graziella Sciutti, Maria Luisa Cioni e debuttato (nel ruolo di Mengotto) nella “Cecchina o La Buona Figliola” di Piccinni e (come Papageno) nel “Flauto Magico” di Mozart.  Nel 1989 ha vinto il concorso AS.LI.CO. a Milano. Da qui inizia una brillante carriera che lo ha portato a cantare nei più grandi teatri italiani ed esteri.  Al Teatro alla Scala di Milano canta ne la “Bohème” e “Tosca”, al Regio di Torino ne la “ Bohème”, “Don Pasquale”, “The Medium” di G.Menotti  e altre opere. Seguono esibizioni al San Carlo di Napoli “Le Nozze di Figaro e ” Convenienze e inconvenienze teatrali” di Donizetti e all’Opera di Roma, poi al teatro La Fenice di Venezia, al Lirico di Cagliari e al Massimo di Palermo. Tante le opere in cui ha cantato al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca: “Amor vuol sofferenza” di Leo, “L’americano” di Piccinni,

Domenico Colaianni

“Armida immaginaria” di Cimarosa, “Il fortunato inganno” di Donizetti solo per citarne alcune. Al Teatro Piccinni di Bari è Dulcamara ne “l’elisir d’amore” e Don Magnifico in “la Cenerentola”. Ha inaugurato la riapertura del Teatro Petruzzelli di Bari con” Turandot” per poi essere invitato di nuovo come Borella ne “La muette de Portici” di Auber (produzione vincitrice del premio Abbiati).


Con il baritono Domenico Colaianni (per gli amici Mimmo) ci siamo conosciuti più di 30 anni fa sulle tavole del palcoscenico del Festival della Valle d’Itria a Martina Franca. Il festival che ha sempre fatto un’attenta ricerca musicologica del mondo della lirica e dei talenti più promettenti. All’epoca con il compianto collega Antonio Rossano, giornalista e appassionato cultore del bel canto (e successivamente con Costantino Foschini) si seguivano non solo le opere durante la messa in scena, ma tutto il lavoro ponderoso che c’è dietro la realizzazione di uno spettacolo. Prove continue, in ogni sede, a tutte le ore. Martina Franca durante e prima del festival è un’intera città che canta. In ogni vicolo, e dalle antiche finestre, è possibile ascoltare gli orchestrali e i cantanti che provano e studiano le partiture.


Cosa ricordi più volentieri di quel periodo…

«Ricordo i voli che faceva il mio spartito durante lo studio dell’opera “Amor vuol sofferenza” del pugliese L. Leo. Era la mia prima opera che cantavo in napoletano, per lo più scritta su una partitura con caratteri e parole allora per me incomprensibili e spesso mi cadevano le braccia!

Seguivo il Festival da ragazzino e da studente di canto, per me una meta irraggiungibile per la sua importanza. Mi chiamò il grande M° Segalini, a cui devo tanto, per un’audizione ad Osimo. Dopo pochi giorni mi arrivò la conferma per poter partecipare al 20° Festival della Valle d’Itria (1994). Sono figlio del Festival, devo tutta la mia carriera al Festival, che mi ha visto presente e protagonista in tantissime indimenticabili produzioni, penso di essere l’artista più scritturato nelle sue stagioni».

Quando ti ho ascoltato per la prima volta, durante le prove, rimasi colpito non solo dalla tua voce, ma dalla capacità di trasmettere emozioni con la recitazione e il tutto senza trucco, costume e orchestra, ma solo con un pianoforte d’accompagnamento…

«Il piacere di cantare a Martina Franca è in quello di cimentarsi in ruoli caduti nell’oblio, dove non c’è alcuno aiuto discografico. È stato bello poter creare tanti personaggi, dare loro una voce ed una personale interpretazione… far rivivere i fantasmi del passato. Il gusto di tirare quello che non c’è scritto nelle note ma fra le note, animare quello che aveva pensato il compositore. Bisogna crederci e far vivere quello che si canta».

Nel corso di tutti questi anni hai cantato nei teatri più prestigiosi in Italia, ma anche all’estero, privilegiando i ruoli comici

«Da Martina è partita la mia grande carriera, mi ha aperto le porte dei grandi teatri internazionali facendomi lavorare con i più importanti direttori e registi e grandissimi colleghi, mi ha specializzato in quel filone dell’opera del 700 e dell’opera buffa. In questi anni ho cantato in più di110 titoli. Ho solo un rimpianto….quello di non essere mai morto in scena ma sono fiducioso.

Oltre alla tua carriera di cantante c’è quella di didatta…

«Sono docente di canto da più di 25 anni al Conservatorio Piccinni di Bari. È bello poter insegnare e trasmettere con tanta gioia, passione, pazienza, quello che hai appreso in tanti anni di palcoscenico. Lo studio del canto, come dico sempre agli studenti, è un lavoro di bottega dove si crea, si cesella, si perfeziona e bisogna essere dei bravi ed intelligenti ladri, rubare e far proprio quello che hanno eseguito i bravi cantanti di ieri e di oggi, senza mai imitarli».

Durante le rappresentazioni delle opere sul palco del prestigioso palazzo ducale di Martina Franca, spesso è possibile notare tra il pubblico, spettatori giapponesi e di altre nazionalità. C’è interesse per il mondo della lirica italiana nel paese del sol Levante?

«Nel paese del Sol Levante c’è una passione e un amore per la grande lirica italiana, con un pubblico attento e rispettoso, che ti ricopre e ti sommerge di applausi quando cala il sipario».

Recentemente sei stato in Giappone, in quale opera hai cantato e in quale teatro?  Com’è stata   quest’esperienza?

«Sono stato in Giappone tantissime volte, a settembre ci sono ritornato al Teatro Bunka Kaikan di Tokio con il Teatro dell’Opera di Roma con la “Tosca” di Puccini. Accoglienza e tifo da stadio, con 25 minuti di applausi a fine opera; ti sorprende ogni volta il pubblico che ti aspetta per ore fuori dal Teatro prima e dopo lo spettacolo, per poter avere una foto, un autografo, una stretta di mano un sorriso».

Cosa ti è mancato della tua baresità in Giappone e cosa invece ti è rimasto di quel paese?

«Mi reputo un barese doc, nato in via Vallisa nella città vecchia. Nel mio cuore c’è sempre l’amore per la mia città e “pe Sanda Necole”. Mi diverto tantissimo ad insegnare ai miei colleghi il dialetto barese. Un mese senza orecchiette si sopravvive e poi in Giappone si mangia il pesce crudo, lo chiamano Sushi, per noi “u crute”. Ti stupisce che tutto funzioni alla perfezione ed il grande rispetto che c’è per tutti piccoli e grandi».

Il 13 e 14 ottobre di quest’anno hai curato la regia della “Suora Angelica” di Giacomo Puccini su libretto di Giovacchino Forzano, una produzione del conservatorio Niccolò Piccinni di Bari. Com’ è stata questa esperienza?

«È da qualche anno che in Conservatorio a Bari mettiamo su dei titoli d’opera con gli studenti, abbiamo iniziato con la “Cambiale di Matrimonio” e il “Signor Bruschino” di Rossini, poi “Gianni Schicchi” e “Suor Angelica” di Puccini. È un lavoro di equipe che vede impegnati docenti e studenti che lavorano come in un teatro, fianco a fianco. Vedere illuminarsi gli occhi di chi muove i primi passi sul palcoscenico mi dà tanta carica ed entusiasmo, rivedo in loro i miei primi sogni e le speranze».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Riprendo a giorni una produzione di “Tosca fatta a Savona lo scorso anno con la regia della grande Renata Scotto nei teatri delle Marche; poi torno a Roma in dicembre, sempre per la mia amata “Tosca”, a febbraio “Gianni Schicchi” e poi la stagione estiva di Caracalla».

intervista a cura di Damiano Ventrelli

Michele e Rossella, in camper, ambasciatori di Modugno nel mondo

La volontà di viaggiare su un camper e vivere in molti posti con i ritmi e lo stile dei nomadi digitali è una delle cose che accomuna Michele D’Alessio e Rossella Del Console, due giovani sposi di Modugno che, nel 2021, insieme al loro cane Mia, hanno intrapreso un viaggio in giro per l’Italia, durato due anni, a bordo di un Iveco Daily del 1992. Tappa per tappa, il racconto della loro vanlife, Michele e Rossella lo hanno affidato a un libro e al blog Vangolden in cui si legge che “gli ultimi due anni sono stati una rivoluzione”. Un progetto non solo di viaggio, ma di vita insieme!  Il vigore con cui si spalancano le finestre della loro storia sul mondo trova tracce nel passato sia personale sia di coppia.  

Pochi anni fa Michele ha avuto problemi di lavoro e salute, anche gravi, fondamentalmente legati allo stress. Quando ha scoperto la forza empatica del viaggio, ha fatto il Cammino di Santiago di Compostela, ha girato l’Africa, ha scalato il Kilimangiaro.  Rossella è una donna grintosa, ha una laurea in lettere a pieni voti, lavora nell’e-commerce. La loro storia è iniziata con un’amicizia nell’estate del 2016. Un anno dopo, si sono rincontrati per non lasciarsi mai più. “La prima cosa che mi ha chiesto? – spiega sorridendo Rossella – Io voglio viaggiare, vieni con me?” “Cosa gli potevo rispondere? L’idea di vivere una vita nomade che sapeva di romantica utopia o di fuga dalla realtà, mi ha lasciato senza parole. Poi mi sono detta “e perché no? Per farla breve: l’ho sposato in chiesa ed ho scelto la passione di viaggiare su ruote insieme a lui. La nostra prima follia a bordo della Iveco Daily? Siamo andati a vivere nel piazzale del cimitero del nostro paese” Michele anticipa la nostra domanda: “Cosa pensa la gente di noi? È forse folle colui che sceglie di abbandonare una casa di mattoni per vivere su un camper? Comunque sia è meglio essere folli che infelici. Girare il mondo, raggiungere luoghi ameni e lontani, conoscere persone con culture e tradizioni diverse dalla nostra. Mettersi in gioco ogni giorno per superare le difficoltà di ogni genere che possono presentarsi lungo il viaggio. “Il nostro momento più difficile lo abbiamo vissuto in Sicilia. Il nostro camper ha preso fuoco per un guasto all’impianto elettrico. Siamo stati fermi tre mesi, ospiti da una signora col figlio disabile. In realtà la bellezza della vanlife è anche questa: vivere all’avventura, aspettarsi il bello e il brutto, arricchirsi di incontri e storie di vita, trovare in ogni città qualcuno che riconosce il nostro progetto, ci offre un caffè, un sorriso, un consiglio”. 

Oltre all’esperienza di crescita on the road, la giovane coppia di Modugno farà anche conoscere la sua città d’origine. Infatti, in occasione dei festeggiamenti del Millennio Modugnese, il Comune li ha nominati Ambasciatori di Modugno nel mondo. Porteranno un flyer dimostrativo delle bellezze della città e daranno testimonianza della storia, cultura e vita di Modugno in ogni tappa italiana ed internazionale. Un grande onore per loro. Ora si pensa alla pianificazione del viaggio su “casa mobile” fuori Italia. Non è stato ancora definito il percorso, ma la prima tappa sarà l’Albania e poi l’Asia, infine l’America.  Dopo il primo viaggio in cui hanno attraversato tutta l’Italia,  la giovane coppia ha deciso di vendere il camper e di costruire un nido d’amore partendo da un ex veicolo militare 4×4 appartenuto all’esercito italiano nel lontano 1981. “Eravamo a Torino dopo dieci mesi di viaggio. Cercavamo un camper più grande ed efficiente per girare il mondo. Fummo colpiti dall’annuncio di un boscaiolo di Treviso: Vendesi a buon prezzo vecchio camion militare. Affare fatto”.  Cosi, dopo il difficile periodo di pandemia mondiale, la coppia ha ottimizzato le risorse e si è messa al lavoro. Tra rimozione della ruggine, verniciatura, costruzione della cellula abitativa, sostituzione delle gomme, montaggio pannelli solari e tanto altro lavoro, Rossella consegna alle pagine del suo blog queste parole: “Non faccio che pensare a quando il camper sarà finito. Mi immagino la cucina, ampia e luminosa. Mi immagino il letto con i cuscini morbidi e tutti i miei libri a vista nello scaffale. Mi immagino i luoghi che visiteremo. Voglio vedere tutto. Voglio scoprire il mondo!”

L’emozione è palpabile.  “Non c’è niente di più bello dell’istante che precede il viaggio, l’istante in cui l’orizzonte del domani viene a renderci visita e a raccontarci le sue promesse”. Lo scriveva Milan Kundera, lo provano i viaggiatori di sempre, lo vivono i vanlifers come loro.  Viaggiare senza limiti temporali o spaziali dà la possibilità di condividere la propria storia con quella di persone che si incontrano sulla strada e di scoprire nuove culture, visitando anche luoghi non famosi, quelli che spesso riservano le più grandi sorprese. Se puoi sognarlo, puoi farlo. Consapevoli delle gioie, dei limiti, delle difficoltà e delle le sfide da affrontare ogni giorno, Michele e Rossella, ambasciatori di Modugno nel mondo, continueranno a raccontare, nei prossimi anni, le loro esperienze sui social, dopo averle vissute e interiorizzate. Noi continueremo a seguirli nel nuovo e meraviglioso viaggio in camper e tiferemo per loro. 

di Francesco Pizzileo

Sidney Lumet e il lento decidere del tempo

Il defluire del tempo è sempre stato legato a qualcosa di imponderabile e difficile da definire con accuratezza, tale da riuscire a uniformarne la percezione. La natura umana ne è sempre stata schiava, condensandone il passaggio nella propria sensibilità o nello spirito del momento di fronte ad accadimenti, di qualsiasi specie fossero, in grado di sospenderlo, velocizzarlo o rallentarlo fino ai minimi termini.

Il cinema, naturalmente, non fa eccezione.

A suo modo lo interpreta e lo definisce, con modalità diverse, dedite a modulazioni altrettanto soggettive. Uno dei maestri di questo modus operandi è stato, senza dubbio, l’americano Sidney Lumet, Oscar alla carriera nel 2005 e autore di film indimenticabili quali “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, “Quinto Potere”, “Il Principe della città”, “Il Verdetto”. Dotato della capacità di maneggiare il tempo e il suo scorrere implacabile, come si fa con un oggetto raro, da collezionare nell’alveo privato dei sentimenti, lì dove si cela la coscienza e il suo muto tribunale di giustizia. 

Un effetto quanto mai presente ne “La parola ai giurati”, “12 Angry Men”, il suo primo lungometraggio datato 1957, adattamento del soggetto originale di Reginald Rose, in grado di raccogliere tre Nomination agli Oscar del 1958: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale. Una storia dominata dalla capacità di scegliere e di decidere da parte di un gruppo di uomini chiamati a compiere il proprio dovere di giurati in un tribunale americano. Dodici individui da cui dipende la sorte di un ragazzo accusato di aver ucciso efferatamente il padre violento, piantandogli un coltello a serramanico nel petto. A costoro, dalle professioni e dalle vite più disparate, è affidata la decisione finale, un verdetto di colpevolezza che potrebbe significare una morte atroce sulla sedia elettrica. Rinchiusi in una stanza per deliberare ed emettere il loro responso, diventano di colpo elementi temporali dalle sfaccettature multiple. 

Il loro tempo non è più solo il loro. 

Quando il giurato numero 8, appellandosi al ragionevole dubbio, si dichiara non del tutto convinto di una colpevolezza agli altri parsa da subito evidente, tutto di colpo si ferma e ricomincia. Come se una mano invisibile avesse deciso di modificare dall’interno il normale scorrere delle ore attribuendole una modalità differente, offrendo ai presenti la possibilità di rallentare e di acquisire consapevolezza di quello che si è, e, soprattutto, di quello che si è chiamati a essere. Una singolarità che diventa pluralità, fino a trasformare l’aspetto soggettivo del tempo, fino a renderlo oggettivo, uguale per tutti, vero giudice, non solo della vita dell’imputato ma di ognuno dei presenti. Lo stesso spettatore rimane vittima di questo effetto, con il tempo diacronico del cinema, costituito dalle sequenze frutto del montaggio, che si modifica in sincronico agganciandosi alla realtà di colui che guarda, suggestionandolo e mutuandone la percezione. 

È uno straordinario Henry Fonda la lancetta che trasforma il passare delle ore e dei minuti. È il giurato numero 8, colui che gradualmente, argomentando e analizzando tutte le prove a carico dell’imputato, capovolge il punto di vista degli altri giurati. L’intero processo finisce per essere messo sotto accusa, mentre l’alternarsi dei primi piani e dei totali, con la macchina da presa che ne amplifica il significato cambiando le lenti dei suoi obiettivi, rivela lo stridere dei pensieri oscuri frenati da una verità ormai in marcia. La bellissima fotografia di Boris Kaufman fa il resto, affrescando l’angusto bianco e nero in tratti di luce e di ombre con un effetto quasi claustrofobico; è costante la sensazione di un tumulto interno, di una tensione pronta a esplodere ma sempre frenata, imprigionata nel compiersi della catarsi che porta dritto alla libertà. 

Presa la decisione, fuori dal tribunale, la vita normale riprende, il tempo riparte di nuovo con le sue cadenze classiche, come se nulla fosse successo e nulla fosse cambiato. Resta una sensazione di leggerezza, quella di aver compiuto fino in fondo il proprio e l’altrui destino, quella di aver sedotto la frenesia del vivere per lasciare spazio alla coscienza della propria umanità. 

di Frederick Pascali

Roberto Cremascoli architetto italo-portoghese

Roberto Cremascoli, italiano di nascita e portoghese di adozione, è uno degli architetti contemporanei più noti nell’ambito di importanti allestimenti e riprogettazione di musei e parchi archeologici, in Italia e all’estero. Curatore di esposizioni, autore di contributi e saggi in riviste di settore, allievo del grande architetto portoghese Álvaro Siza, dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano è a Porto che decide di impiantare il suo quartier generale, fondando nel 2001 lo studio “COR arquitectos”, insieme a Edison Okumura e Marta Rodrigues.Qui vince concorsi internazionali e progetta grandi opere che il collettivo realizza in Portogallo, Italia, Svizzera e Francia, anche insieme al maestro Siza. Nel 2016 è stato curatore del Padiglione Portoghese alla XV Mostra Internazionale di Architettura nella Biennale di Venezia e del Padiglione Portoghese alla XXI Triennale di Architettura di Milano. Dal 2020 firma progetti importanti per musei e parchi archeologici italiani, come la ristrutturazione dell’Antiquarium di Pompei e il Museo del Foro, a Roma. Quest’anno è stato nominato curatore del Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Architettura di Venezia, incontrando ufficialmente Papa Francesco e collaborando con Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani. In Puglia, lo scorso anno, ha progettato l’allestimento del Grottone di Palazzo Jatta e della mostra Antichi Popoli di Puglia (Castello Svevo di Bari, dicembre 2022- luglio 2023) che ha ricevuto un grande successo di pubblico con oltre 50.000 visitatori.Ma noi abbiamo scoperto il vero asso nella manica dell’architetto italo-portoghese: a quanto pare sole e sangue di Puglia scorrono nelle sue vene!


Architetto, è vero che la sua famiglia ha origini pugliesi?

«Sì! I miei nonni materni erano baresi, nati a Bari e innamorati della loro città. Anche mia mamma è nata a Bari, ma poi da piccolissima si è trasferita a Milano e lì ha messo radici e poi famiglia. Ho ancora molti parenti in Puglia e ogni volta che ci ritroviamo è molto bello per me». 

Quindi lei frequenta la Puglia da bambino! Qual è il luogo a cui è più legato, dove le piace tornare e perché?

«Il mio posto preferito è la Selva di Fasano, dove avevamo una casa di famiglia e ci passavamo l’estate. Mi piace percorrere quella strada tortuosa che poi discende fino al mare di Monopoli, dove andavamo a fare il bagno da bambini con i cugini e ci fermavamo a mangiare la focaccia tutti insieme. Mi piace molto, però, anche la città di Trani con la sua Cattedrale meravigliosa e bianchissima, affacciata sul mare calmo, azzurro come il suo cielo».

Roberto Cremascoli all’incontro del Papa con 200 artisti internazionali per il 50° anniversario dell’inaugurazione della collezione d’Arte Moderna dei Musei Vaticani. (credit. Santa Sede)

Recentemente ha iniziato a occuparsi anche dei musei pugliesi, a partire dall’allestimento del Grottone di Palazzo Jatta, in cui si è trasferita una parte della collezione Jatta, per oltre un anno, in attesa della fine dei lavori di riallestimento del Museo, appena inaugurato. Cosa pensa di questo Museo e della sua storia? 

«Il Palazzo Jatta è un luogo affascinante, con il suo grande giardino e gli appartamenti storici che ho avuto la fortuna di visitare insieme agli eredi della famiglia Jatta. La casa-museo mi sembrava una sorta di Wunderkammer, dove in ogni armadio c’erano oggetti del passato e tesori da riscoprire. Una specie di cassetto dei ricordi da cui abbiamo tratto ispirazione per l’allestimento del Grottone che vedeva alternati vasi del Museo Jatta con oggetti e “ricordi”, appunto, di famiglia.  Mi è piaciuto anche molto lo spirito di Giovanni Jatta senior, fra i personaggi più antichi, che si trasferisce a Napoli e da lì costruisce un capitolo di storia della sua famiglia».

Ci sarà un suo prossimo lavoro in Puglia?

«Certo, più di uno! Prossimo alla fine è il progetto “Follow me”, un km di percorso urbano a Canosa di Puglia, che collegherà 13 luoghi culturali e siti archeologici – in superficie e sotterranei – con l’obiettivo di accogliere sì turisti e visitatori, ma anche di dotare i residenti di una nuova e inedita qualità urbana.  Stiamo anche progettando il lungomare San Cataldo di Lecce, nei pressi del Molo di Adriano, e il Masterplan del Parco archeologico di Ordona».

Se potesse tornare indietro nel tempo, all’epoca degli Antichi Popoli di Puglia e dei Greci di Sparta che fondarono Taranto, in quale delle culture che lei ha contribuito a esporre così bene nella mostra al Castello di Bari, deciderebbe di vivere e di impiantare il suo studio di architettura? 

«Sono molto innamorato di quei bellissimi vasi dipinti di rosa e azzurrino, con tante figurine a rilievo, tipici del nord della Puglia. Andrei a Canosa, quindi, fra i dauni di età ellenistica a progettare ipogei e piazze per la vita di tutti i giorni e quella eterna». 

Il tempo non si può fermare, ma si può rallentare e la lentezza è il tema principale di questo numero. Se potesse avere più tempo, lei che vive fra molte città ed è sempre in viaggio, cosa ne farebbe?

«Grazie per questa domanda, che mi fa riflettere. Cercherei ogni tanto di fermarmi e godermi il tempo di pensare. La conquista del tempo lento è davvero “il” privilegio dell’uomo contemporaneo».

intervista a cura di Daniela Ventrelli

Il Salento WINE TRAIN tra vigneti e cantine

Dici “treno” e dici “slow”, dici “vino” e dici “Salento”. E se combini questi quattro termini apparentemente slegati tra di loro, come in un piatto dagli ingredienti sorprendenti per diversità, puoi ottenere un risultato altrettanto inatteso: Salento Wine Train, l’uovo di colombo. Il convoglio antico e lento che ti porta a spasso tra vigneti e cantine del Tacco d’Italia, nei territori del Negroamaro e del Primitivo. Una vera rivoluzione dell’enoturismo che potrebbe entrare in funzione presto nel Salento: l’intenzione, dopo il doppio viaggio test di metà novembre, è di dargli stabilità di iniziativa regolare. Già nel 2024. Inizialmente nei mesi primaverili e autunnali, perché il treno storico messo a disposizione da Fondazione Ferrovie dello Stato per dare sostanza all’iniziativa non ha impianti di condizionamento in grado di consentire agli enoturisti di affrontare con sufficiente comfort. E proprio la primavera del 2024 – previa presentazione al Vinitaly di Verona – potrebbe rappresentare il momento di entrata in funzione del servizio, ancora tutto da riempire di contenuti: i due viaggi inaugurali dell’11 e del 12 novembre scorso sono stati solo un test dimostrativo del potenziale del progetto lanciato da Andrea Caroppo. Parlamentare salentino di Forza Italia che un giorno, a passeggio su analogo treno della Napa Valley, in California – territorio in cui si fa un vino che tra l’altro deriva dal Primitivo pugliese, lo Zinfandel – ha avuto l’idea: ma perché qui sì e da noi no? Ma occorreva qualcuno con lo sguardo “lungo”, anche un po’ visionario, per mettere insieme gli ingredienti di cui sopra: la vocazione vitivinicola del Salento, l’attitudine “lenta” di una terra ancora in parte preservata dal logorio della vita moderna, una rete ferroviaria locale capillare come poche altre al mondo, forse. Il che, in prospettiva, potrebbe addirittura estendere le possibilità di promozione enoturistica del territorio. Non solo la linea jonica superiore, diciamo così – da Lecce a Manduria, passando da Novoli, Campi salentina, Salice salentino, Guagnano, San Pancrazio salentino, Erchie. Solo uno dei percorsi possibili effettuabili anche parzialmente, appunto, una volta che il Salento Wine Train andrà appunto a regime. Perché si potrebbe raddoppiare la sua carica di fascino retrò sulla linea jonica sud, dove pure insistono comuni vitivinicoli più che degni di nota: Copertino, Leverano, Nardò, Gallipoli, Alezio, giusto per citarne qualcuno. E chissà che il Wine Train del Salento non accenda anche l’immaginario di altre zone vitivinicole della Puglia, che com’è noto è tutta un vigneto.  

Il giorno del primo viaggio un centinaio di persone tra autorità e giornalisti, e tanta altra gente in attesa sui binari delle stazioni di passaggio e sosta: sindaci dei territori interessati, Gal, produttori, operatori turistici, tutta la filiera che potrebbe beneficiare del passaggio di un simile convoglio. Su cui stanno già ragionando fin dalla prima ora – ovvero dal lancio dell’idea da parte del deputato Caroppo – le tre Camere di commercio di Lecce, Brindisi e Taranto, il Distretto Agroalimentare di Qualità Jonico-Salentino (Dajs), le Ferrovie del Sud-Est, la Fondazione Ferrovie dello Stato – che mette a disposizione di queste iniziative i treni storici: quello impiegato per il test è del 1936 – e poi le banche che hanno deciso di sostenere l’iniziativa. Anche il secondo test, quello di domenica 12 novembre si è rivelato un indicatore entusiasmante: sold out già nei primi giorni, e la mattina della partenza 200 persone, sul binario dedicato del Museo ferroviario di Lecce, pronti a mettersi in viaggio per approfondire la conoscenza di cantine e vini del Grande Salento. Prenotazioni da tutta la Puglia: dai tre territori interessati dal passaggio del Salento Wine Train, ma pure dal Barese. E poi quattro americani che si sono uniti allo sciamare festoso dei pugliesi nelle prime cantine individuate, scelte tra l’altro concordemente dai produttori – “e la collaborazione che si è creata tra di loro è una delle cose più belle di questo progetto”, spiega Caroppo. Perché l’enoturista non conosce latitudini: può venire dal Foggiano o dalla Basilicata, ma pure dall’Australia o dalla Francia, o può avere gli occhi a mandorla. E si tratta quasi sempre di viaggiatori appassionati, di cultura medio-alta e di buone capacità di spesa, che non mancano poi di ripetere le degustazioni sperimentate in loco acquistando sul momento o più frequentemente via e-commerce. E che amano viaggiare senza stress, senza fretta, gustando non solo le proposte enogastronomiche dei luoghi visitati, ma anche i momenti irripetibili che certi tipi di viaggio possono offrire. Quel molle relax che solo il treno, di questi tempi, può dare.

di Leda Cesari