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venerdì, Settembre 20, 2024
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Pietro Zito, il cuoco contadino

Raggiungere Borgo Montegrosso è già un viaggio verso le tradizioni. Un borgo che fa parte del territorio di Andria, da cui dista circa 18 km, inserito nel 2021 tra i Borghi della Salute. Lo raggiungo per intervistare uno dei fautori della valorizzazione di questa borgata, punto di attrazione per viaggiatori e lavoratori, un’icona di questo luogo: Pietro Zito. Quando mi incontra, mi offre delle mandorle tostate e salate – ed ecco che già mi ha conquistato – mi spiega che era impegnato in una chiamata con il suo ristorante di Tokyo a cui stava trasmettendo il nuovo menù. Basta guardarlo negli occhi per comprendere che si ha davanti una personalità forte, che provoca soggezione, pur non volendo, nonostante la sua semplicità ed il suo modo di fare accomodante.


 Quando nasce il ristorante Antichi Sapori?

«Il ristorante quest’anno compie 30 anni, siamo chiocciola Slow Food dal 1994, tra i più vecchi chiocciolati d’Italia. Per noi la chiocciola non è mai stata un traguardo, ma un punto di arrivo per cercare di garantire la qualità, non solo del cibo, ma anche qualità etica, per il personale, per i fornitori, per i clienti. Io lavoravo come direttore nel ristorante Ostello di Federico uno dei migliori qui in zona, ma non rispecchiava ciò che volevo. Volevo l’osteria, andavo a mangiare quando ero giovanissimo da Cucina Casalinga a Minervino Murge e mi piaceva molto quel concetto di cibo semplice, sano, l’armonia del luogo: gli altri ristoranti erano tutta formalità, ed in quella formalità io non mi ritrovavo. Allora a fine ‘92 iniziarono i lavori qui, decisi di fare un’osteria a conduzione familiare, con poche pretese, che mi avrebbe fatto riprendere la mia vita, la mia passione per la campagna».

Come mai hai scelto di aprire a Montegrosso?

«Io sono nato qui, al civico 1, questo è il 6. Lì accanto vivevano i miei genitori, ed in questi pochi metri quadri, 65, abbiamo creato una cucina e 25 posti a sedere, una cucina realizzata con cose di recupero. Avevo investito tutti i miei risparmi, avevo chiesto 10 milioni di vecchie lire ai miei amici perché la banca non me li dava, non avevo niente, li investii tutti. Con quei pochi soldi aprii l’osteria, in controtendenza con ciò che succedeva in quel momento, e tutti mi dicevano: “Tu sei un pazzo, apri a Montegrosso per far mangiare i legumi, il pan cotto, pasta e cicorie, purè di fave con la cicorietta!”, quando Andria viveva il culmine del boom economico delle aziende di intimo, tutti con macchinoni, champagne a fiumi, caviale».

Eri già cuoco? 

«Avevo fatto esperienza in cucina, prima a Parco degli Svevi, dall’86 all’89, e poi 4 anni all’Ostello di Federico, ma il mio concetto era diverso, in quel periodo nei ristoranti si mangiavano le farfalle con panna e vodka».

Così cominciasti a coltivare il tuo orto?

«La mia cucina rientrava in un concetto di cucina semplice, quotidiana: era come mangiare a casa. Se mangi a casa è improponibile prendere la macchina e andare ad Andria per prendere il prezzemolo o il pomodorino al filo. Qui tutti avevano un vaso, l’orto, c’era la necessità di avere una base qui, per sopperire non a una moda ma a una necessità, quindi l’orto era una base per avere pochi prodotti: la cipolla, l’aglio, la fava». 

Quindi il tuo ristorante possiamo dire che nasce già con il concetto di cucina a Km 0?

«Sì, a km 0 sin dal 1992».

Quando hai cominciato a capire che la tua idea stava funzionando?

«Volevo riprendermi la mia vita, non volevo fare business, volevo solo una base economica per sopravvivere per poi dedicarmi alla campagna, alle cose che mi piaceva fare. Dal primo giorno invece il ristorante esplose, una cosa che non mi spiegavo».

Da dove venivano i primi clienti?

«C’è stato un flusso importante di rappresentanti, che si trovavano per lavoro in questa zona, stavano sempre fuori casa e non volevano mangiare pasta con la panna o cose troppo elaborate, volevano invece cose semplici, pane, olio e pomodoro, come fossero a casa».

Ma come facevano a sapere di te, per giunta a Montegrosso?

«Grazie al passaparola. C’era un rappresentante che veniva da Lucera e diceva sempre che non vedeva l’ora di venire qui per mangiare pane e pomodoro e costatine di agnello. Stava qui, i telefoni non c’erano per fortuna e lui si rilassava, si sentiva a casa»

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A proposito di km 0, il tuo concetto è anche il rispetto dei tempi della natura, della biodiversità.

«Negli anni 2000 l’orto è diventato più bello, adesso è di 4 ettari. Lo stesso anno partecipai a Qoco (Concorso Internazionale tra Cuochi), dovevo presentare un piatto. La commissione di valutazione – c’era Iaccarino, Laura Ruggieri – arriva alle 9 di sera, io ero arrabbiato, avevo il ristorante pieno. Si scusarono e mi chiesero di fare il piatto da candidare. Giusto per non mandarli a quel paese feci il Pan cotto con le cime di rapa». Mi chiamano dopo tre giorni e mi dicono: “Pietro hai vinto il concorso!”. Poi venne ad intervistarmi Laura Ruggieri e andammo in campagna con mio padre che raccoglieva le verdure mentre camminavamo. Allora lei mi chiese: “Ma che sta facendo tuo padre?”. Risposi che stava raccogliendo le verdure per il pranzo. Mi fece notare che quello che facevo per necessità all’orto poteva essere il futuro. L’orto poi è cresciuto, noi abbiamo anticipato i tempi. E sempre lei ci fece notare che dovevamo cominciare a comunicare. Noi provenivamo da una civiltà contadina: ci si vergognava della povertà!»

Quando sono cominciati i primi viaggi all’estero?

«Ho aperto il primo congresso internazionale di cucina di Identità Golose a Milano, ho scritto la carta di Milano Expo per la ristorazione, ho seguito l’apertura di Eataly a NewYork. All’estero hanno bisogno di raccontare l’autenticità dell’Italia, non puoi portare all’estero una cucina internazionale, la fanno già loro. Allora andavo a Hong Kong a fare le orecchiette. D’estate noi lavoriamo al 90% con l’estero. Quando li porto nell’orto, e raccolgo la rucola, impazziscono, poi la mangiano nell’insalata». 

Ti chiamano il cuoco contadino, hai scelto tu questo appellativo?

«Me lo ha dato Paolo Marchi di Identità Golose quando doveva identificarmi in un panorama di cuochi veri».

Se dovessi lanciare un messaggio ai giovani, cosa gli diresti?

«Fate diventare questo lavoro un piacere, non deve essere un’alternativa al non trovare lavoro. Bisogna dare delle regole, ma ci deve essere il piacere di farlo. Non scendere a compromessi e avere un’identità forte».

di Angela Ciciriello

La bellezza dell’attesa profumata di Natale

Il ritmo lento, quello del tempo, è quello che preferisco, ed è il ritmo che genera la lentezza. Non quella intesa come fiacca, poltroneria, flemma, lungaggine, ma la lentezza della calma, della pazienza e della dolcezza. Quel ritmo necessario perché avvengano le trasformazioni e poter poi godere del risultato. Il pensiero che in questa attesa stia succedendo qualcosa di meraviglioso, è esaltante. Ci sono processi di trasformazione lenti, a volte lentissimi, unica strada per arrivare a un risultato, come ad esempio il vino che con l’invecchiamento in botti o bottiglie evolve fino a regalarci sfumature aromatiche e gustative fantastiche; o ancora, il vino che con i batteri acetici lentamente si trasforma in aceto. La farina, che con i lieviti diventa pane e l’acqua del mare che il tempo e il sole trasformano in cristalli bianchi di sale. Tutte queste trasformazioni hanno in comune il ritmo lento del tempo. 

C’è un momento in cui il tempo sembra rallentare ulteriormente. Ecco, è qui che si crea la magia dell’attesa, ed è il momento che preferisco per qualsiasi evento. Condivido pienamente le parole usate dal filosofo e scrittore tedesco Gotthold Ephraim Lessing che così scrive: “l’attesa del piacere è essa stessa piacere”. L’attesa più lunga, quindi un piacere più lungo, che cresce di mese in mese è quella per il Natale. Mettiamo per un secondo da parte le religioni e osserviamo i momenti che fanno parte della tradizione. Bisogna custodire e tramandare questi tesori. Bisogna “educare” alla bellezza dell’attesa. Profumi che fanno parte dell’anima perché con essi si è formata, aria fatta di agrumi scaldati nell’olio con le spezie dolci come la vaniglia e piccanti come i chiodi di garofano e poi cannella, pepe, liquore che profuma di anice. Mai è stato così profumato l’odore del fritto. 

Una nota stonata in questo tripudio di felicità esiste, ma solo per i bambini: l’odore dello stoccafisso ammollato nell’acqua, per giorni e giorni in preparazione del piatto principe della vigilia di Natale. Con il suo sugo vengono accompagnati diversi formati di pasta. Uno è molto particolare nella sua realizzazione: sono i vermiceddhi, piccoli pezzetti di pasta fresca di sola farina di semola e acqua, fatti rullare tra pollice e indice, dalla grandezza e forma irregolare, paragonabile al grano di pepe, ma allungato. Ne servono tanti per fare un piatto e per questo motivo la loro preparazione impegna tutta la famiglia, riunita dal pomeriggio fino a sera, a produrre questi grani preziosissimi. Favole, ricordi e confidenze rallegrano il lavoro lento e paziente. 

Ogni momento del mese di dicembre è scandito da un ritmo che ha il suo profumo: si comincia l’8 dicembre con le pittule, la settimana successiva si preparano i porceddhuzzi, le carteddhate e il tronchetto di natale di pasta di mandorle con goloso ripieno al cioccolato e crema faldacchiera. Una vista meravigliosa e un profumo che ci accompagnano per tutto il mese. Ritmo lento… Quando potrò sentire il rincorrersi dei sapori, il dolce, la vaniglia, la cannella, l’agrumato, il miele che avvolge tutto e rilascia lentamente i sapori? …adesso, alla vigilia di Natale.

Mai attesa fu così dolce.

Il menu tradizionale di Natale vede sul podio i dolci porceddhuzzi , carteddhate, poi pittule,  vermiceddhi con il sugo di baccalà o stoccafisso, focacce, olive, cicorie, finocchi, formaggi freschi e stagionati, pesce o carne che ogni famiglia cuoce con la sua ricetta tradizionale.

Il cibo più buono arriva dalla tradizione contadina, come testimoniano molti alimenti che dalla povertà sono arrivati ad essere considerati eccellenze. Così, i porceddhuzzi sono nati dall’ingegno di una mamma che con i soli prodotti che aveva in dispensa si inventò un dolce di Natale per i suoi bambini: farina, arance, spezie, vino hanno prodotto un impasto che suddiviso a tocchetti e poi fritto ha dato vita ai porceddhuzzi. Con il passare del tempo la ricetta si è arricchita di miele e altri ingredienti che caratterizzano la ricetta di ogni famiglia. Con lo stesso impasto si formano le carteddhate, strisce di pasta arrotolate che ricordano l’aureola del Bambin Gesù, fritte e inondate di miele o vincotto. Il tutto rallegrato con zuccherini colorati chiamati anisetti. Questo piatto è talmente radicato nel territorio che il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali lo ha inserito nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali e nell’Atlante dei prodotti tipici alimentari pugliesi.

Accompagniamo queste delizie con un vino Salento IGT passito della cantina di Severino Garofalo: Briciole, un blend al 50% di chardonnay e malvasia bianca, il colore richiama quello del miele e dei porceddhuzzi dorati. Le uve raccolte a mano e surmature, subiscono un ulteriore appassimento su graticci, segue una soffice pigiatura e una fermentazione controllata in serbatoi di acciaio inox.       Il risultato è un vino piacevolmente vellutato, morbido con una elegante freschezza, note di spezie, miele e fiori bianchi ci accolgono al naso. Temperatura di servizio 11-12 gradi. 

Un pensiero personale. Il momento in cui viviamo ha un tempo scandito da un ritmo veloce, troppo veloce; siamo abituati a correre in maniera frenetica inseguendo i nostri obiettivi e con il nostro ritmo suoniamo un assolo, ignorando l’esistenza dei tanti ritmi che ci accompagnano formando la sinfonia della vita. Non li sentiamo, temendo che tutto sia un intralcio, rimaniamo senza respiro pur di non fermarci un attimo e non godiamo di questa meravigliosa orchestra che ci accompagna nel quotidiano. Per fortuna qualcosa sta cambiando, stiamo capendo che un ritmo lento ci porta ugualmente al nostro obiettivo godendo di tutti e di tutto. Forse, così, riusciremo ad avere il tempo per guardare oltre, accorgendoci che più in là qualcuno ha perso il suo, di ritmo, perché la sinfonia di “quell’orchestra” genera suoni sinistri… echi di combattimenti, che non vorremmo mai si ripetessero… invece, succede ancora.

di Maria Rita Pio

Semi di vita – Una cooperativa che è anche tanto altro

Una cooperativa sociale che è anche orto sociale e azienda agricola che a sua volta è strumento per alleggerire gli svantaggi di soggetti più deboli e trasformarli in occasione di inserimento, lavoro, innovazione.

La cooperativa “Semi di vita” che Angelo Santoro con altri 6 soci ha fortemente voluto, creato (quasi dal nulla) e porta avanti con idee sempre più ambiziose è un po’ tutto questo e qualcosa in più perché strizza l’occhio al futuro rimanendo abbarbicata al territorio in cui si trova e sta crescendo!

«Tutto è cominciato nel 2011 a Casamassima (Ba) su un terreno di 2mila metri quadri – racconta Angelo Santoro – con un progetto di agricoltura sociale rivolto all’impiego di soggetti disabili». Molte difficoltà ma sempre avanti con la convinzione che l’agricoltura possa essere strumento di rinascita fino a quando, nel 2017, nasce un progetto di inserimento di giovani lavoratori con esperienze penali alle spalle; su un’area di 400 metri quadri all’interno della Casa di rieducazione “Fornelli “ di Bari, la cooperativa di Angelo rimette a nuovo una serra che ospiti  la coltivazione di funghi cardoncelli e un essiccatore di prodotti alimentari. Naturalmente ad occuparsene, sotto lo sguardo vigile della cooperativa, sono 2 ragazzi rispettivamente di 21 e 23 anni del Fornelli e la produzione è destinata alla vendita al pubblico nel negozio di Valenzano (Ba) dove tra l’altro lavorano 3 ragazzi che svolgono servizio civile.

E arriviamo al 2019, anno in cui l’azienda agricola, certificata bio, vince il bando del Comune di Valenzano per l’assegnazione della gestione di terreni confiscati alla mafia. «Erano 26 ettari nudi: sulla carta riportavano l’esistenza di 10mila alberi di ulivo – puntualizza Santoro che della cooperativa è anche il portavoce e il curatore della comunicazione – rivelatisi poi in realtà 600, 200 salvati e tuttora esistenti».

Oggi, grazie ad un investimento di 580mila euro rivenienti da fondi della cooperativa e privati, il terreno comprende 9 ettari di frutteto con melograni, albicocchi, noccioli e mandorli, 7 ettari di seminativo, 3mila metri quadri di orto e un allevamento a terra di 500 galline ovaiole.

E se da un lato la terra produce seguendo i ritmi e le stagioni, dall’ altro gli uomini, ovvero i soci della cooperativa, provvedono a lavorare, trasformare e vendere i prodotti; così le uova diventano anche paste artigianali, i frutti marmellate, gelatine, dolci vari e il pomodoro dà vita al “pomovero” cioè la salsa. E così i prodotti arrivano ai consumatori più vicini, cioè del territorio e piano piano a quelli più lontani grazie anche ad un paziente lavoro dimostrativo, alla partecipazione a eventi, mostre, fiere…

 «Tutto con etichette parlanti che raccontano la storia di ogni singolo prodotto – dice orgoglioso Santoro – e con prezzi che sono in linea col bio e a volte anche un po’ inferiori».

Ma, c’è sempre un ma, ora la storia si complica perché all’obiettivo di rendere appetibile la cooperativa per i soci si affiancano altri chiamiamoli desideri come  realizzare una masseria didattica e un bosco, poi una struttura di ristorazione (in verità il posto ci sarebbe già, una masseria posta al centro dei terreni avuti in gestione ma che è ancora dei proprietari) dove per esempio si potrebbe portare avanti un’idea di presidio della cipolla di Acquaviva  per il recupero del calzone agrodolce di Valenzano…    

E ancora, si parla in questi giorni con il comune di Valenzano della presa in gestione di un garage confiscato alla mafia e di 1 ettaro di terreno su cui la cooperativa farà nascere entro 1 anno 40 orti da dare in gestione ai privati.

«Perché trasformare un bene confiscato alla mafia in bene dedicato alla comunità – ci dice Santoro salutandoci – significa lenire quelle ferite che la mafia ha procurato al territorio» ma il suo sguardo è già oltre, sta pensando ad altre mete da raggiungere e ad altri obiettivi… sociali.

di Caterina Cappelluti Altomare

Il tempo mitico, i riti arbrëshë della primavera nel progetto “MOTI I MADH – IL TEMPO GRANDE”

VALORIZZAZIONE DELLA MINORANZA ITALO-ALBANESE IN UNA PROPOSTA DELLA FONDAZIONE UNIVERSITARIA F. SOLANO SOSTENUTA DA CINQUE ATENEI  E CANDIDATA A DIVENTARE  PATRIMONIO UNIVERSALE  UNESCO


Il mito di Skanderbeg, della resistenza del popolo albanese all’invasione turca protrattasi per 25 anni fino alla morte dell’eroe nazionale albanese avvenuta nel 1468 e della perpetrazione del “Moti i madh” del“Tempo grande”, sono radicate nel patrimonio immateriale detenuto dagli arbëreshë. La storia che si sovrappone al mito è la pietra angolare della comunità italo-albanese, isola alloglotta che conta 50 comuni disseminati in sette regioni italiane (Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Campania). Il “Tempo mitico” degli albanesi della diaspora ci riporta alla lingua e alla ricca letteratura orale, ai riti della primavera, alle Vallè di Pasqua, ai canti tradizionali e agli inni paraliturgici arbërisht delle Kalimere, alla “festa” dei morti nella tradizione religiosa orientale, Java e prigatorëvet, ai suggestivi cerimoniali del rito nuziale, alle manifestazioni coreutiche, ai prodotti tipici dell’artigianato artistico, ai sontuosi costumi femminili arbëreshë, ma anche ai prodotti della tessitura nonché quelli dei cibi rituali e tradizionali. Espressioni culturali e classiche tipiche del “Tempo mitico” che ancora oggi, dopo quasi sei secoli, scandiscono la quotidianità e che rientrano in un’importante proposta di candidatura della cultura immateriale arbëreshe quale patrimonio universale dell’ Unesco. 

San Demetrio Corone – Panaghia

Coordinato dalla Fondazione universitaria “Francesco Solano”, diretta dal professore Francesco Altimari, che opera all’Università della Calabria, un nutrito gruppo di lavoro costituito da illustri studiosi e da numerosi detentori e praticanti, si è dunque reso protagonista della proposta di candidatura della cultura immateriale degli albanesi d’Italia a patrimonio dell’Unesco.
Si tratta di un lungo lavoro di ricognizione sul campo per individuare questa rete di tradizioni rituali che è stato realizzato grazie alla collaborazione attiva di numerosi detentori e interpreti dei rituali, espressione di sodalizi, gruppi e persone di varia estrazione sociale e culturale che lavorano affinchè venga finalmente riconosciuta la peculiarità di questo ricco patrimonio che rappresenta il vero bene comune dell’Arbëria, sinora sostanzialmente ignorato dalle istituzioni e salvaguardato solo grazie all’impegno diretto dei gruppi di praticanti e alla tenacia delle comunità interessate.

«Il progetto Moti i Madh Tempo Grande – sostengono i promotori della proposta – punta a iscrivere nel registro delle buone pratiche della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco del 2003 che contempla un insieme di pratiche cerimoniali, musicali, coreutiche e teatrali a cui si accompagnano saperi di stampo tradizionale che rientrano nell’originario ciclo delle feste della primavera e propongono nelle diverse comunità italo-albanesi eventi che attualizzano temi e motivi arcaici di straordinaria suggestione».

Queste pratiche sono vive presso gli arbëreshë, comunità linguistica minoritaria di origine albanese, riconosciuta dalla legge quadro nazionale n. 482/1999 “Norme di in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche”.

San Demetrio Corone – Banchetto al cimitero

La proposta, avviata e sostenuta dall’azione di ricerca e sensibilizzazione promossa dalle cattedre universitarie di Albanologia dell’Università della Calabria, guidata da Francesco Altimari e di Palermo, presieduta da Matteo Mandalà, è stata perfezionata e resa funzionale grazie al concorso di un’equipe interdisciplinare, coordinata dalla Fondazione Solano e formata da studiosi di Albanologia, di Antropologia, di Etnomusicologia e di Storia delle culture afferenti alle Università della Calabria, di Palermo, del Salento, di Venezia e Milano “Statale”, oltre che da esperti giuristi e informatici: si tratta di  Nicola Scaldaferri, Monica Genesin, Eugenio Imbriani, Giuseppina Turano, Giovanni Macrì e Battista Sposato. Il progetto può contare anche sull’apporto nel comitato scientifico di altri insigni specialisti, italiani e albanesi, che confermano l’alto valore scientifico che tali peculiarità ricoprono per la ricostruzione dell’antica base culturale comune europea.

La proposta “Moti i madh”, già sostenuta dell’ex sottosegretario italiano ai Beni culturali, Anna Laura Orrico, è caldeggiata anche dal Governo della Repubblica d’Albania attraverso il ministero della Cultura albanese presieduto da Elva Margariti, dal vice-ministro Meri Kumbe, nonché dal Fondo per l’Ambiente Italiano. 

Nel corso del recente “Summit della Diaspora – Dita Arbëreshe”, nella giornata dedicata agli arbëreshë, tenutesi a Tirana lo scorso 22  novembre, anche il presidente della Repubblica d’Albania, Bajram Begaj, dopo aver definito gli italo-albanesi quali «testimoni di una storia di successo e di un tesoro inestimabile» e annunciato, assieme al primo Ministro Edi Rama, la nascita di «un canale radiotelevisivo della rete nazionale dedicato all’Arbëria nonché la creazione della Casa degli arbëreshë nel centro storico di Kruja», ha anche voluto confermare il pieno sostegno dell’Albania al progetto “Moti i madh,  i riti arbëreshë della primavera”.

1“Vallet e Pashket”, sono le manifestazioni del martedì di Pasqua che rievocano l’epopea di Skanderbeg e che si svolgono nelle comunità italo-albanesi cosentine del Pollino di Civita e Frascineto.
2A San Demetrio Corone sempre nel Cosentino, in particolare, “la festa dei morti”, ricorrenza mobile del calendario liturgico bizantino, si celebra quindici giorni prima dell’inizio della Quaresima con la processione al cimitero, il successivo banchetto presso le tombe dei defunti e l’elevazione della Panaghia con la benedizione del grano bollito nelle case.
3“Skanderbeku Prindi i Arbërisë”, è la manifestazione coreutica organizzata dalla Proloco Arbëria di Lungro che si volge per le vie del centro italo-albanese del Cosentino, sede della I^ Eparchia bizantino-greca d’Italia. Giunto alla sua V^ edizione, l’evento tra canti, balli e scene di battaglie simulate tra guerrieri albanesi e soldati turchi, celebra l’epopea di Skanderbeg e della resistenza dell’esercito albanese all’invasione ottomana.

di Nicola Bavasso


Nicola Bavasso, di Lungro (CS), è funzionario pubblico e giornalista professionista specializzato in comunicazione in contesti minoritari plurilingui. Dal 2013 collabora col quotidiano Gazzetta del Sud. Da cronista, dal 1999, segue con particolare interesse le vicende delle minoranze linguistiche calabresi. Nell’ambito televisivo, dal 2001 al 2002, è stato responsabile del programma bilingue “Arbëria jetra Itali – Arbëria l’altra Italia”, trasmesso dall’emittente regionale VL7 Cinquestelle di Lamezia Terme. Per conto dell’Università della Calabria, cattedrale di Lingua e letteratura albanese, ha diretto il format televisivo ArbëriaTVoccitana, irradiato da Teleuropa Network di Rende dal 2008 al 2014 e da Telelibera Cassano nel 2015. Per l’Università della Calabria ha tenuto una serie di seminari sulle tecniche della comunicazione plurilingue e sull’uso delle lingue di minoranza in ambito amministrativo. Oltre ai numerosi scritti pubblicati sul quotidiano Gazzetta del Sud, in riviste e giornali nazionali, ha ideato e curato la prima rubrica bilingue “Rrethi” (La Provincia Cosentina 2004-2006). Tra le pubblicazioni di carattere scientifico ricordiamo “Mbi dy vepra të De Radës”, Shtëpia botuese Faik Konica, Prishtinë (2009); “Vincenzo Stratigò – Vepra Opere” (a cura di N. Bavasso e G. Belluscio), Dipartimento di Linguistica – Università della Calabria” (2011), “Vincenzo Stratigò”, “Enzo Domestico (Kabregu)” e “Matilde Mantile” pubblicati nel Dizionario biografico della Calabria contemporanea, I.C.S.A.I.C, (2020 e 2021) e  “Le minoranze tagliate della Calabria: gli arbëreshë. Perche è fallita la L.482/99”, Fondazione Universitaria F. Solano, Rende (2021).

 

 

 

Il tempo della giustizia – Intervista al Procuratore Generale della Repubblica della Corte di Appello di Lecce

Antonio Maruccia

Antonio Maruccia,  Procuratore Generale della Repubblica della Corte di Appello di Lecce. Già Commissario Straordinario del Governo per i beni confiscati alle organizzazioni criminali. Componente del Comitato di esperti della UIF (unità di informazione finanziaria), organismo nazionale che si occupa di lotta al riciclaggio e finanziamento illecito delle attività terroristiche.


 

Ci sono 3 gradi di giudizio in Italia. E servono in media 514 giorni per concludere il primo grado, quasi mille (993) per il secondo e 1442 per il terzo. In totale quindi poco meno di tremila giorni (2949) corrispondenti quasi a 8 anni.  Come mai? La Puglia conferma questa media?

I tre gradi di giudizio riflettono la tradizione di garanzia propria della nostra civiltà giuridica e rappresentano il tentativo di far coincidere la verità emergente dal processo con la verità storica. La lunghezza del processo è una caratteristica antica dell’esperienza italiana e rimanda alla scarsità e alla inadeguatezza dei mezzi e delle risorse poste a disposizione della giurisdizione del potere esecutivo che, ai sensi della Costituzione, deve assicurare i servizi necessari. La Puglia e il distretto della Corte di Appello di Lecce, rispettano il medesimo trend, benché la magistratura sia impegnata ad affrontare una criminalità organizzata diffusa e pericolosa. Un impegno che ha portato, negli ultimi anni, a ristabilire condizioni accettabili e apprezzabili di convivenza sul piano della sicurezza pubblica e della qualità di vita dei cittadini pugliesi e salentini in particolare.

La media dei Paesi membri del Consiglio d’Europa è invece di 233 giorni in primo grado, 244 in secondo grado e 238 in terzo. In totale poco più di due anni. Perché questa differenza?

La magistratura italiana ha richiesto di poter operare per garantire la ragionevole durata del processo ed ha assicurato livelli di produttività per ciascun magistrato di molto superiori a quelli propri dei colleghi degli altri Paesi europei. Ciò non di meno, i tempi della giustizia italiana sono decisamente più lenti – appunto mediamente 8 anni per i tre gradi di giudizio contro i 2 anni necessari per la definizione dei processi negli altri Paesi europei – anche per la farraginosità delle procedure ma, soprattutto, per la scarsità delle dotazioni materiali, informatiche e di personale.

In Italia si aprono più processi civili di quanti se ne aprano in Francia, Spagna e Gran Bretagna messe insieme (Davigo). Perché?

Le ragioni rinviano a causa di natura strutturale e ai diversi modelli di relazione tra i cittadini e tra i cittadini e lo Stato. Da questo punto di vista la capacità di risposta alla domanda di diritti dei cittadini da parte della pubblica amministrazione è sicuramente diversa in Italia rispetto agli altri Paesi e questo può rappresentare, tra le tante, una spiegazione del maggiore ricorso alla giurisdizione, civile in particolare. Va anche sottolineato che nel nostro Paese il numero degli avvocati non ha confronto con quello degli altri Stati europei. Nella sola Provincia di Lecce sono iscritti all’ordine degli avvocati mi pare oltre 4200 professionisti.

Stiamo dedicando questo numero della nostra rivista In Puglia Tutto l’Anno all’elogio del TEMPO e al suo valore. Proviamo a sdrammatizzare: più tempo passa e meno si ha voglia di rivalsa. La lentezza della giustizia in Italia potrebbe disincentivare la tendenza a fare cause e quindi a ridurre il numero delle stesse?

Occorre dire che la tendenza della legislazione va nel senso di limitare il ricorso alla giustizia civile, attraverso procedure conciliative precontenziose. Così è per l’esperimento  del tentativo di conciliazione, divenuto obbligatorio prima di intentare la causa civile. Vi sono, poi, tutta una serie di procedure a tutela dei consumatori che possono essere esperite per la tutela dei propri diritti: penso all’arbitro finanziario, all’arbitro bancario e, prossimamente, a quello assicurativo. In altre parole, bisogna incidere sulla domanda di accesso alla giustizia civile trovando, soprattutto per le cause seriali, soluzioni di garanzia dei diritti al di fuori e prima del processo vero e proprio.  La rinuncia a fare la causa per la sfiducia nei tempi di definizione del processo rappresenta indubbiamente una sconfitta per tutti.

Tre anni di pandemia hanno peggiorato la situazione? Ci sono ipotesi di soluzione? Quali possibilità con la riforma Cartabia?

La pandemia ha messo a dura prova il funzionamento del sistema giustizia ma la risposta è stata davvero straordinaria grazie alla collaborazione dell’avvocatura e dei dipendenti amministrativi con i magistrati. Lo sviluppo delle modalità informatiche nello svolgimento delle attività giudiziarie, verificatosi durante il periodo del covid costituisce un patrimonio che il legislatore ha poi utilizzato in prosieguo, anche nella riforma Cartabia, per accelerare le procedure e ridurre tempi e costi della giustizia.

Il PNRR permetterà di affrontare il problema?

Il PNRR ha posto al sistema giustizia obiettivi di particolare impegno sia nel settore civile che nel settore penale richiedendo la riduzione dell’arretrato e la velocizzazione dei tempi di celebrazione dei processi. I risultati che si sono conseguiti in questo periodo sono soddisfacenti e permettono di guardare con fiducia al futuro. Nel distretto della Corte d’Appello di Lecce e, in particolare nella città capoluogo, i dati comunicati dagli uffici sono in media, in qualche caso migliori, rispetto a quelli nazionali e ciò grazie ad un sapiente utilizzo dei “funzionari per l’ufficio del processo”, che sono stati assunti proprio in vista del raggiungimento degli obiettivi posti dal PNRR.

La cittadella della Giustizia nel Salento. È un suo obiettivo. Farà in TEMPO?

La Città della giustizia è un obiettivo di tutta la comunità giudiziaria per assicurare ai cittadini e agli addetti un ambiente di lavoro adeguato con edifici moderni, green e funzionali allo scopo di garantire i diritti. Tuttavia, i tempi di realizzazione dell’opera non sembrano brevi. Nonostante l’impegno.

Intervista di Lucio Catamo


NB Le immagini sono state realizzate da Mario Blasi con il “riempimento generativo” della grafica AI,  interrogando il sistema con topic come “giustizia” e “lentezza”.

La Giostra – di Stefano Giacomini

Il “Tempo”, ormai è indubbio, si sta rivelando come la più grande ricchezza umana.

Non esistono ricchezze materiali superiori se poi non hai il tempo per godertele, se non hai l’opportunità di fermarti e guardarle. E l’abbraccio di un genitore, l’entusiasmo di un figlio, il sorriso di un bambino? Si certo, bisognerebbe fermare il tempo per goderne all’infinito! Amare e farsi amare, per sempre.

E la salute? Senza salute, si dice, finisce tutto! Anche questa è legata al tempo: “Era stato bene sino ad ora, poi all’improvviso…” “La diagnosi precoce e l’immediato trattamento hanno fatto la differenza”. “Speriamo che passi tutto al più presto, per ritornare alla normalità”. “Per il suo intervento c’é una lunga lista d’attesa.” “Dottore… quanto tempo mi rimane?” Potremmo allora concludere che il “carpe diem” dei nostri antenati è valido oggi più che mai!

Certamente. Purtroppo la nostra tendenza, in generale, è quella di guardare al passato con nostalgia, con la serenità di averlo superato ed al futuro con speranza ma con il timore dell’ignoto, con quel pizzico di presunzione di prevederne gli eventi e comunque sempre con un incomprensibile atteggiamento di eternità.

Fin da bambino, uno dei miei sogni è sempre stato quello di possedere una macchina del tempo, oggetto dei desideri di grandi e piccini, strumento fantastico per conoscere meglio il passato, condizionare il presente, sbirciare nel futuro. 

Ho nostalgia del tempo in cui i miei figli erano piccoli, simpatici e coccolosi, in cui mio padre era vivo, e potevo chiacchierare a lungo con mia suocera.

La maturità ti insegna, prima o poi, a gestire il presente, a rispettarlo, a non averne paura, poiché diverrà il tuo passato e poco prima era il tuo futuro. Adesso, si, ora, è il tuo turno!

La giostra della vita è come la musica che l’accompagna: ciclica, affascinante, malinconica.

Lo scorrere del tempo segue realtà parallele, alcune di queste non si incontreranno mai, nel bene e nel male. Del resto cosa possono avere in comune i minuti, secondi, attimi di ansia di un bimbo che attende una puntura di ago e un ergastolano ammalato in carcere che vede scorrere gli anni con giornate interminabili? 

La percezione del tempo è come il dolore, è come l’amore: infinita, personale, impalpabile.

Il taxi arriverà a minuti, non ho fretta, soffia lo Scirocco a novembre nel Salento, attendo con il viso rivolto al sole, vorrei indugiare, meraviglioso, anche per poco. 

Scrivo questo articolo viaggiando in treno; sfrutto il tempo; intanto ascolto musica dal cellulare e rispondo a messaggi di pazienti; arriva il controllore…il codice per proseguire, come il biglietto della giostra; il treno accelera, un goccio d’acqua, SMS: papà mi manchi, torna presto!

Gestire il proprio tempo è gestire la propria vita; la memoria il nostro bagaglio, il ricordo cancellato la nostra difesa, l’oblio un attimo di fuga, ancora, basta! Riapri gli occhi, tieniti saldo, un giro di giostra ancora!

di Stefano Giacomini (chirurgo vertebrale)

Il tempo vissuto e il tempo che resta – di Assunta Tornesello

Nel mondo dell’Oncoematologia Pediatrica il tempo è tutto. Ogni passaggio viene scandito dal tempo ed ogni tempo diventa passaggio, sia esso breve, lungo, prezioso, interminabile, accartocciato, in relazione ad ogni fase precisa della malattia. C’è un tempo del prima: quando si affacciano i primi sintomi e sono sintomi banali per i quali neanche ritieni sia opportuno consultare il pediatra; ma i sintomi poi diventano persistenti e iniziano le prime valutazioni, i primi esami e a questi seguono i primi consulti fino a quando non si approda nel regno nel quale mai si vorrebbe entrare: l’oncologia pediatrica. Inizia il tempo dell’attesa lungo, lento, carico di aspettativa, quello che speri non finisca mai oppure che finisca rapidamente con una certezza: non tocca a noi. Si spera che tutto sia un sogno dal quale ci si risveglierà, che la parola definitiva sia favorevole, che i medici dicano: va tutto bene, è solo un problema transitorio. Ma c’è poi il tempo della diagnosi, quel tempo interminabile durante il quale le parole arrivano come ovattate, incomprensibili, dure, ma anche incoraggianti, futuribili. In questo tempo sospeso resta una parola: ‘tumore’. La comunicazione della diagnosi rappresenta uno degli aspetti più importanti nel processo di cura ma è anche uno dei più difficili. Non si è mai sufficientemente preparati né a ricevere né a trasmettere una parola così difficile. Per chi ascolta una diagnosi il tempo viene spazzato via in un attimo; scompare il futuro, il passato diventa remoto, il presente incerto. Ma anche per chi comunica una diagnosi è un momento difficile: il tempo dell’operatore sanitario si ferma, rimane sospeso tra il dire ed il sentire, tra l’ascoltare ed il parlare. Non ricordi più quale era il modo migliore per definire quella particolare malattia: hai in mente solo gli occhi persi e disperati dei genitori che hai davanti e un bambino che continua a giocare ma si chiede cosa stia succedendo ai propri genitori e in che cosa ha sbagliato per aver causato tutto quello che sta succedendo. Il tempo della diagnosi è lungo e ripete il tempo del cha-cha: due passi avanti ed uno indietro. “Consapevolezza e speranza, diade indissolubile della malattia”: la comunicazione della malattia si articola in un tempo lungo o breve che sia, fino a raggiungere il tempo della cura. Il tempo della cura è anche il tempo che cura. Ed in questo tempo il ritmo è scandito dalle terapie, dalla durata delle flebo, dall’intervallo tra una flebo e l’altra, tra un controllo e l’altro. È il tempo degli esami radiologici e dell’attesa dei risultati, un tassello accanto all’altro, nel tentativo di completare il grande puzzle della guarigione. È il tempo della pazienza, dell’accettazione, della solitudine, del dolore ma è anche il tempo delle risposte, della ricerca di uno spiraglio di luce, della gioia di ricominciare a programmare. In questo tempo gli altri hanno un grande valore, tutti gli altri: i genitori, le sorelle ed i fratelli, gli amici, i compagni di scuola, i compagni di gioco. Prende corpo ed acquista valore la figura del volontario, cioè tutte quelle persone che silenziosamente o rumorosamente ruotano attorno ai bambini e ai ragazzi malati e alle loro famiglie, tutte quelle persone che dedicano il loro tempo a cercare di tessere nel regno dell’oncologia una rete fitta fatta di impegno, di interesse, di supporto, di servizio. Persone che fanno del tempo un dono. Il principio fondamentale che governa il regno di oncologia pediatrica è l’alleanza terapeutica e cioè la capacità, condivisa da tutti gli operatori di un reparto pediatrico sanitari e non, di aiutare e supportare il bambino e la sua famiglia con l’obiettivo di attivare tutte quelle “energie positive” che ognuno di noi ha dentro di sé in maniera “sopita”, invisibile, e di convogliarle verso l’obiettivo principale e comune, cioè la guarigione, laddove raggiungibile, e comunque, in tutti i casi, una buona qualità di vita. Questo obiettivo viene raggiunto se operatori sanitari (medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali) e operatori non sanitari (insegnanti, clown, volontari, genitori e ragazzi guariti) uniscono le forze e le competenze e le convogliano sul progetto di cura. Il tempo della cura è il tempo che cura. E infine arriva il tempo del dopo: un bambino o un adolescente guarito continua ad avere bisogno di essere seguito anche dopo. Una malattia non termina con la sospensione del trattamento farmacologico: le emozioni e i vissuti ad essa collegati rimangono e bisogna occuparsi della loro elaborazione psichica, perché chi è stato malato possa affrontare il futuro senza il bagaglio di angosce accumulate nel percorso di cura. E poi anche il corpo, soprattutto un corpo che cresce e si sviluppa, ha bisogno di essere seguito nel tempo del dopo. E se il tempo del dopo non c’è, resta il tempo della fine o la fine del tempo.

In questo susseguirsi del tempo in tutte le sue declinazioni c’è il tempo del medico che, come dice Jung, è chiamato in causa con tutto il suo essere, che deve conoscere e riconoscere. E il tempo del medico intercetta il tempo del prima, il tempo della diagnosi, il tempo della cura, il tempo del dopo, il tempo della fine. E ogni aspetto del tempo diventa il suo tempo, il dono del tempo, la corsa contro il tempo, prendersi il tempo che serve. Ma c’è un tempo ancora più importante? Sì, è il tempo del conoscere, il tempo della ricerca. Il tempo che ogni operatore dedica allo studio, alla ricerca, alla discussione, al confronto, per mettere il proprio tempo al servizio della tutela del tempo del paziente. Il tempo che resta è quello più importante, quello che può consentire di raggiungere una nuova vittoria: aggiungere tempo e magari riuscire ad utilizzarlo per aggiungerne ancora altro, ma sicuramente e soprattutto per imparare a darne il giusto valore.

Letture consigliate

Lingiardi V.  Diagnosi e destino”, Einaudi editore, 2018.

Natalicchio P. “Il regno di OP”, Einaudi Editore, 2012.

Jankovic M. “Ne vale sempre la pena. Il dottor sorriso, i suoi pazienti e il vero valore della vita”,

Ed.Baldini-Castoldi, 2018.

Schmitt  E. “Oscar e la dama rosa”, Ed. e/o, 2015.


Assunta Tornesello, (U.O.C. Oncoematologia Pediatrica)

Il tempo dell’attesa – di Antonella Negro

Quando si pensa al tempo pensiamo a quello che ci manca o a quello che abbiamo perduto, ma pochi pensano al tempo che è stato impiegato affinché noi potessimo diventare “grandi”, non nel senso di importanti, autorevoli nella società civile, ma “grandi” nel significato di individui autonomi e inseriti nel contesto sociale e lavorativo.

Quanto tempo infatti occorre per arrivare a tanto? Il nostro corpo è costituito da tante cellule che nell’insieme formano un organo, più organi formano gli apparati e quindi un corpo vivo; partiamo dalle cellule primordiali dalle quali si origina l’embrione cioè la vita: i gameti. L’incontro tra loro determina un abbozzo di vita che piano piano nei giorni e nei mesi diventa un “esserino” che si chiama prima embrione nel sacco gestazionale e poi feto che pulsa insieme al cuore della sua mamma; attraverso la placenta, ospitata nell’utero, il feto può realizzare la sua vita intrauterina. Ci vuole tempo per nascere, nove mesi è quello necessario per la nascita. Quanto tempo ci mette la mamma per far sì che tutto proceda per il meglio: dedica il suo tempo alla corretta alimentazione, ai controlli ostetrici, allo stile di vita sano; giorno dopo giorno, si avvicina all’evento della nascita.

Ma non finisce qui, il neonato, a sua volta, ha bisogno del suo tempo per crescere. Ci vuole tempo per mettere a posto tutti i tasselli “del mosaico vita” e dietro ad ogni passo c’è una “mano invisibile “ che guida tutto. Il corpo umano è il miracolo di tutto ciò e l’unione del genere maschile e femminile innesca questo evento meraviglioso che si chiama vita. Ogni volta che si verifica una nascita si evoca una intensa commozione nel personale che assiste la gestante; in sala parto il tempo non conta, pare che non scorra mai, la parola tempo in sala parto perde ogni significato perché per una volta la vita nascente oscura, ferma il tempo almeno nelle menti e nel cuore degli operatori della sala parto.

 Esiste il tempo nelle patologie tempo dipendenti (ictus, infarto, politraumi ecc.): quando si verifica un’emergenza, allora il tempo è prezioso e ogni istante è un tempo interminabile. Quindi, la parola tempo è un fattore legato agli eventi positivi e/o negativi delle persone.

di Antonella Negro (ginecologa)

Il tempo, la memoria, l’identità – di Antonello Nicolaci

Il nostro cervello dispone di una funzione che ci permette di entrare in relazione con il Tempo, ed è la Memoria. Ricordare gli avvenimenti che ci sono accaduti, ed ordinarli nella loro sequenza cronologica, ha evidentemente la finalità di apprendere le esperienze gratificanti, per poterle utilizzare e replicare, e di riconoscere quelle sgradevoli o errate, per evitarle. La specie umana sembra voler disattendere, purtroppo, l’uso teleologico di questa facoltà, perseverando nel ripetere, come ci è dato vedere dalla cronaca quotidiana e dalla storia dei nostri giorni, i medesimi nefasti errori. Affinché un evento o un dato possa essere ricordato, è necessario che venga registrato, conservato in un archivio ordinato, e che possa essere ritrovato al momento opportuno. Esiste un tipo di memoria che va “stimolata” mediante meccanismi di tipo “gratificazione-frustrazione” – processo che va sotto il nome di “apprendimento” – ed è la memoria conativa (o scolastica): mandiamo a memoria la data di nascita di Giuseppe Garibaldi per avere un buon voto a scuola o la lode del genitore (rinforzo positivo), o per evitare di essere sgridati o puniti (rinforzo negativo). Naturalmente le strategie della gratificazione sono molto più complesse (“mi impegno negli studi universitari per avere un lavoro appagante”). Tale tipo di memorizzazione richiede, oltre a un determinato grado di attenzione, anche una salda motivazione ed un importante impegno di volontà. C’è poi un altro tipo di memoria, quella spontanea (o biografica), per la quale non vi è bisogno di alcun impegno conativo, ma che si sedimenta nel nostro cervello passivamente, come su di un registratore tenuto costantemente acceso; necessita cioè, soltanto, dello stato di Veglia (che non stiamo dormendo, o che non siamo in coma): “stamattina al mercato ho incontrato tuo fratello”.

Le strutture anatomiche del cervello implicate nella memoria sono numerose e complesse, tra di esse l’ippocampo, situato nella parte mesiale del lobo temporale, riveste un ruolo chiave (e poi: talamo, amigdala, lobo limbico, corpi mammillari, ecc -Papez, 1937-), ed esse sono collegate con l’intera corteccia cerebrale. C’è bisogno, quindi, di una lesione molto estesa e bilaterale (o lesioni piccole ma molto numerose) di tali strutture per avere disturbi della memoria di una certa rilevanza.

Qual è il substrato strutturale che codifica l’unità di memoria (engramma)? Dopo la scoperta del DNA, molecola che codifica tutti i tratti (genetici) caratteristici di ogni singolo individuo, si pensò che, per analogia, anche i ricordi fossero trasformati in molecole chimiche di DNA, o RNA, o di proteine varie; si pensò cioè che ogni unità di memoria fosse costituita da una molecola, o una porzione di essa, opportunamente depositata in un archivio. Ma tutti i tentativi di trasferire un qualsivoglia engramma da un individuo (di animali “inferiori”) ad un altro, estraendo dal primo ed iniettando nel secondo vari costituenti di materiale cerebrale, si rivelarono infruttuosi.

I modelli più convincenti, allo stato attuale delle conoscenze, distinguono meccanismi differenti per la memoria “a breve termine” (durata da pochi minuti a qualche ora) e per la memoria “a lungo termine” (in teoria permanente). Il primo tipo di memoria sarebbe sostenuto da fenomeni esclusivamente elettrici: l’engramma, rappresentato da un certo impulso elettrico, o da un treno di impulsi, si riverbera (gira ripetutamente) per qualche tempo (minuti o ore) in alcuni particolari circuiti (circoli chiusi) di neuroni, probabilmente situati nel talamo. È sufficiente un attimo di “disattenzione” perché tale traccia, ancora non strutturata, vada perduta (è quanto succede ai soggetti ansiosi o depressi, che abbiano la mente occupata dalle loro preoccupazioni, o semplicemente alle persone con “troppe cose cui pensare”). La traccia mnesica a lungo termine dipenderebbe, invece, da modificazioni plastiche e strutturali permanenti, e si baserebbe sulla formazione di nuove sinapsi tra neuroni. Le sinapsi sono i punti di contatto tra due neuroni o i loro prolungamenti, e permettono il passaggio dell’impulso elettrico dall’uno all’altro. Considerando che il nostro cervello è costituito da poco meno di 100 miliardi di neuroni (alla nascita), e che ognuno di essi entra in collegamento con gli altri mediante un numero elevatissimo di sinapsi, – stimate essere, all’incirca, 1.000 trilioni in tutto – si può avere un’idea di quanto complessa sia la nostra “rete” neuronale. In maniera approssimativa possiamo immaginare che per ogni engramma conservato permanentemente, si formi una o più nuove sinapsi tra neuroni, che aprano, allo stimolo elettrico, una nuova strada da percorrere (come un nuovo scambio ferroviario in una rete già intricatissima di collegamenti tra i vari binari); percorrendo questa nuova serie di deviazioni e di scarti il nuovo ricordo verrebbe memorizzato e ripercorrendo la stessa via verrebbe richiamato alla conoscenza.

Il ricordo sarebbe, quindi, una determinata rete neurale che si attiva elettricamente secondo una specifica sequenza. Quanto più una di queste “vie” viene “percorsa”, tanto più il relativo engramma si rafforza (perciò i ricordi remoti, richiamati più e più volte nel corso della vita, sono i più resistenti). All’opposto, se qualcuna di queste “vie” non viene più praticata (come fosse un “binario morto”), il relativo ricordo può svanire nel tempo.

La formazione delle nuove sinapsi che servono a consolidare la memoria avviene principalmente durante la fase REM (rapid eye movement) del sonno, che costituisce pertanto un momento chiave nei processi di memorizzazione. Durante esso, non solo si creerebbero questi nuovi collegamenti, substrato materiale del nuovo ricordo, ma si selezionerebbero anche gli engrammi da conservare a lungo, eliminando quelli da scartare. Infatti il problema di ogni buon archivista, è proprio quello di eliminare tutto ciò che viene ritenuto inutile, poco significativo, superfluo. Questo per semplici ragioni di economia: conservare tutto, sarebbe veramente troppo dispendioso, e renderebbe oltretutto più difficile il reperimento di ciò che serve realmente. Per inciso: durante il sonno, ed in particolare durante la fase REM di esso, il consumo di ossigeno e di glucosio da parte del cervello è ben più alto rispetto a quello dello stato di Veglia: altro che riposo!

I ricordi (sopratutto quelli relativi alla memoria biografica) possono subire poi, nel tempo, un processo di ulteriore selezione, rimodulazione, variazione ed elaborazione, talvolta eliminazione -rimozione-, sotto l’influenza di fattori esistenziali ed emotivi vari. Questo divenne campo di indagine tramite le tecniche dell’ipnosi, utilizzate per far riemergere i ricordi cancellati -censurati- o distorti (paramnesie) a seguito di eventi psichici traumatici. In seguito, settore di studio (assieme all’interpretazione dei sogni) dell’antesignano della psicanalisi, Sigmund Freud.

Ma questa è un’altra storia.

Esistono vari tipi di memoria: quella verbale (ricordare il nome degli oggetti e delle persone), uditiva (e, tra queste, la memoria musicale è forse la più tenace di tutte: è facile ricordare, pure a distanza di svariati decenni, una melodia, o una filastrocca, e su di essa, anche le parole che l’accompagnavano), quella visiva (ad es: dei volti), quella dei luoghi (topografica), quella semantica (anch’essa molto tenace), quella operativa (andare in bicicletta, nuotare), degli odori, ecc. Per ognuna di esse, verosimilmente, è prevista una differente sede di archiviazione nella corteccia del nostro cervello.

In clinica ci possono essere disturbi della memoria per difetto, i più numerosi (le amnesia), per eccesso (le ipermnesie), o per alterzione del contenuto (dismnesie). Pico della Mirandola è l’esempio proverbiale di una memoria eccezionale, e non costituisce certo motivo di preoccupazione se un determinato soggetto manifesti una particolare attitudine a ricordare quantità enormi di dati. Tuttavia alcune patologie psichiatriche (autismo, fase maniacale del disturbo bipolare, ecc) si possono accompagnare alla capacità di ricordare in maniera esagerata (particolari minuziosi ed insignificanti di un evento o di una intera giornata, oppure innumerevoli targhe automobilistiche o numeri telefonici).

Tra le dismnesie ci sono delle sensazioni (vere e proprie “allucinazioni mnesiche”) che fanno parte dell’esperienza comune senza essere significative di malattia. Chi di noi non ha mai sperimentato un déjà-vu: la netta sensazione di familiarità in una scena o in un luogo ove sicuramente non siamo mai stati prima d’allora?, o del suo opposto (jamais-vu)? oppure di aver avuto un “falso riconoscimento”? Tuttavia alcuni di questi fenomeni possono avere, raramente, un significato patologico: alcuni tipi di crisi epilettiche (“parziali complesse”) possono manifestarsi, infatti, con sintomi similari. La perdita progressiva della memoria è evento biologico normale correlato all’età (in relazione al progressivo depauperamento del numero dei nostri neuroni e delle loro sinapsi). Soltanto quando diventa di entità tale da rendere impossibile la vita autonoma e di relazione (e quando si accompagna ad altri sintomi: la sola perdita della memoria non consente una diagnosi di Alzheimer), si parla di “Demenza”.

In clinica si riconoscono oltre cento tipi o cause differenti di demenza. Le demenze “degenerative” tra cui la più conosciuta è la malattia di Alzheimer, costituiscono la buona metà di esse. Sono dovute ad una eccessiva e prematura morte delle cellule nervose, talvolta determinata dall’accumulo di alcune proteine al loro interno. In un 45% circa dei casi la demenza è dovuta, invece, a disturbi della circolazione (demenza vascolare): un ictus, o, più frequentemente, numerosi piccoli infarti cerebrali. La restante parte delle demenze (5% ca) dipendono da cause prevenibili, ed almeno in parte modificabili; intossicazioni croniche da alcool, da stupefacenti, da determinati farmaci, da metalli pesanti, da solventi; oppure da ipotiroidismo non trattato, da ipovitaminosi, da idrocefalo, da malattie infettive -lue, meningite-, dalle apnee notturne, o da traumi, tumori, ecc. È sicuramente possibile ridurre l’incidenza di tali ultime agendo sulla correzione dei vari fattori di rischio, primo tra tutti, il rischio cardiovascolare. La ricerca nel settore della terapia della demenza è campo d’investimento privilegiato dall’industria farmaceutica, probabilmente destinato a dare importanti frutti (assieme a grandiosi ritorni economici) in un futuro speriamo prossimo. Tuttavia le terapie finora entrate nell’uso clinico si limitano a poche molecole che hanno il comune effetto di aumentare la concentrazione cerebrale dell’acetilcolina, neurotrasmettitore chimico (non è il solo, per la verità) coinvolto nel funzionamento delle sinapsi dei circuiti della memoria. Ma la carenza di aceticolina, accertata nel cervello del paziente con demenza, non è la causa del processo patologico, ma soltanto un suo epifenomeno. I risultati, pertanto, seppur apprezzabili, si limitano al rallentamento della progressione del processo degenerativo, comunque inarrestabile, ed ancor più, irreversibile.

È importante tenere presente che anche la memoria, come qualunque altra funzione dell’organismo, ha bisogno di costante allenamento. È comodo, ma assolutamente deleterio, delegare al nostro smart-phone, di cui il nostro cervello sembra essere divenuto ormai una “periferica”, anche le più banali funzioni mnesiche: non siamo più abituati a memorizzare un indirizzo, un numero telefonico, o a fare a mente anche la più banale delle addizioni. Come è noto, i neuroni non possono più aumentare una volta che siamo venuti al mondo: il loro numero potrà soltanto diminuire giorno dopo giorno, spontaneamente o a causa del sovrapporsi dei vari eventi patologici; noi possiamo invece produrre sempre nuove sinapsi, tenendo vivo ed interessato il nostro cervello, impegnandolo in attività mnemoniche, sociali, fisiche, culturali: quante più sinapsi produciamo nel corso della nostra esistenza tanto più a lungo durerà il nostro “tesoretto” di memorie, cioè di vita consapevole.

Molti di noi hanno avuto l’esperienza di assistere un familiare con demenza: la perdita dell’autonomia, il mancato riconoscimento dei figli e delle persone care, le bizzarrie del comportamento, ma sopratutto il venir meno della memoria sono fattori devastanti. Un Alzheimer è un soggetto che vive al presente: – ora mangia, ora dorme, ora sorride senza ragione -, che ha perduto la sua identità perché ha smarrito il suo passato. Non ha più continuità con la propria esistenza.

La nostra Identità (coscienza del sé) si costituisce a partire dall’infanzia e dall’adolescenza, e si struttura mediante la sedimentazione di tutte le esperienze che si sovrappongono nel corso degli anni. Ricordare la propria vita trascorsa è ciò che costituisce l’Identità di ognuno di noi e che ci identifica nel rapporto col prossimo. Senza memoria di ciò che ho fatto, delle esperienze che ho avuto, delle persone che ho amato e che mi hanno amato, degli ideali in cui ho creduto, delle convinzioni che ho maturato, dei libri che ho letto, della musica che ho ascoltato, del mare che mi ha bagnato, delle emozioni che ho vissuto, insomma, sono nulla, non esisto come Persona, né per me stesso, né per gli altri. Così come, del resto, è la memoria collettiva che costituisce l’identità di una comunità e fa di un insieme di persone un Popolo, soggetto consapevole della propria storia.

Alla Memoria eterna, quella che sopravvive alla morte e sconfigge il Tempo, anelavano gli Eroi omerici quando ricercavano la gloria sui polverosi campi di battaglia. Essi sarebbero vissuti, e vivono tuttora, difatti, nel ricordo tramandato alle generazioni future. La loro Identità non è andata smarrita. E, d’altra parte, quale condanna era più tremenda ed ignominiosa, -ancor più della morte-, che la “damnatio memoriae” con la quale si cancellava non solo la vita di un avversario politico, ma sopratutto il ricordo della sua Esistenza?

di Antonello Nicolaci

La lentezza in fotografia

Tante sono le modalità dell’andar a foto, le foto scattate in un lampo, situazioni catturate in un secondo, l’attimo in cui qualcosa ci passa davanti o una situazione di cose e persone che avvistiamo all’improvviso e il nostro click è istantaneo, fulmineo, a catturare l’emozione.

Naturalmente qui sono a parlarvi della mia esperienza di fotografo paesaggista, di scogliere, di mare, vento e cieli impegnati da nuvole che a volte stazionano sopra torri e paesaggi, scenari in cui la “lentezza” ci permette di cogliere tutti i cambi di luce, di nuvole che scorrono veloci, di mare ora calmo, ora all’improvviso mosso, scomposto, agitato…

Se si vuol cogliere davvero l’essenza di un luogo lungo la costa, se si vuole intimamente scoprirne i segreti, le sfumature, i colori, non si può far altro che usare “lentezza”.

La “lentezza” che si ottiene dal non aver fretta, dall’aver tempo a disposizione per osservare ogni piccolo cambiamento nel cielo, nelle nuvole che ora si addensano e dopo poco si disperdono, dando vita a ritagli che sembrano trame di dipinti.

Ed è straordinario come una torre costiera, sempre la stessa, una scogliera, un mare conosciuto e frequentato possano offrire di sé , in ogni minuto che passa, una situazione di luce e colore diversa, stessi elementi per un racconto, una scenografia complessa a comporre un’opera in cui gli elementi raccontano il meglio di sé stessi.

Oggetti immobili e fissi che vestono di luce e colori sempre diversi nello scorrere dei minuti e delle ore: è così che si riesce a cogliere e immortalare in fotografia la magnificenza del creato in tutte le sue peculiarità e sfumature.

È il mio modo preferito di intendere e “fare” fotografia, la “lentezza” come elemento per scoprire l’anima delle cose, dei luoghi e degli elementi e raccontarla a chi si trova davanti alle mie fotografie.

di Alfonso Zuccalà