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Ritorno al passato! Riapre il Museo Nazionale Jatta di Ruvo di Puglia

Il 19 ottobre scorso, dopo tre anni di chiusura per lavori di ristrutturazione, ha riaperto al pubblico il Museo Nazionale Jatta, scrigno di rara bellezza tra i musei della Direzione regionale musei Puglia (DRM) del Ministero della Cultura (MiC). La novità principale è un completo ritorno al passato! La macchina del tempo qui si è fermata alla metà del 1800, quando Giovanni Jatta junior inaugura il museo di famiglia nell’imponente palazzo di Piazza Bovio, a Ruvo, nelle modalità volute da Giovanni Jatta senior, Giulio Jatta e Giulia Viesti, rispettivamente zio paterno e genitori. Gli arredi e gli allestimenti ideati dagli storici fondatori per sistemare la raccolta di antichità, costituita tra Ruvo e Napoli dal 1821 al 1836, sono stati restaurati e ripristinati, compresi i bei divanetti in velluto rosso su cui oggi ci si può nuovamente sedere. Le vetrine moderne degli oggetti in bronzo nella seconda stanza, aggiunta discutibile dei primi anni duemila, sono state eliminate e destinate a una nuova area di pertinenza del Museo, sempre a Palazzo Jatta, non ancora visitabile. La raccolta epigrafica, stipata caoticamente nei vani delle finestre del museo, è stata spostata nei depositi in vista di un ulteriore nuovo allestimento, probabilmente nel cortile interno. Le piccole didascalie appoggiate ai vasi sui plinti, i più rappresentativi del museo, eliminate in attesa di un moderno sistema di QR code. Smantellato il vecchio impianto di illuminazione, quello dai binari neri impattanti, a vantaggio di un sistema di luci calde e soffuse a imitazione della luce naturale, in considerazione del fatto che originariamente non c’era che la luce del giorno ad accompagnare i visitatori. Gli ospiti però, all’epoca, erano molto pochi e potevano contare sulla guida sapiente degli Jatta e del catalogo di Giovanni Jatta junior,

Un momento dell’inaugurazione del Museo Jatta, nel “Grottone” a Ruvo, il 19 ottobre scorso.

edito nel 1869, appannaggio esclusivo di nobili e colti signori, ambasciatori e cultori della materia. La scelta purista del Ministero diventa, quindi, più inclusiva attraverso l’installazione, all’ingresso del museo, di un grande pannello multimediale con un docu-film che sintetizza le fasi di formazione della collezione e della nascita del Palazzo – museo. La novità più significativa è la presenza di un grande spazio per esposizioni temporanee e conferenze, il “Grottone”, nei locali sotterranei del palazzo, di proprietà degli ultimi eredi Jatta, dallo scorso anno in comodato d’uso decennale alla DRM Puglia. Qui, fino allo scorso settembre, hanno trovato casa i vasi più importanti della Collezione Jatta, in attesa che il museo fosse di nuovo fruibile, insieme a numerosi oggetti e ricordi di proprietà della famiglia nella mostra “Collezionauta. Capolavori attraverso il tempo”.

Rappresenta una prima assoluta l’inserimento di un biglietto di entrata (5 euro), in adeguamento a tutti gli altri musei ministeriali della Puglia, e la possibilità di noleggiare un’audio guida. 

Dettaglio della seconda stanza del Museo Jatta. Al posto delle moderne vetrine che racchiudevano gli oggetti in bronzo sono stati ripristinati gli antichi divanetti in velluto rosso.

La sera dell’inaugurazione, per molte ore, centinaia di persone hanno riempito il cortile interno del palazzo fin fuori all’ingresso, in fila ordinata, per rivedere quello che è indubbiamente il simbolo di una città, un tempo meta ambita dei più grandi collezionisti europei di antichità. Tutti volevano i famosi vasi di Ruvo con scene istoriate da mani sapienti, artisti dal “pennello finissimo”, come li chiamava Giovanni Jatta senior. Nonostante la diaspora di moltissimi vasi ritrovati a Ruvo, avvenuta nei primi quarant’anni dell’Ottocento, la collezione Jatta con i suoi quasi duemila reperti, di cui in massima parte vasi apuli e attici a figure rosse, ha il merito di aver conservato alcuni fra gli esemplari di vasi antichi più belli e più rari al mondo. Il cratere attico che raffigura il mito di Talos, le anfore panatenaiche con la variante del mito di Antigone rispetto alla versione sofoclea e con la scena di consegna delle armi ad Achille da parte delle Nereidi, gli eccezionali rythà con protomi zoomorfe, il cratere con il meraviglioso giardino delle Esperidi, sono solo alcune fra le meraviglie tornate al museo e alla comunità intera. 

In attesa del completamento delle sezioni espositive (bronzi e lapidi iscritte) e dell’installazione dei più moderni sistemi multimediali di fruizione, una visita alla nuova forma “antica” del Museo Jatta, lasciandosi ispirare dalle iconografie e dalle forme rare di vasi grandi e piccoli, è assolutamente imperdibile.

di Daniela Ventrelli

La lentezza del tempo in educazione

Dialogo tra un vecchio professore di pedagogia e la sua allieva


“Professore tra i vari approcci educativi oggi in uso nelle scuole quale approccio è più adatto alla formazione dei nostri alunni? ”  Il professore non risponde, ma invita la sua tirocinante a seguirlo e ad osservare scene di ordinaria quotidianità  

Scuola dell’Infanzia   ore 16 

Dialogo tra due mamme, Alessia  e Caterina

“Alessia, portiamo i bambini al parco? Ho un po’ di tempo prima che inizi la mia lezione di aerobica”.  

 “Caterina sei impazzita? lo sai che ho tremila cose da fare… Devo ancora terminare la scheda per i nonni, la festa è domani e devo aiutare Francesco a terminare la poesia che sta imparando in cinese, altrimenti sai che figura! In inglese le parole le ha imparate alla perfezione, ma in cinese ancora no!  Le parole sono un po’ difficili, si imbroglia e piange, poi mi fa perdere tanto tempo, butta tutto all’aria, se la prende con il suo fratellino, lo picchia fino a fargli male. Proprio non lo capisco mio figlio… Pensa lo accontentiamo in tutto… Sai, bisogna avere così tanta pazienza.  Anche i disegni dei nonni li hanno realizzati a scuola con il computer, però dobbiamo colorarli…. Mia madre non lo sopporta più dice che è maleducato, che la picchia, che le risponde male. Non si rende conto che i tempi sono cambiati e che i bimbi sono diversi!

Scuola  primaria  ore 16,30 

Dialogo tra due papà,  Alessandro ed Edoardo

“Alessandro, anche tu qui? E tua moglie?”

“Lei è in viaggio a Praga per uno stage, il bambino è con me perché è il mio turno. Ecco qui la lista che devo rispettare altrimenti non me lo lascia per il prossimo weekend: ore 16 prendi il bimbo, portalo al calcio, riprendilo, vai in piscina, prepara la cena con il cibo di cui alla lista appesa, poi ripetete i compiti per domani; non dimenticare di fargli eseguire gli esercizi di chitarra, mi raccomando niente televisione, né videogiochi che rallentano il suo sviluppo e danneggiano il cervello. Fargli ripetere la storia che è un po’ indietro, anche la lettura. Le maestre mi hanno detto che nasconde i compiti, è un po’ bugiardo, proprio come te, e poi è svogliato e spesso distratto, chissà da chi ha preso, non certo da me che lavoro dalla mattina alla sera! A letto presto e mi raccomando i denti e il pannetto per dormire.

“Ancora il pannetto?. Ma non è autonomo – “No. Non è ancora pronto.  Tutto sommato, è più comodo così; arriverà il suo momento. Basta non mettergli fretta!”- “Ma ha 6 anni !”-  “ E che vuol dire? È sano, e così non dà fastidio”. 

Asilo Nido  ore 17, termine delle attività

 Valentina e Alessia due mamme in trepida attesa.  

“Valentina Vieni a prendere il tè da me?”

“Non posso Alessia, devo accompagnare la piccola in piscina, poi a casa, veloce a ripetere gli esercizi di inglese per domani, poi ci sono le schede da colorare, le palline da infilare, la filastrocca da memorizzare, poi la cena e poi a letto che domani si ricomincia.

“Compiti a casa?  ma non è piccolina?”  

“Scherzi, bisogna cominciare subito, il bilinguismo si apprende da subito, sin dal grembo materno, io raccontavo le fiabe al mio piccino prima che nascesse, in inglese. Cara mia sono le nuove tecniche, e anche a leggere e a scrivere, è un metodo sperimentale, mica per tutti. Certo mi costa un occhio! Non voglio far perdere a “mia” figlia queste opportunità. Se le troverà avanti”.

“Ok farò anche io così, scriverò mio figlio, due lingue sono meglio di una”.

 “Andiamo alle medie? È a pochi isolati da qui. I ragazzi stanno per uscire” 

“No prof. basta così, ho la testa un po’ confusa. Ma alle sue lezioni ho capito tutt’altro! La pedagogia contemporanea non rispetta la centralità del bambino? La scuola con la sua Riforma non è attenta a valorizzare tempi, talenti, attitudini, non promuove le competenze personalizzando i percorsi formativi, adeguandoli agli stili cognitivi, agli stili di apprendimento, in poche parole stando attenta ai processi di individualizzazione e ai processi di personalizzazione. La nuova scuola, dell’Autonomia, della flessibilità non è attenta a promuovere le relazionalità, la condivisione, la solidarietà indispensabili per una cittadinanza attiva e consapevole? Forse mi sono confusa con i tempi prof. sicuramente si riferiva a quella dei nostri genitori forse, al loro tempo. Mi sembra di capire che adesso bisogna correre, essere competitivi, vincere, e vince chi arriva prima, chi ha una marcia in più. Io pensavo che la scuola avesse raggiunto la maturità dell’inclusione, dove ognuno viene aiutato a realizzare il proprio progetto di vita e, secondo i meravigliosi insegnamenti del premio Nobel Amartya Sen, della filosofa statunitense Martha Nussbaum, addirittura la realizzazione del proprio progetto esistenziale, altro che solo progetto di vita! Pensavo che i tempi fossero maturi per queste finalità grazie anche alla tecnologia al servizio delle persone, pronta a sostenerle amplificandone sensi e facoltà, assistendole in maniera accorta e adeguata al fine di consentire loro non solo ciò che possono fare, ma ciò che “sognano” di fare. Io ho studiato tutto ciò in Bruner, Vigoskji, Montessori, Canevaro, Ianes. Pensavo addirittura che gli insegnamenti di Claparéde, Freinet, Freire, fossero superati da più moderne strategie, figlie anche esse della tecnologia, addirittura che il “bon sauvage “ fosse un ricordo mitico da conservare in soffitta … Ma forse non ho  capito male prof.

Il profilo di   questi ragazzi non è molto diverso da ciò che quotidianamente osservo nelle nostre scuole dove svolgo attività di supplenza, ma anche nelle nostre famiglie: un profilo di alunno alquanto “bizzarro”, per non dire altro! 

Perché è cosi silenzioso, cosa propone con la sua lunga esperienza professionale? C’è una possibilità per restituire ai nostri bimbi il loro tempo? Un tempo fatto di gioco, il gioco del pulcino, gattino, oppure della mamma,  papà,  maestra, dottore; la gioia di dialogare  con la forchetta, il cucchiaio, il far finta di stare sulla luna, o di essere un guerriero,  l’eroe pronto a salvare il mondo.  C’è un modo per restituire loro la relazione fatta di cura, d’amore, di fiducia, di rispetto. Un tempo per esplorare, per toccare, per sperimentare. Un tempo per ammirare le bellezze che, ancora ci circondano, prima che la velocità di cui l’esistenza si è appropriata trasformi tutto in una discarica globale.  O forse è questo ciò che stiamo apparecchiando per il loro futuro: abituarsi gradualmente al bello virtuale, al bello assemblato tecnologico, non accorgendosi di ciò che si ha intorno. 

Ha una ricetta prof?”

“In educazione non ci sono ricette. Serve il buon senso, serve l’intelligenza, anzi come ben sottolinea Gardner, servono le intelligenze, serve il pensiero complesso che ci aiuta a prevedere le conseguenze del nostro operato, serve il cuore, l’amore per l’umanità, non solo per i nostri cari, ma per tutte le persone che in ogni tempo, in ogni luogo si trovano ad affrontare l’avventura del vivere.

Ma concretamente cosa propone? 

Una rivoluzione al contrario, figliola, ritrovare il TEMPO, restituire ai nostri giovani il LORO TEMPO. Ritornare alla pedagogia della LENTEZZA, guardare il mondo con gli occhi curiosi, con lo stupore della scoperta: la fragranza di un frutto, la bellezza di un tramonto, l’estasi di un abbraccio, l’ascolto del mare, del vento, della natura; occhi attenti a tutto, ai dettagli, al particolare…. Fermarsi a pensare, a riflettere. A scuola privilegiare il momento dell’ascolto, il momento delle storie… Raccontiamoci, apprendiamo da ciò che diciamo… facciamo, per poter dire chi siamo. Partecipiamo all’incontro con l’altro liberi da pregiudizi e stereotipie. Il tempo non è di chi corre di più, ma di chi si appropria dei “pensieri lenti” che permettono la riflessività idonea a non fare sciocchezze che potrebbero rilevarsi fatali, pensieri lenti, una rinnovata pedagogia della lentezza aiuterebbe la nostra scuola a formare cittadini più consapevoli e capaci di autodeterminazione e di giudizio critico, più capaci di “perdere tempo” per cercare il “tempo”, il tempo per  vivere in pace, ripudiando la guerra.  

Ma dobbiamo diventare tutti lumache prof, in un mondo di predatori? 

Né lumache, né predatori, ma PERSONE, alla ricerca di un rinnovato Umanesimo, solidali con l’altro e con se stessi, nella piena consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti. La vita è come un viaggio in un mare aperto, un po’ tranquillo un po’ periglioso: raggiungere un porto sicuro insieme si può.

di Lena Giannelli

Affrettati, ma lentamente – Anna Rita Miglietta

In un mondo che va a mille, la lettura, la scrittura, la produzione orale hanno bisogno di concentrazione e di tempo


Hic et nunc! ‘qui ed ora!’, subito, senza indugi. Il tempo è tiranno! Chi ha tempo non aspetti tempo. Tutti motti, modi di dire che spronano, sollecitano una già irrefrenabile accelerazione che connota la società moderna, vessata com’è, costantemente, da sempre nuove sfide. 

Così, Festina lente ‘affrettati lentamente’, il motto probabilmente attribuibile all’imperatore Augusto (nella forma greca: σπεῦδε βραδέως),- almeno da quanto ci riferisce Svetonio in De vita Caesarum, Divus Augustus, II, 25, 4 – mai come nel contesto contemporaneo assume ruolo più dirompente: l’invito è quello di essere veloci, ma con cautela. L’espressione ossimorica, che contiene cioè due concetti contrapposti, fu utilizzata anche da chi è considerato, in Europa, il primo editore in senso moderno, cioè Pio Aldo Manuzio (Bassiano, tra 1449 e 1452–Venezia 1515), che la impresse nel simbolo della sua tipografia aperta nel 1494 nella contrada di Sant’Agostino a Venezia. E, oggi, il detto – diventato caro a Cosimo I de’ Medici – si può leggere nelle sale di Palazzo Vecchio, a Firenze, perché ricorre nelle numerose decorazioni che ritraggono, in una mirabile sintesi figurativa, una piccola tartaruga con una vela sul carapace. 

Festìna lente è un invito alla cautela, a rallentare, ad abbandonare i ritmi frenetici di una società ipertecnologica di gente iper-connessa, galvanizzata, inghiottita nella spirale della rapidità convulsa che in tanti ambiti disprezza la qualità a favore di un’apparente vantaggiosa quantità. 

L’esaltazione della velocità non è, tuttavia, nuova. Era cara anche, per esempio, per fare una citazione letteraria, al Futurismo. Alla velocità, Filippo Tommaso Marinetti, nel suo Manifesto dell’11 maggio 1916 La nuova religione-morale della velocità, aveva attribuito un valore morale oltre che estetico: «La velocità, avendo per essenza la sintesi intuitiva di tutte le forze in movimento è naturalmente pura» e l’aveva contrapposta alla lentezza che «avendo per essenza l’analisi razionale di tutte le stanchezze in riposo è naturalmente immonda. Dopo la distruzione dell’antico bene e dell’antico male noi creiamo un nuovo bene la velocità e un nuovo male la lentezza».

Purtroppo, oggi, forse, si è andati oltre anche quei limiti estremi nell’esaltazione della velocità. Le nostre scelte sono estemporanee, il nostro agire, in tutti gli ambiti – dalle relazioni familiari, amicali, professionali – sono governate da ritmi frenetici, inesorabilmente accelerati. Un tempo si diceva in un fiat (dalla frase della Genesi, 1,3, fiat lux ‘sia fatta luce’), oggi basta un clic per tutto: il concetto è sempre quello dell’immediatezza. 

Pensiamo a ciò che accade anche in ambito linguistico, alla lettura e alla scrittura: per quest’ultima il motto Festina lente era stato utilizzato da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane (1988) per riflettere sul mestiere dello scrittore, la cui riuscita «sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato» (p. 47). Oggi, in tutti i settori, sono “fuori moda” le analisi lunghe ed articolate, che richiedono concentrazione ed attenzione. E così convinti che è “meglio bruciare i tempi”, si scrivono testi sciatti, sgrammaticati, privi di coerenza e di coesione, orfani di punteggiatura, sintatticamente disarticolati, poveri a livello lessicale, sovrabbondanti di parole generiche lontane da quel gusto ricercato e dalle sfumature semantiche che impreziosivano il nostro bell’italiano. Mancano la riflessione, l’elaborazione dei concetti e la revisione, operazioni complesse per le quali è richiesta notevole applicazione e sono – dovrebbero essere – le fasi più importanti del processo alla base della realizzazione di un testo.

Anche la comunicazione orale risulta spesso zoppicante, trascurata, sconnessa: frasi smozzicate lasciate in sospeso, riformulazioni, esitazioni sono indizi di scarsa pianificazione delle idee. 

La lettura, la scrittura, la produzione orale, l’ascolto sono abilità che richiedono concentrazione, progettazione, selezione, riflessione: tutte operazioni che hanno bisogno di tempo per attivare l’intelligenza critica. Purtroppo ormai si mira al prodotto e si trascurano i processi, ci si accontenta della memoria a breve termine e si sedimenta poco in quella a lungo termine. La semplicità, la chiarezza, la precisione, che dovrebbero plasmare e modellare le vite di ogni individuo, spesso vengono messe al bando per essere sostituite sbrigativamente dalla caoticità, dalla nebulosità e dall’imprecisione, tipiche di una quotidianità episodica, frammentaria, bulimica che il famoso sociologo polacco, Zygmunt Bauman (1925-2017), avrebbe definito liquida. 

Ma il nostro cervello è una macchina lenta, come ha ricordato il neurobiologo Lamberto Maffei che, nel suo saggio Elogio alla lentezza (2015), invita a ritornare al pensiero lento che è caratteristica «propria degli animali superiori ed è particolarmente sviluppata nell’uomo» (p. 57).

Sempre nel suo testo Maffei riferisce dell’azione di un «falchetto che rotea lentamente ed elegantemente nel cielo, sembra esplorare il suolo col suo occhio acutissimo, e vaga, vaga con infinita pazienza, poi improvvisamente si precipita verso terra a grande velocità…risale lentamente con una preda. Ha pensato, ripensato, analizzato e poi con rapidità ha dato seguito alla decisione presa con pazienza efficiente, come se festina lente fosse la sua strategia di pensiero!» (p. 7) e il neurobiologo conclude «La biologia è una grande maestra per l’attento osservatore» (p. 18).

Le strategie del pensiero lento forse danno la sensazione di perdere tempo. In realtà, non è affatto così, perché aiutano ad affinare lo spirito critico e, come ha dimostrato il falchetto, si rivelano, non di rado, vincenti. Con questo non si deve pensare, tuttavia, che la velocità vada messa al bando a favore di un mondo “al rallentatore”, ma che è necessario coniugarla con la cautela, il rigore della meditazione. In altre parole: festina lente!

Bibliografia

Calvino I. (1988), Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti.

Maffei L. (2014), Elogio della lentezza, il Mulino.

Marinetti F.T. (1916), La nuova religione-morale della velocità. Manifesto futurista pubblicato nel 1° numero de «L’Italia Futurista».

Ramondetti P. (a c. di), (2008), Svetonio. Le vite dei Cesari, UTET.


di Anna Rita Miglietta

Raffaele Nigro, un lucano prestato alla Puglia

Fra i maggiori autori italiani contemporanei, Raffaele Nigro originario di Melfi, (classe 1947) ma pugliese di adozione, ha un’enorme produzione letteraria.  Come giornalista, ha collaborato con i quotidiani Avvenire, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Corriere della Sera. Con il poeta Lino Angiuli ha fondato le riviste Fragile, In/Oltre, Incroci e con Giuseppe Lupo, Mimmo Sammartino e Piero Lacorazza la rivista Appennino. Nel 1975 con un gruppo di poeti pugliesi (Giancane, Zaffarano, Bellino), ha dato inizio al movimento Interventi culturali. Come drammaturgo: nel 1980 ha scritto il Grassiere, allestito dal teatro Abeliano di Bari, in seguito nel 1986 Il Santo e il Leone, Hohenstaufen e altri lavori. Nella narrativa ha esordito nel 1986 con la raccolta di racconti A certe ore del giorno e della notte, cui hanno fatto seguito i romanzi storici I fuochi del Basento (1987), La baronessa dell’Olivento (1990), Ombre sull’Ofanto (1992) e Dio di levante (1994).


Il giornalista, lo scrittore, i ricordi nella sede regionale Rai di Bari  

A Raffaele Nigro mi unisce una storia comune che è nata nella sede regionale della Rai nel 1979, l’anno in cui, il 15 dicembre, partirono le trasmissioni della terza rete, con un primo telegiornale regionale alle 19.30. Contemporaneamente iniziò una serie di programmi, a diffusione regionale, che avevano il compito di narrare le esperienze artistiche delle varie aree geografiche del territorio pugliese. 

Cosa ti è rimasto di quel periodo, della tua attività di regista…

«Venivo dall’esperienza dell’insegnamento scolastico e dalla ricerca universitaria, la Rai mi gettò sulla strada e mi mise a contatto con la realtà quotidiana e con un mondo palpitante».

Alle 19.35 del 23 novembre 1980, in Basilicata ed Irpinia, un terremoto che causò circa 3.000 vittime, 10.000 feriti, distruggendo 75.000 abitazioni e danneggiandone gravemente 275.000. È stato il più forte evento sismico che ha colpito l’Italia negli ultimi 100 anni. Noi della sede RAI di Bari fummo subito allertati e il giorno successivo raggiungemmo la zona per narrare l’entità di quell’evento. Quale ricordo hai di quell’esperienza?

«Ero a Bari quando avvertimmo la scossa di terremoto, ci precipitammo in strada e sapemmo che gran parte del Sud era stato interessato dal sisma. Il mattino successivo fui convocato dalla Rai, mi toccava partire per Pescopagano con un convoglio di mezzi aziendali. Man mano che si saliva per l’Ofantina si incontravano auto in fuga. A Pescopagano trovammo l’inferno, strade tagliate, case sventrate, gente che urlava e piangeva e soprattutto i primi morti. Dopo i collegamenti con i telegiornali decidemmo di visitare i paesi circostanti e a Conza della Campania trovammo dei disastri irreparabili. Le file concentriche di case si erano riversate sugli edifici sottostanti, con un numero di morti spaventoso. Ricordo che non erano ancora arrivati dalle città circostanti i vigili del fuoco, non l’esercito, e solo c’erano alcune pattuglie di carabinieri. Occorsero più giorni perché il mondo scoprisse il raggio del disastro. Fu una settimana di amarezze e di infelicità, tra corpi che venivano estratti dalle macerie e disperati che scavavano con le mani nelle calcine. Un cataclisma che ci apparve come la fine del mondo». 

Ma non solo di eventi tragici è stata l’esperienza dei primi anni della terza rete regionale. Ricordo alcune produzioni fatte con Vito Signorile al Teatro Abeliano come “Il Grassiere”… 

«Certo, si realizzarono riprese di grande interesse, borghi poetici, opere d’arte, cripte, tradizioni popolari: errore  non dare sbocchi nazionali a questi racconti periferici. Ricordo un incontro con Angelo Guglielmi, a Roma, mi aveva convocato per chiedermi un trasferimento a viale Mazzini. Mi sarei occupato di teatro e di letteratura. Disse che la televisione si fa dal centro. Gli risposi che la ricchezza dell’Italia stava nella diversità delle regioni e dei municipi. I programmi della sede regionale vennero chiusi e si continuò solo a realizzare dei tiggì locali. Cioè il nulla travestito da informazione».

Nel 1987 viene pubblicato “I fuochi del Basento” che si aggiudicò il premio Campiello, sicuramente il tuo più importante esordio come scrittore, a cui seguirono tanti altri romanzi.

«Per me fu un colpo di tamburo enorme. Si avviò una stagione importante perché mi proiettò nella grande editoria e nella società letteraria nazionale».

 Il 1989 segna la chiusura del settore dei programmi regionali e tutti i programmisti-registi diventano giornalisti…

«Fu una fortuna per tanti, un disastro per altri. Chi amava raccontare fu condannato a micro informazioni locali, a cronache da riassumere. Poi arrivò l’emittenza privata e la gara al salto in basso. Con la televisione di Berlusconi fu un disastro, perché si privilegiarono il gossip, il vuoto totale e l’analfabetismo programmato. Ebbi la sola fortuna di essere chiamato a collaborare con alcuni contenitori nazionali come Mediterraneo e Bell’Italia.  Fu un’esperienza interessante».

Nel lungo periodo trascorso in RAI, che ti ha visto, sempre come protagonista, nei ruoli di Regista, Giornalista, Direttore di Sede e Caporedattore, quali sono stati i momenti più belli da ricordare e quali quelli da dimenticare?

«Momenti belli furono i viaggi realizzati con le troupe, lo scandaglio dei territori, gli incontri con un mondo di operatori culturali. All’interno dell’azienda furono belli i miei rapporti con i colleghi, il rispetto reciproco e l’affetto. Nel contempo si palesarono gli odi e le invidie di alcuni, la scoperta di furti interni che mi tennero sulla corda per mesi, il malaffare dell’Usigrai che difendeva solo alcune figure di potere interne al Sindacato. Ricordo con rancore la stagione in cui per essermi candidato con Vendola me la fecero pagare declassandomi dai ruoli acquisiti e mi tennero in disparte, i momenti in cui fu privilegiata la candidatura di un collega al mio posto fino a pretendere la mia destituzione. Compresi allora cosa fosse la Rai dove non contava l’impegno ma solo la lottizzazione e il rapporto tra amici degli amici». 

Raffaele Nigro e Damiano Ventrelli, 26 dicembre1984

Nel tuo ultimo romanzo “Il cuoco dell’Imperatore” hai raccontato la vita dell’imperatore Federico II di Svevia con gli occhi del suo cuoco Guaimaro delle Campane, originario di una famiglia di fonditori di Melfi, fuggito per non essere accusato dell’uccisione di due carbonai ebrei nel 1208. Come mai hai fatto questa scelta? 

 «Ho scelto Federico perché è una figura che mi ha sempre accompagnato nella mia vita. Ma è anche una creatura che interessa ancora alla collettività meridionale. In una stagione in cui è morta la passione per lo studio e per la formazione storicistica e in cui assistiamo a una fuga spaventosa di giovani, ho pensato di riproporre al mondo alcuni momenti del passato in cui il Mezzogiorno è stato straordinario e vincente. Ho fatto raccontare la vita dell’imperatore svevo dal suo cuoco personale, una figura che nel passato era fondamentale nella vita di un monarca. Era qualcuno che viveva affianco ai re mattina mezzogiorno e sera. Di qui l’idea di un cuoco».

Nelle tante avventure che hanno legato i due protagonisti di questo romanzo si delinea un affresco dei luoghi in cui questa storia si dipana, la Basilicata con la natia Melfi, la Sicilia con la reggia di Palermo, ma anche la Puglia, con il primo tentativo di integrazione interreligiosa e politica. Non ultima la descrizione di cibi e rimedi salutistici dell’epoca. 

«Ho raccontato attraverso Federico le regioni che ho conosciuto e che ho amato e la cultura gastronomica, le ricette e la quotidianità. Ovviamente mi hanno aiutato i piatti poveri del sud e tutto ciò che potrebbe essere nato prima della scoperta dell’America e prima della società industriale. È nato un romanzo di cui sono soddisfatto e che ha avuto una sua fortuna»

Tra mille avventure e disgrazie storiche si intravede un ritratto inedito di Federico II Hohenstaufen, della sua variegata personalità ricca di curiosità intellettuale. Viene fuori il volto di un imperatore paladino del diritto e della scienza, in un secolo buio, un sostenitore della politica contro la violenza. Il promotore del progetto di un’Europa unita, e di un Mediterraneo dei saperi con una divisione tra il potere temporale e spirituale. Sembra il progetto di un futuro possibile per l’oggi, mentre tutto accadeva otto secoli fa.

«È tutto vero, hai colto nel segno. Soprattutto ho amato di Federico l’aver privilegiato il Diritto, la cultura letteraria e gli eventi fondati sulla retorica e non sulle armi. Federico è il primo imperatore che entra in Gerusalemme senza spargere una goccia di sangue. Uno che promuove il dialogo tra arabi e cristiani e che vede nella natura delle regole da interpretare. Non dimentichiamo infatti il suo De arte venandi cum avibus e nel diritto le Costituzioni di Melfi, con cui il Medioevo attraversa finalmente le porte della modernità». 

Da lucano che ha scelto di vivere in Puglia, mi vuoi raccontare 5 cose che vorresti cambiare in questa regione e 5 cose per cui vale la pena di rimanere…  

«È complicato rispondere a questa domanda perché la Puglia è variegata e davvero vale il plurale; le Puglie. Potrei dire che incentiverei la vita culturale della Capitanata, del Brindisino e del Tarantino, che vorrei una vita politica meno affaristica, una università meno corrotta, promuovere il blocco della mafia, il restauro di molti centri storici, mi duole l’assenza di mecenatismo.

Per il resto amo la concretezza dei pugliesi, la cucina, le bellezze paesaggistiche e architettoniche, la laboriosità, la vivacità di un mondo che ama l’allegria, amo le sagre e le feste tradizionali e ovviamente la cornice immensa e straordinaria del mare».  

di Damiano Ventrelli

Il mistero del tempo – Mons. Vito Angiuli

Desidero rivolgere un caro saluto al nuovo direttore della rivista “In Puglia tutto l’anno”, Damiano Ventrelli, con l’augurio di continuare l’opera magistralmente condotta fin qui dalla direttrice Ilaria Lia e l’auspicio di un nuovo impulso nella diffusione della conoscenza nel mondo delle molteplici ricchezze della nostra bella terra di Puglia.

Sul muro di uno storico ristorante di Santa Maria di Leuca, è riportata una frase dal sapore epico: «Gli dei non sottrarranno agli uomini il tempo passato a pescare». Questa espressione, tradotta da una tavoletta Assira del 2000 a.C., mi sembra una buona introduzione al tema generale di questo numero della rivista che intende soffermarsi sul valore del tempo.

La sapienza antica e moderna veicola significati validi anche per noi, sottomessi all’angoscia della frenesia del fare e all’ineluttabilità del tempo che scorre e non basta mai. Credo che tre immagini ci possono aiutare a fare luce su un concetto per sé difficile da capire: il bambino, la rosa e il vento.

«Il tempo diceva Eraclito – è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno». L’immagine criptica del filosofo greco associa il tempo alla leggerezza del gioco, alla casualità di un lancio di dadi, all’inesorabilità e al mistero del suo svolgimento. I greci, infatti, evocavano questo significato attraverso tre diversi termini: chronos, il tempo nella sua sequenza cronologica e quantitativa; aiòn, il tempo come dimensione della coscienza irriducibile a qualsiasi logica sommativa e lineare; kairòs, il tempo nella sua valenza qualitativa come occasione, momento propizio e favorevole da cogliere nella sua veloce e istantanea opportunità, per evitare il rischio di perdere occasioni preziose che non torneranno più. Gli stessi greci affiancavano poi alla concezione lineare del tempo, una visione di tipo ciclico, dove ogni cosa è impigliata nell’eterno ritorno dell’identico. Sempre Eraclito afferma l’unità dei contrari che si traduce in una vicenda di eterno mutamento e ritorno.

Questa visione ciclica ricompare in Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche nell’immagine del bambino, in quanto terzo esito della trasformazione dello spirito: da cammello, lo spirito diventa leone, e infine il leone si tramuta nel fanciullo. Viene così adombrato un tempo senza tempo, una ruota che gira da sé, simbolo della libera creazione di valori, non però con l’intenzione di crearne di nuovi, ma per il puro piacere di giocare. Il tempo è come il serpente che si morde la coda. La staticità di questa immagine, cela in realtà una grande mobilità indicando l’energia dell’universo che si usura e rinasce in un perenne movimento di nascita e di annientamento e rinascita.

La seconda immagine del tempo è quella raffigurata dalla rosa. Essa rappresenta il desiderio di futuro, inteso non solo come il “tempo che sarà” o è destinato a essere, grazie al suo legame con il passato, ma soprattutto come il “tempo che resta”, assunto in quanto balsamo efficace contro lo smarrimento del presente. Tuttavia la pienezza ricercata e desiderata resterà sempre “a venire”, come «l’ardente e cieca rosa che non canto, / la rosa irraggiungibile» [Jorge Luis Borges, Poesia, La rosa (A Judith Machado)].

L’immagine della rosa ritorna nell’epitaffio che il poeta Rainer Maria Rilke volle che si apponesse sulla sua tomba: «Rosa, contraddizione pura! Voglia d’essere il sonno di nessuno sotto sì tante palpebre». Il tempo della vita somiglia a una rosa che vuol essere dimenticata e non coinvolta nel commercio e negli affanni dei mortali. Ma in quanto apposta su una epigrafe esprime anche il desiderio di essere ricordata. Il tempo contiene in sé una “contraddizione pura”: contiene, infatti, un doppio legame che respinge e attrae, invita a passar via e costringe a restare, rifiuta gli usi e supplica una cura.

La terza immagine è quella del vento che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va» (Gv 3,8). Non si sa, infatti da dove il tempo si origina e nemmeno si conosce la sua direzione. Si sa, però, che certamente viene. A questa caratteristica di inconoscibilità fa riferimento sant’Agostino quando afferma: «Se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so» (Confessioni, XI, 14, 17). Il tempo viene come “dono”. Nessuno può dirsi padrone. È una realtà che riceviamo, ma che non possiamo controllare. Per quanto lo desideriamo, non saremo mai capaci di dilatare o fermare un solo istante. Il tempo ci sovrasta e, pertanto, la sua cognizione si avvicina al mistero.

Mi sembra che oggi si viva una sorta di sbilanciamento nella considerazione del tempo e che si tenda a dare maggiore importanza alla dimensione quantitativa piuttosto che a quella qualitativa. Sembra che non abbiamo mai abbastanza tempo per fare quanto desideriamo, mentre occorrerebbe dare valore a quello che facciamo per trarne il maggior frutto possibile.

Bisogna trovare un equilibrio tra le due tendenze: da una parte, è sommamente comprensibile il desiderio di gustare quello che facciamo, dall’altra è altrettanto necessario dedicare il giusto tempo per compiere quanto desideriamo. Non dovremmo essere costretti a scegliere tra quantità e qualità del tempo, ma dovremmo saperle coniugare insieme.

Oggi va molto di moda il concetto di “turismo lento” che cerca proprio di armonizzare questi due aspetti del tempo. Da un lato richiede una maggiore quantità di tempo da dedicare agli spostamenti, al cammino, alle soste; dall’altro favorisce il gusto dell’incontro, della convivialità, della conoscenza di territori e soprattutto di persone con cui condividere le proprie storie, tradizioni, culture, religiosità.

Non è un caso che in una società che ha fatto della “corsa contro il tempo” la dimensione del proprio essere, si vada affermando l’esigenza di fermarsi, di rallentare, per dare spazio alla contemplazione, all’esperienza estatica e al gusto estetico, come esperienze di appagamento dell’anima.

In questo senso, i nostri territori hanno molto da offrire, sia per una esigenza pratica legata alla carenza delle infrastrutture, sia per una intenzionale organizzazione dell’esperienza turistica sfociata nella proposta di numerosi “cammini”, religiosi e laici. Si ha così la possibilità di apprezzare colori, profumi, sapori, volti, natura, arte, da cui nascono emozioni che si imprimono nel cuore e che difficilmente si dimenticano.

Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca 

 

Gioia Catamo – Editoriale dicembre 2023

La vita che diventa sempre più frenetica e la limitata disponibilità di tempo da dedicare contemporaneamente a famiglia e lavoro fanno sì che passi in secondo piano la salute. 

Continua l’ambizioso progetto di conciliare la cura del corpo con il nostro mare, gli itinerari del gusto, dell’arte e dello sport, in Puglia tutto l’anno, soddisfacendo le esigenze di tutta la famiglia. L’intento è quello di coniugare i molteplici momenti che contribuiscono al benessere, ma soprattutto alla cura di noi stessi, nell’unico momento possibile: le vacanze, valorizzando le ricchezze del nostro Salento. Una vacanza per esperienze culturali, sportive e gastronomiche, offrendo  al contempo un’assistenza medica specialistica e specifici trattamenti riabilitativi per le diverse patologie o al solo fine di un recupero psico-fisico, mettendo a disposizione ambienti che concilino divertimento e riabilitazione, fornendo l’adeguata accessibilità alle persone con disabilità, dagli alloggi alla spiaggia: è questo il nostro ambizioso progetto.

L’anno che sta per finire non ci ha permesso di raggiungere i risultati auspicati e da tempo perseguiti. Tante le difficoltà: il post-Covid, la guerra in Ucraina e poi in Israele e Palestina, in Occidente e in Oriente: un mondo travagliato. Pensavamo di cambiarlo in meglio. Non ci siamo riusciti. Ma non pensiamo di arrenderci. Pensiamo sia necessario ridefinire l’orizzonte. E ripartire con una visione globale, equa, coinvolgente, lungimirante, cercando di garantire serenità a chi ha dato e speranza a chi sta prendendo in mano la barra del timone. 

Il Tema  di questo nuovo numero  di In Puglia Tutto l’Anno, da tutti condiviso è il TEMPO: Il tempo vissuto, il tempo perso, il tempo dell’attesa, il tempo della speranza. Abbiamo coinvolto i nostri specialIsti e abbiamo cercato di presentarlo nei vari aspetti. In copertina l’ulivo millenario,  simbolo del tempo in Puglia, attaccato dalla Xylella e sacrificato dall’uomo, catturato da uno scatto  opportuno in coincidenza di un meraviglioso arcobaleno apparso nei nostri cieli qualche giorno fa, segno di disperazione e nello stesso tempo di speranza, sembra voglia implorare  un aiuto dal cielo; e poi gli scatti magici: in copertina dell’inserto,  dall’estremo sud del Salento, una incantevole visione delle montagne dell’Albania imbiancate da poco e separate da un lembo di mare che ratifica la speranza di un passaggio da una sponda all’altra senza patemi, né rischi e  né vittime… E poi la rigenerazione  delle nuove piante del retrocopertina… E’ l’auspicio per il nuovo anno: un 2024 di serenità e rinascita. E riproponiamo la lettura del libro Pietro Paolo da Pioppi sul Po, inventore della P, con amici e parenti, e la scrittura di un racconto con la maggior parte delle parole con la lettera P. Una nostra iniziativa sociale e culturale, rivolta a scuole e famiglie, a cui stanno aderendo in tanti nella nostra e in altre regioni, con un premio finale: una vacanza in Puglia. Non ci arrendiamo!!!

Segnali d’infelicità diffusa

In questi giorni le nostre città sono illuminate a festa e i commercianti fanno a gara per rendere più luminosi e accattivanti vetrine e negozi. A questo sfarzo non si sottraggono neanche i piccoli paesi, spesso in competizione fra loro, per mostrare la bellezza di borghi e stradine e invitare alla festa per la nascita di Gesù Cristo o semplicemente per salutare la fine di un anno e augurare che il prossimo sia migliore di quello passato. Ma non tutti saranno felici in questi giorni di festa. Non lo saranno, in Italia, 6 milioni di persone al di sopra dei 15 anni (cioè il 12% della popolazione) che vivono in una condizione di povertà alimentare. Secondo l’Istat, il 7,5 % delle famiglie è in condizioni di povertà assoluta; almeno 200.000 tra bambini e ragazzi non sono in grado di fare un pasto completo al giorno. Non saranno felici i bambini ucraini che da più di un anno vivono il dramma della guerra, dell’occupazione dei luoghi in cui sono nati e non hanno più una casa. Non saranno felici i piccoli di Israele, sottratti agli affetti famigliari in maniera barbara da spietati terroristi, né lo saranno i bambini di Palestina, colpevoli solo di essere nati in una terra contesa mentre l’esercito di Israele sta distruggendo le loro famiglie e le loro città. In questi territori di guerra, il numero delle vittime aumenta di giorno in giorno e quando i numeri si sostituiscono alle storie personali allora il rischio è che, fra poco, se ne parlerà sempre meno. Prende forma una sorta di assuefazione alla violenza della guerra, un’assuefazione a cui i mercanti di armi ci hanno abituato con le notizie quotidiane di morte e violenza. Qualcuno si domanda, nella roulette della vita, “potrebbe prima o poi toccare a me, la pallina potrebbe fermarsi vicino al mio numero”. E no, non siamo pronti ad affrontare questi pericoli e non lo siamo perché, da più di 75 anni il nostro Paese non conosce più la guerra. Nella nostra costituzione repubblicana, all’art. 11 è scritto che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

Ha scritto Gino Strada il fondatore di Emergency: “Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra”.

L’11 maggio di quest’anno Papa Francesco ha detto: “Mai la guerra ha dato sollievo alla vita degli esseri umani, mai ha saputo guidare il loro cammino nella storia, né è riuscita a risolvere i conflitti e contrapposizioni emersi nel loro agire”.

Tornando al nostro Paese, non ci può essere felicità fino a quando ci saranno i dati drammatici della feroce violenza sulle donne. I femminicidi continuano a crescere in maniera esponenziale, evidenziando un fenomeno gravissimo. Restiamo attoniti e disgustati dal perpetrarsi di questa violenza, che secondo psicologi e commentatori è l’effetto prodotto dalla cultura patriarcale.

Cultura? Ma quale cultura può accettare che vi sia una differenza economica e di opportunità sociali fra uomo e donna? Quale cultura può pensare che vi sia in una coppia il senso di proprietà dell’uno sull’altra? Quali sono i riferimenti culturali di chi violenta o distrugge la vita della propria compagna? Occorre una riflessione su questi temi. Dobbiamo fare in modo che il senso di impotenza percepito, che indurrebbe a chiuderci nella nostra dimensione famigliare nel tentativo di dimenticare, non ci consenta di accettare questo dramma quotidiano come se fosse inevitabile.

Cerchiamo di essere felici in questo periodo, ma lavoriamo, ognuno secondo le proprie possibilità, perché questa felicità si possa condividere con quanti non riescono ad averla nemmeno nei giorni di festa.

Questo numero è dedicato a considerazioni sul tempo e la lentezza. Ci sono tanti contributi su questo argomento che ci consentono di approfondire questi temi intimamente connessi. Vi invito a cercare nel nostro sommario l’articolo che più vi interessa. Ma consentitemi di ringraziare tutti i collaboratori della nostra rivista che si sta ritagliando uno spazio fra le testate che meglio raccontano la Puglia, non soltanto sotto l’aspetto turistico, ma anche sotto quello culturale. Un grazie particolare va a Maria Rosaria De Lumè e a Mario Blasi: senza la loro cura e  il loro prezioso contributo questa rivista non potrebbe andare in stampa.

Damiano Ventrelli


Direttore caro, condivido tutto. Ma estenderei i ringraziamenti a te che hai dedicato tante ore delle tue giornate senza risparmiarti nei giorni di festa e a tutta la redazione e ai collaboratori che hanno condiviso con generosità e straordinaria passione questo nostro Progetto. E anche agli sponsor e a tutti i nostri ormai affezionati lettori e abbonati che condividono e ci stanno sostenendo. Che sia un Natale sereno e un Anno migliore. 

Lucio Catamo (coordinatore editoriale)

A tavola con Mina Micunco

Se cercate di ricordare le ricette della nostra tradizione gastronomica e non avete un riferimento certo, ecco fresco di stampa il libro di Mina Micunco “PugliaMina – armonie di sapori della mia terra”: un testo che è in grado di guidarvi passo dopo passo nei segreti delle preparazioni più rinomate.  Il libro, edito da Florestano/Bari, è il terzo dell’autrice barese e segue il percorso di esplorazione della nostra gastronomiadopo “Emozioni in cucina” (Ed.  Aliante) e “Le ricette della salute” (Ed.Mario Adda). Già dalle prime pagine di questo bel volume emerge la passione per la cucina, per i sapori e i colori della Puglia dell’autrice. Nelle oltre 300 pagine, riccamente illustrate, Mina Micunco non solo ripropone ricette tradizionali ma le reinventa e le fotografa personalmente. Piatti semplici come le ”zucchine alla poverella” o i ”peperoni friggitelli con il pomodoro” o più complessi come i ”cardungedde in brodo di agnello” o le “cartellate” non avranno più segreti.  Da queste

Zucchine alla poverella

pagine emerge l’obiettivo di “evocare storie che si intrecciano, come in una magia con gli ingredienti, nel tentativo di educare i lettori al gusto del bello e al bello del gusto, alle immagini che raccontano quanto e più delle parole. “PugliaMina – armonie di sapori della mia terra” non si può considerare, però, solo un ricettario perché attorno ad ogni singolo piatto si interseca la storia e la cultura della Puglia con la sua evoluzione storica e sociale. La nostra gastronomia regionale viene riproposta sia nella sua tradizione sia nelle contaminazioni e innovazioni che stanno trovando sempre più appassionati seguaci. Prodotti e preparazioni che si inseriscono, fra l’altro a pieno titolo, nei criteri attualissimi della dieta mediterranea. Il libro è anche un atlante illustrato dei luoghi più belli della Puglia, dalla Capitanata alla Murgia per approdare, attraversando il tavoliere lungo la costa a nord e a sud del capoluogo e addentrarsi sino alla valle d’Itria raggiungendo poi l’arco Jonico salentino. Come scrive lo chef gastronomo Renato Morisco nella prefazione: “il cibo è cultura quando si produce, perché l’essere umano non utilizza ciò che trova in natura, come fanno tutte le altre specie animali, ma partendo dai prodotti base della sua alimentazione li trasforma attraverso la sua capacità di elaborarli in deliziosi piatti per il suo palato. Tant’è che veniva definito già nell’antichità da medici e filosolfi – Res non naturalis -”.  Mina Micunco nell’incipit di questo utile volume così definisce la nostra tradizione gastronomica: “Povera ma ricca. In un ossimoro l’essenza della cucina pugliese. Spesso povera di ingredienti, ma sempre ricca di gusto. Quello dell’enogastronomia è uno degli asset fondamentali che hanno contribuito a rendere appetibile il brand Puglia nel mondo, un biglietto da visita che

Mina Micunco e Antonio De Caro

incuriosisce e richiama turisti e amanti del cibo da ogni dove. Dai tesori del mare ai frutti della terra, la nostra cucina regionale può vantare prodotti che rendono magiche le pietanze”.  Fra le tante ricette proposte però ce ne sono due particolarmente interessanti perché riguardano due cibi identitari della città di Bari: la focaccia e la tiella di patate, riso e cozze. Mina Micunco, per niente intimorita dalle possibili critiche dei sostenitori della tradizione, propone la rivisitazione di queste due specialità. La focaccia barese da “fcazz”, come viene chiamata in dialetto, diventa “fcozz”, dato che nell’impasto e in superficie insieme a tutti gli ingredienti della tradizione vengono aggiunte delle cozze. Se questa proposta fosse adottata dai tanti panifici della città potrebbe diventare un’altra specialità del paniere pugliese.

Polpe-tiella, patate, riso e cozze in scrigno dorato.

La tiella di patate riso e cozze, invece, si trasforma in “polpettiella”, una sorta di arancini a base del piatto forse più amato dai baresi e non solo. Per chi volesse cimentarsi in queste due novità potrà trovare tutti i segreti per la preparazione in questo originale testo. Un libro che è piaciuto anche al primo cittadino del capoluogo regionale Antonio De Caro, che il 5 dicembre di quest’anno, in occasione della presentazione del volume nella sala consiliare della città metropolitana, ha voluto donare una targa all’autrice in cui viene definita “testimone e divulgatrice delle tradizioni e della cultura enogastronomica della nostra terra”.

di Damiano Ventrelli

Convegno a Lecce “La cartapesta, arte antica del Sud”

LA CARTAPESTA, ARTE ANTICA DEL SUD

CONVEGNO DOMANI AL MUSEO D’ARTE SACRA DI PIAZZA DUOMO

Al termine dell’appuntamento la presentazione di un sito dedicato


Il 19 dicembre, il Museo d’arte sacra di Lecce ospita la seconda giornata del convegno internazionale di studi “La cartapesta in Puglia, nel resto d’Italia e in Europa meridionale dal Settecento al Novecento. Arte, devozione e conservazione”, oggi in svolgimento presso il Rettorato dell’Università del Salento. Tocca infatti al Museo d’arte sacra al primo piano del Palazzo dell’Antico Seminario, in piazza Duomo, ospitare domani (dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18) la seconda giornata dell’appuntamento, strutturato in tre sessioni tematiche per ogni giornata e arricchito dalla partecipazione di oltre 30 relatori provenienti da più realtà geografiche e istituzionali italiane pugliesi (Università, Soprintendenze, musei, Uffici diocesani dei beni culturali, associazioni scientifico-culturali).  

C’è grande inoltre attesa per la presentazione del sito https://www.lapugliadellacartapesta.itatlante digitale dei principali manufatti storici pugliesi legati ai riti processionali e dei cartapestai, attuali e del passato; documento realizzato non solo per scopi scientifici, ma anche per supportare e incrementare il turismo artistico-devozionale in Puglia e valorizzare le eccellenze artigianali del territorio.  

Per l’occasione, la sala grande del Museo diventa dunque auditorium che accoglierà le relazioni dei partecipanti alle tre sessioni previste nel corso della giornata.  La prima, coordinata dall’architetto Mario Cazzato, tratterà della diffusione in Puglia della cartapesta leccese; la seconda, condotta dalla dottoressa Caterina Ragusa, più diffusamente della cartapesta nel Salento; infine, la terza e ultima sessione, presieduta dalla professoressa Regina Poso, discuterà la tecnica, il restauro e la conservazione della cartapesta con esempi e testimonianze e uno sguardo internazionale. Le conclusioni sono riservate alla presentazione dell’atlante online della cartapesta, sito che ha lo scopo di mappare le principali opere in cartapesta e schedarle dal punto di vista artistico, storico e antropologico, collegando così le diverse opere a tante e diverse storie di artisti e popolo.

Strettamente legati a questo tema è proprio il Museo d’Arte Sacra che custodisce alcuni importanti simulacri in cartapesta, testimoni silenziosi della seconda giornata di lavori, tra cui la celebre Giuditta di Raffaele Caretta (1898). Apriranno i lavori della giornata l’Arcivescovo di Lecce, Michele Seccia, il presidente della Fondazione “Splendor Fidei”  monsignor Antonio Montinaro e il presidente di ArtWork, Paolo Babbo. L’appuntamento si svolge con il patrocinio, tra gli altri, dell’Arcidiocesi di Lecce e della Fondazione “Splendor Fidei”, il sostegno di ArtWork e la media partnership di Portalecce.  

“Il convegno segna un punto fondamentale nel progetto di ricerca territoriale svolto nel corso di questi ultimi tre anni, permettendo di riprendere gli studi sulla cartapesta salentina e avviare una nuova sinergia tra i docenti dell’Università del Salento e le istituzioni territoriali, cercando adesso e in futuro di tutelare, valorizzare e promuovere una delle più affascinanti peculiarità, dal punto di vista artistico-culturale, artigianale e devozionale, della Puglia e della città di Lecce”,  spiegano i curatori Letizia Gaeta e Nicola Cleopazzo, rispettivamente docente e ricercatore del Dipartimento Beni culturali dell’Università del Salento. 

La statuaria in cartapesta dal Settecento al Novecento, legata alle celebri processioni pugliesi della Settimana Santa (i Misteri) o dei Santi Patroni, le rinomate botteghe dei cartapestai salentini di Otto e Novecento, macchine processionali e statue poco note di altri territori regionali (tutto il Sud Italia passando per l’Emilia Romagna, la Toscana, la Lombardia, fino al Piemonte), la cartapesta come materiale espressivo e originale adoperato da famosi artisti contemporanei, le tecniche moderne del restauro sulle statue in cartapesta, interviste ai maestri odierni della cartapesta: sono solo alcuni dei temi oggetto di intervento nel corso del convegno.  

 

Bari, un anonimo frammento di periferia diventa Corte Don Bosco

Il rammendo della periferia interpretato da quattro giovani architetti del Poliba. Il plauso del Presidente, Mario Draghi che ha incontrato al Senato il team G124. Nel tardo pomeriggio, di ieri 18 dicembre, nella sede del Municipio III di Bari San Paolo la presentazione e il cronoprogramma. A gennaio 2024 apertura cantiere. Inaugurazione, estate 2024. Costo operazione, 1 milione di euro


 Bari, 19 dicembre 2023 Il Progetto “G124” è un progetto voluto e sostenuto economicamente (con lo stipendio di parlamentare) da Renzo Piano, architetto e Senatore a vita.

18 dicembre. Municipio III. presentazione opera con il Sindaco De Caro

Il progetto, dedicato alle periferie e al loro recupero mediante un’opera di “rammendo” con il resto delle città coinvolge giovani architetti (con meno di 35 anni) sostenuti annualmente con borse di studio del senatore, che selezionati da bandi, provengono da università prescelte dallo stesso Renzo Piano. A loro si uniscono tutor, senza retribuzione (architetti, ingegneri, sociologi e psicologi), degli atenei coinvolti con funzioni di coordinamento e supporto ai giovani progettisti.

Nell’elenco dei Progetti G124 in corso d’opera figurano: Bari-SanPaolo (Politecnico di Bari), Rovigo-Commenda Est (Università di Padova), Napoli-rione Sanità (Università Federico II). Il progetto pugliese, dedicato al quartiere San Paolo, coinvolge il Poliba e il Comune di Bari, legati da apposita convenzione  sottoscritta il 6 maggio 2022.

Presentazione del modello in scala della corte urbana Don Bosco al quartiere San Paolo di Bari

Il Poliba, affiliato al progetto G124, con compito di “cerniera” tra il Progetto di Renzo Piano e il Comune cittadino, previo confronto con l’amministrazione comunale, ha avviato nel marzo 2022 lo studio su un’area selezionata del quartiere San Paolo, nei pressi di via Altamura, denominata, “corte Don Bosco” (dal nome della vicina parrocchia). Si tratta di un vuoto urbano di 7.237 mq, baricentrico, di forma triangolare per niente frequentato dagli abitanti, circoscritto da tre edifici che lo chiudono su tre lati lasciando liberi i vertici che assumono il ruolo di soglie di accesso.

Seguendo le raccomandazioni di Renzo Piano quattro giovani architetti pugliesi, laureatesi al Politecnico: Tiziano De Venuto, Ezio Melchiorre, Rosa Piepoli, Giuseppe Tupputi (tutor proff. Carlo Moccia e Francesco Defilippis del Dipartimento di Architettura, Costruzione, Design (ArCoD) del Poliba) sono arrivati ad un’idea progettuale partecipata, interpretando la figura consigliata da Piano, quella dell’architetto “condotto” che, come quella del medico, ha ascoltato la gente per trovare ispirazione per una ipotesi progettuale che contenga, economicità, verde, sostenibilità, e che soprattutto, diventi contenitore di socializzazione, quale prolungamento percepito della propria casa all’esterno, così come le antiche corti dei centri storici.

Modello in scala

Dal 2022 e per tutto il 2023, trimestralmente, si sono susseguiti, incontri online e in presenza (Genova presso la fondazione Renzo Piano, Roma, presso il Senato) sullo sviluppo del progetto per Bari. Ultimo degli incontri di progetto con Renzo Piano è avvenuto lo scorso 29 novembre a Roma, presso Palazzo Giustignani dove il senatore nel suo studio ha incontrato i tre gruppi di ricerca di Bari, Napoli e Padova per aggiornamenti e conclusioni progettuali.

Mario Draghi. Con sorpresa di tutti e con interesse, è intervenuto con Renzo Piano anche Mario Draghi. Al Presidente, Draghi i tutor hanno presentato i relativi tre progetti. E il Presidente, in risposta, non ha escluso una sua presenza in occasione dell’inaugurazione ad uno di essi.

18 dicembre. Presentazione pubblica del progetto Corte Don Bosco

A seguito dell’incontro romano un’altra tappa concreta, fondamentale, è stata compiuta lo scorso 7 dicembre dal Comune di Bari. Su proposta dell’assessore ai Lavori pubblici, Giuseppe Galasso, la giunta ha approvato il progetto esecutivo G124 per Bari San Paolo con relativo finanziamento. Si tratta di 1 milione di Euro (fondi Pon Metro 2014/20) da ripartire equamente secondo due lotti: lotto 1, G124 Renzo Piano, 500 mila euro; lotto 2, Comune di Bari, infrastrutture, 500 mila euro.

L’importante passo in avanti ha favorito la presentazione pubblica del progetto partecipato con la cittadinanza. L’incontro è avvenuto nel tardo pomeriggio di ieri 18 dicembre, nella sede del Municipio III, presso il quartiere San Paolo.

Sono intervenuti: il sindaco, Antonio Decaro, il presidente di Municipio III, Nicola Schingaro; l’assessore ai lavori pubblici, Giuseppe Galasso; l’intero gruppo di ricerca del Poliba composto dagli architetti di Renzo Piano, Tiziano De Venuto, Ezio Melchiorre, Rosa Piepoli, Giuseppe Tupputi e i tutor, Carlo Moccia, Franco Defilippis. Inoltre, Alessandro Cariello e Vitandrea Marzano dell’amministrazione comunale. Parole d’elogio sono state espresse dal Sindaco Decaro. “L’iniziativa costituisce un esempio da replicare in altre aree periferiche della città” – ha detto.

San Paolo Bari. Area d’intervento. Diventerà Corte Don Bosco

Moccia e Defilippis hanno ripercorso le tappe del Progetto G124 con Renzo Piano. I giovani progettisti invece hanno spiegato i contenuti tecnici. Il progetto propone di trasformare questo cortile dando vita ad un grande tetto verde, definito dalla presenza di 110 alberi, tra allori e lecci, ad integrazione dei 17 alberi esistenti. Al centro della corte, troverà posto uno spazio collettivo dedicato alle attività sociali. Al tema della griglia arborea si affiancherà quello della modellazione del suolo, con l’integrazione delle sedute e dell’illuminazione, oltre che con la sostituzione della pavimentazione in favore di terra stabilizzata drenante. “L’intervento si fonda su due elementi – dicono gli architetti: la corte alberata nonché spazio triangolare fulcro della nostra progettazione e il margine costituito dagli elementi che gravitano attorno alla suddetta ossia i marciapiedi, la strada e le soglie.