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Dalla natura al lusso

I paesaggi della Puglia oltre che dagli ulivi sono caratterizzati anche dalle piante di fico d’india, con le loro caratteristiche pale spinose e i colorati frutti molto dolci e dall’ottimo sapore, pianta molto usata in gastronomia.

Ma può questa pianta diventare un tessuto per la moda di lusso?

È questa la domanda che si è posto il gioielliere e fashion designer Michelangelo Brocca, che attingendo a quello che la sua terra natia gli offriva ha creato e brevettato un tessuto organico multistrato utilizzando proprio le fibre del fico d’india.

Michelangelo Brocca

Classe 1975 Michelangelo è da sempre innamorato dell’arte e del bello, e sin da piccolo osserva e affianca il padre scultore e così si appassiona sempre più al “fare”, al creare e all’artigianato.

Dopo gli studi al Liceo scientifico si iscrive all’accademia di belle arti settore metalli, per poi diventare orefice. Finiti gli studi inizia sin da subito a lavorare presso un laboratorio orafo come incastonatore, lavoro che lo formerà nel carattere e nello spirito, rendendolo molto meticoloso e paziente, dedito ai dettagli e alla cura del bello. Però sente che quella non è la sua vera strada, è soddisfatto ma non appagato e dopo aver rifiutato un importante incarico per un famoso brand di oreficeria di lusso italiana, inizia a guardarsi intorno, osserva la sua terra che ama e inizia così a cercare quel quid che possa far uscire il demone buono, l’eudemonia come la definisce lui, che cresce sempre più dentro il suo cuore.

Un giorno nella bottega di uno scalpellino nota un crocifisso in pietra leccese montato su di una pala di fico d’india trattata e ha così una intuizione, decide di sperimentare con quella pianta.

Dopo vari tentativi nasce il suo tessuto organico, un pregiato multistrato in nappa di agnello e fibra di fico d’india. Una volta creato il materiale decide di combinarlo all’oreficeria per creare uno tra gli accessori più amati dalle donne, la borsa. Quindi torna a studiare e diventa modellista di accessori e alla fine degli studi conosce Ambrogio Malinversi, che diventa il suo mentore e collaboratore per la creazione delle sue borse. Produce così una serie di prototipi che vengono presentati nelle più importanti fiere del settore in Italia, Assocalzature, MICAM, Bologna design week, Catanzaro design week, MIPEL, ma anche a Parigi e Shangai, ottenendo il consenso di esperti del settore e del pubblico. Mario Nanni paragona le grinzature tipiche del tessuto creato da Michelangelo ai Cretti di Burri, dicendo che sembrano complementari, uno il negativo e positivo dell’altro e come i Cretti unici. Questo lo convince sempre di più che è sulla strada giusta!

Crea la sua prima collezione la “SWANLINE” dove la scelta del cigno è ispirata dal mito di Leda. Come Zeus si tramuta in un bellissimo cigno per conquistare la bella Leda regina di Sparta, così, dice Michelangelo, vuole conquistare le donne con la bellezza delle sue borse uniche e preziose. Un accessorio dalla forma semplice impreziosito da dettagli gioiello a forma di cigno e caratterizzato dall’unicità del materiale che in fase di lavorazione, come la natura da cui trae origine, crea grinze uniche impossibili da replicare, dettaglio in più che rende ogni borsa un pezzo unico da sfoggiare in qualsiasi occasione. Il suo forte legame e amore per la sua terra lo ha portato ad aprire showroom e laboratorio in via Ospedale Maria Grazia Carrozzini al civico 19 nel suo paese natale Soleto nel cuore del Salento perché il sogno di Michelangelo è quello di non fermarsi solo alle borse, ma di spaziare in tutto il settore moda e nel design di Lusso per apportare al Made in Italy, così apprezzato in tutto il mondo, il suo contributo aggiungendo il Made in Puglia, orgoglio della sua terra e dell’artigianato italiano.

di Vinicio Antonio Attanasi

Non c’è Bene ad Otranto

Potrebbe essere una allusione al difficile momento che Otranto sta attraversando, con gli amministratori sotto le forche caudine della magistratura, invece è il titolo di un libro di Elio Paiano su Carmelo Bene.

Occuparsi di Carmelo Bene mi ha sempre procurato cautela, accortezza, ponderazione, una certa sensazione di disagio, insomma, consapevole di avere a che fare con un campo minato. Averlo dovuto studiare agli inizi del mio percorso accademico al DAMS di Bologna come uno dei rappresentanti della seconda avanguardia teatrale, aver visto diversi suoi spettacoli ed essere rimasto stupefatto dalla visione di “Hommelette for Hamlet” non hanno attutito la riverenza, il timore e la convinzione che qualsiasi forma di trattamento della sua opera, letteraria, poetica, teatrale, musicale, cinematografica, televisiva e di tutte le altre forme d’arte di cui si è occupato, fosse superficiale, inadeguata, non pertinente.

Ma c’è un ma. La lettura di “Non c’è Bene ad Otranto”, un libello a cura di Elio Paiano, letto in un paio d’ore di divertimento e, non lo nascondo, esplosive risate. Nessuna intenzione a sminuire il lavoro di Paiano, anzi esso è estremamente apprezzabile in quanto in poche pagine riesce a tracciare un profilo inedito, insolito, dissacrante del rapporto tra una Otranto pettegola, ciarlona, linguacciuta e l’Elevato.

Riassumo, in breve e parzialmente, l’aneddotica descritta da Paiano come l’episodio dell’invito violento a sloggiare fatto al turista tedesco con il catamarano giallo attraccato al porto che gli distrugge il bel vedere dalla sua finestra sui bastioni dei Pelasgi.

La richiesta di finanziamento all’amministrazione comunale del progetto “Un appello ai popoli del mare” che fosse udibile a tutte le navi, i mercantili, le vele, le imbarcazioni ed a qualsiasi natante in transito nel Canale d’Otranto, tra Adriatico e Ionio, in grado di arrivare ai popoli del mare, che lo ascoltino navigando, dal costo di un miliardo.

La processione della Madonna dell’Altomare che gli passa sotto casa e lui a declamare sul tetto brani di “Sono apparso alla Madonna” tirandosi dietro tutti gli improperi e maledizioni dei fedeli otrantini a cui urlava; “Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna […] Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu […] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: un miracolo è la trasparenza”. Solo per miracolo non venne linciato dai fedeli che si stavano arrampicando uno sull’altro per raggiungerlo sul tetto.

Gli scanzonati otrantini che accertatisi della sua presenza nella dimora sui Bastioni si divertivano a suonare il campanello provocando una veemente reazione che soddisfaceva la loro goliardia.

La casa allagata in pieno agosto per la rottura di un tubo, con tutti gli idraulici in ferie e l’unico volontario, Roberto detto il Moro, che tappa il tubo con degli stracci e tenendolo stretto con la mano chiede una buona bottiglia per alleviare la noia aspettando per ore il tubista e ad operazione conclusa il maestro lo ringrazia con un sonoro “Grazie Roberto, l’uomo più intelligente di Otranto!”

È l’episodio dell’Immemoriale, però, che mi porta indietro nel tempo, quando preparando la mia tesi di Laurea, verso la fine degli anni ’70, me ne occupai a partire da una sua brillante intervista dell’allora direttore del Quotidiano Antonio Maglio, ma su questo argomento mi ripropongo di ritornarci con un articolo dedicato. Qui, però l’argomentare di Paiano diventa serio e con qualche punta di rammarico. L’Immemoriale, presentato da Carmelo Bene in una conferenza stampa, doveva essere il luogo, la sua casa otrantina sui Bastioni, dove tutto il patrimonio fatto di preziose registrazioni, appunti, agende, progetti poteva essere di fruizione pubblica. Ma non in un luogo qualsiasi, bensì in quel suo rifugio intimo di Otranto.

“Un castellaccio brutto, con gli angeli di scena, le gigantesche specchiere, i tavolini in madreperla, i rubinetti di rame e così via. […] Ma poi arrivano una, due, tre, cento riunioni, intellettuali e politici, cause giudiziarie, inventari, periti e perizie. Alla fine, nel 2009 tutto finisce, l’Immemoriale è sciolto. Il materiale oggi è visitabile. È anche ben allestito, ma è a Lecce, gli manca la scena. Quella casa con l’odore del pesce, i colori dei frutti di mare, le urla e le risate tra le volte a stella, le sedie, la libreria in pietra leccese e la terrazza dove immaginare le attrici in lizza per una parte. Tutta quella speciale atmosfera è ormai andata perduta per sempre e resterà solo nei ricordi di poche persone”. Cit. p. 25 “Non c’è Bene ad Otranto”.


Tra la fine degli anni ’70 e il principio degli anni ’80, Carmelo Bene conobbe i suoi maggiori trionfi. Straordinario melomane, profondo critico musicale, esaudì il suo grande sogno di essere chiamato alla Scala di Milano recitando da solista in un memorabile Manfred in forma di concerto e la sua voce fu degna compagna delle musiche di Schumann. Tra il pubblico, ad acclamarlo alla Scala, c’erano anche i filosofi e gli psicoanalisti che lo avevano descritto a tutto il mondo come un monumento teatrale, un fenomeno unico, un prodigio del pensiero profondo. Maestri come Gilles Deleuze, Pierre Klossowski alla cui amicizia fu legato per tutta la vita. A quattro mesi dalla sua scomparsa, il critico Italo Moscati titolava uno speciale della rivista Hystrio, “Un mattatore all’antica futurista”. Lo stesso Moscati diceva: “Credo che Carmelo sia stato e continuerà ad essere l’ultimo degli attori italiani all’antica, sulla scia degli attori che alimentano e alimenteranno ancora per poco le nostre asfittiche stagioni teatrali”.

Un fotogramma del film “Nostra Signora dei Turchi”, girato quasi completamente tra Santa Cesarea, Otranto e Badisco

Carmelo Bene era il mattatore per eccellenza che aveva mutato e quindi riciclato la stagionata, acclamata e odiata figura dello stesso mattatore, rimescolandola con le sue ansie di dominio assoluto, ma potendo contare anche nei suoi scandalosi inizi sui contributi di affascinati filosofi e semiologi più che di critici e giornalisti.

Carmelo Bene scrisse un’immodesta ed eccessiva biografia che intitolò “Sono apparso alla Madonna” di cui l’incipit cita, “Su un asse di appena quaranta chilometri distante Otranto, in Campi Salentina, pianura sconfinata agricola, di grano, vino, ulivi, e tabacco, soprattutto tabacco, un Atlas di tabacco, ha luogo la mia nascita di Re Sardanapalo. Vedo montagne di donne «d’ogni forma», «d’ogni età», il numero effettivo di queste tabacchine si può quantificare almeno sulle millequattro). Mi ritrovo quattrenne palleggiato da questa montagna di nudo donnesco animale, negli spogliatoi di una azienda, tra un intervallo e l’altro destinato alla cernita o all’imballaggio, e ai vari trattamenti del tabacco. Accanto a questo, tre ordini religiosi: scolópi, salesiani, gesuiti. Latino e greco antichi anche parlando del più e del meno, latino ecclesiastico, certo sport, ogni sabato e domenica. Premio: Lecce. Lecce come premio o come castigo”.

A Roma si iscrive a Giurisprudenza e poi all’Accademia di Arte Drammatica, abbandona quest’ultima come dice lui o viene cacciato come dicono gli altri, ma sono pur sempre abbandoni già scritti, già coerenti con una violenta necessità di affermazione. Primo debutto clamoroso è il “Caligola” di Albert Camus che gli cede personalmente i diritti, nonostante la giovanissima età. Carmelo Bene inizialmente ne è l’interprete diretto da Alberto Ruggero ma presto si autodirige. Certamente voleva essere famoso e considerato dalla stampa, ma corteggiava con ruvida classe ed elegante disinvoltura i Deleuze, i Derrida, i Klossowski di Parigi, una infinità di estimatori ed esegeti acquisiti strada facendo.

Un fotogramma del film “Salomé”

Dagli anni ’60 Carmelo Bene è l’autentico caposcuola di una avanguardia europea che si confronta a forza con quella nordamericana, ma con una differenza sostanziale. Nei suoi confronti, l’artista italiano dà del nuovo teatro un’immagine scomposta e ricomposta violentemente. Tra il ’61 e il ’62 realizza il primo Amleto, il primo Pinocchio e fino al ’63 spettacoli-cabaret con titoli significativi come “Addio Porco” e “Cristo 63”. Nello spazio di tre, quattro anni Carmelo ha già steso l’intero tessuto del suo lavoro teatrale con una fretta tragica. Testi, parole, eventi e musicalità che verranno visitati con sempre maggiori mezzi, ma che già formano un quadro preciso all’interno del quale, questa lotta aperta contro il teatro di interpretazione si legge in profondità.

Agli esordi Carmelo Bene debutta in salette improvvisate, veri e propri magazzini teatrali dove il successo e l’esaurito sono garantiti dalla scarsità degli spazi, ma il pubblico che l’affolla scende da automobili di lusso, donne ingioiellate, pellicce che spesso accoglie con i suoi attori a colpi di pennellate sul viso o apostrofi volgari. Ma parte da qui quello che alla fine del ventesimo secolo teatrale, in Italia e altrove porterà certamente il segno di Bene, quello di una rivalutazione globale del linguaggio teatrale e della sua enunciazione che si cristallizzano in un elemento preponderante del teatro di Bene, la “Voce e la sua Musicalità”, il “Corpo e la sua totale invasione dello spazio scenico”. Con lui, l’attore ridiventa la componente essenziale del fatto teatrale, ma non solo, egli è in assoluto attore e autore nel senso pieno del termine, attraverso una vastissima operazione contro i testi stessi che egli non solo sovverte, ma stravolge. Gli effetti sono coinvolgenti e più l’attore privilegia il suo isolamento poetico, più la sua forza sul pubblico aumenta di volta in volta.

Celebre la sua avversione per ogni forma di critica teatrale e soprattutto per i critici di professione inadatti a capire l’essenza del suo lavoro come evidenziano queste sue dichiarazioni; “… per me i critici teatrali non esistono. Per capire un poeta o un artista, almeno che questo non sia soltanto un attore, ci vuole un altro poeta o un altro artista”.


 di Mario Blasi

LUCIO&LUCIO

Due grandi della musica italiana innamorati del mare di Puglia

Quest’anno avrebbero compiuto entrambi 80 anni. Lucio Dalla, nato il 4 marzo 1943, e Lucio Battisti, nato il 5 marzo 1943, due grandissimi esponenti della musica italiana, accomunati dall’amore per il mare pugliese.

È stata la limpidezza delle acque di Torre Squillace (“Scianuri” nel dialetto locale), tra Porto Cesareo e Sant’Isidoro, ad ispirare Lucio Battisti e Mogol nella stesura di due pezzi iconici “Acqua azzurra acqua chiara” (1970) e “La canzone del sole” (1971).

Era il 1967 e grazie al consiglio dell’amico Adriano Pappalardo, originario di Copertino, comprarono una villetta per trascorrere dei periodi di tranquillità e ne fecero subito uno studio di registrazione, frequentato da amici e musicisti fino al 1973. In ricordo di quel periodo l’artista Dario Tarantino ha realizzato una statua di Battisti, che si trova sul lungomare Cristoforo Colombo di Nardò.

Lucio Dalla lega indissolubilmente il suo nome alle isole Tremiti. È qui che nasce la sua bellissima “Com’è profondo il mare” (1977), ma i riferimenti al mare e alla Puglia sono riscontrabili in altri sui pezzi. La madre era una sarta di origini pugliesi e ogni anno tornava in vacanza a Manfredonia. E Lucio ha continuato a tornarci, dichiarando il suo amore viscerale per questa terra e comprando casa alle Tremiti. “Ogni volta che venivo in Puglia – dichiarava – c’ è sempre stato qualcosa che mi ha spinto a pensare in musica, a sentire i suoni, a vedere i colori in modo diverso da come mi arrivavano dagli altri posti dove i miei viaggi mi portavano”. Il teatro di Manfredonia ora porta il suo nome.

Entrambi gli artisti mancano terribilmente, ma ci rimangono le loro canzoni immortali.

di Luigi Corvaglia

Nicola Arigliano, anima swing del Salento

Nei suoi figli la salentinità è come un fiume carsico. Per quanto si pensi sotterranea, prima o poi riemerge inaspettatamente. Il più internazionale dei nostri artisti, Domenico Modugno, benché nato a Polignano a mare, era cresciuto a San Pietro Vernotico. L’affetto per la lingua salentina – che fu scambiata nell’Italia degli anni ’50, che del Salento non conosceva neppure l’esistenza, per siciliano –  il cantautore lo faceva emergere spesso nelle sue canzoni minori, come “la sveglietta” (Ieu tegnu na sveietta ca quannu camina fa tic tac) o “Lu frasulino” (ddhumame, stutame). Un gruppo di ricerca dell’Università del Salento, alcuni anni

Nicola Arigliano in concerto nel 1984
Nicola Arigliano in concerto nel 1984

fa, rintracciò perfino una versione del celeberrimo “il vecchio frac” in cui il gatto citato nella canzone veniva chiamato “musci”. C’è qualcosa in chi è cresciuto al di sotto della via Appia che rimane indelebilmente dentro e prima o poi tradisce l’appartenenza. Perfino in quello che forse è stato il miglior crooner italiano, il più “colto” dei nostri cantanti, Nicola Arigliano. E’ infatti strano che un artista noto per la dizione impeccabile – lui che era stato balbuziente – cantasse nel classico “Maramao, perché sei morto?” dell’ansalata che era nell’orto, invece che dell’insalata. La contaminazione fra il dialetto della sua nativa Squinzano e l’italiano aveva prodotto quell’involontario neologismo. Che nessuno ha pensato di correggergli.

Nicola Arigliano nel 1970
Nicola Arigliano nel 1970

Per chiunque abbia più di 50 anni, Nicola Arigliano è una figura impressa nella memoria. Per chi era bambino negli anni 70 era il volto del noto “Digestivo Antonetto” del Carosello.  In realtà Arigliano è stato un grande interprete, uno dei più grandi, della canzone italiana. Di più, è stato l’unico artista italiano a trovare la sua cifra nel fraseggio jazz, soprattutto nello swing, anche in canzoni “leggere”. “Un giorno ti dirò”, “Amorevole”, “I Sing “Ammore”, “My wonderful bambina”, “I love you forestiera”, “Simpatica”, “Permette signorina”, furono successi straordinari negli anni sessanta che giocavano spesso col bilinguismo, anche sonoro, e portarono Arigliano alle vette dello stardom nazionale. Da lì arrivarono anche la televisione e il cinema. Il nostro artista recitò anche ne “La grande guerra” con Sordi e Gassman e fu “l’ispettore Giusti” della serie televisiva. Venne quindi ricercato dai pubblicitari (Digestivo Antonetto, Punt e Mes, Amaro Cora). Divenne un protagonista dei sabato sera italiani a a partire dal nell’anno 1963, con “Il cantatutto”, dove i partecipanti erano soliti esibirsi in alcune simpatiche scene dalla sfumatura comica. Nel 1977 fu il pistolero di  Non stop, la storica una trasmissione di Enzo Trapani, che “uccideva” gli artisti, pronunciando la battuta: «Non voglio noie nel mio locale!». Insomma, Arigliano fu artista a tutto tondo, gentile e ironico, disposto a non prendersi sul serio. Con l’amico Franco Cerri, il grande chitarrista noto ai più come “l’uomo in ammollo” della pubblicità di un noto detersivo, condivideva l’amore per il jazz e l’attività di attore di pubblicità, ma era quando si

Nicola Arigliano e Franco Cerri – 1959

esibivano insieme che si vedeva per cosa erano nati. Infatti, nonostante le molteplici attività, Nicola Arigliano rimaneva un cantante di jazz in un paese che non era pronto. Riuscì finalmente a coronare il sogno di essere riconosciuto come l’unico cantante swing d’Italia solo in età matura, quando venne riscoperto da critici e produttori. Ne seguirono tour con repertorio jazz, dischi dal vivo e tardivi omaggi da parte dei colleghi. Arrivarono anche i premi (vinse il Premio Tenco nel 1996 e la Targa Shomano nel 2004).  Sull’onda del ritrovato interesse della critica, nel 2005 Arigliano si presentò al festival di Sanremo a ottantuno anni di età, divenendo il cantante più anziano a parteciparvi.  Presentò il brano “Colpevole”, vincitore del Premio della Critica. Fu la sua ultima apparizione nelle case degli italiani, una apparizione sempre piacevole, elegante garbata come era stato lui per tutta la vita.

La sua ultima esibizione risale all’ 8 Settembre del 2007, quando la natia Squinzano volle omaggiarlo di un premio alla carriera. Dopo quella sera scomparve dalle scene. Nessuno immaginava che l’uomo dolce, discreto e modesto che aveva accompagnato le famiglie italiane fra dopoguerra, boom economico e anni di piombo fosse rimasto nella sua terra natia, perché il Salento è un fiume carsico che si ripresenta, solo e dimenticato da tutti. Lo sapemmo solo il giorno della sua morte, il 30 Marzo del 2010. Si trovava da tre anni, come un anonimo vecchietto, in una casa per anziani di Calimera. Aveva 86 anni. Il Salento non si dimentica, ma dimentica.

di Luigi Corvaglia

Il cinema di Pippo Mezzapesa: la realtà al servizio della finzione

Il regista racconta “Ti mangio il cuore”, la sua ultima opera cinematografica. Un ritratto crudo e veritiero, tra simbolismo animale e religioso, di una mafia che ancora non conosciamo: quella foggiana. Il rampollo di una famiglia mafiosa si innamora, ricambiato, della moglie di un esponente della cosca avversa e comincia con lei una relazione clandestina. Scoperti, i due giovani sono costretti a fuggire. Ma è tutto inutile, hanno rotto una fragile tregua che sfocia in una guerra crudele, forse senza fine, che li travolge entrambi.

Questa potrebbe essere una sinossi apparentemente efficace di “Ti mangio il cuore”, l’ultima fatica del regista bitontino Pippo Mezzapesa.

Attenzione, però: “Ti mangio il cuore” non è soltanto la travagliata storia d’amore di due ragazzi che hanno la sfortuna di vivere nel posto sbagliato insieme alle persone sbagliate. Sarebbe davveromiope e superficiale considerare questo film come un semplice e sanguinoso remake di “Romeo e Giulietta” in terra di Puglia. Anzi, questo non è neanche un film di mafia nel senso più classico deltermine, benché non manchino le scene d’azione, anche cruente. Né si deve commettere l’errore di farsi distrarre dalla presenza di Elodie che, più nota finora per le sue capacità canore e musicali, qui si rivela anche valentissima attrice nella parte di Marilena, la protagonista.

Si è di fronte a un’opera, invece, estremamente pregiata dal punto di vista cinematografico e culturale. Mezzapesa dipinge il ritratto crudo e inquietante di una mafia spesso trascurata dalle cronache, la quarta, quella foggiana, se possibile ancora più arcaica e crudele delle sue altre tre più famigerate sorelle.

“Avevo letto, anni fa, della vicenda di Rosa Di Fiore, la prima pentita della mafia garganicaspiega il regista -. Più recentemente ho ritrovato la sua storia nel romanzo d’inchiesta scritto da Carlo Bonini e Giuliano Foschini, cui mi sono ispirato e da cui il film ha poi preso il titolo. Il romanzo, oltre a raccontare la storia di Rosa, fa una precisa e attenta panoramica del fenomeno mafioso del foggiano, raccontando le varie faide succedutesi nel tempo. Sono partito da questi elementi e ho cercato poi di condensare in un’unica narrazione tutta l’efferatezza di questa nuova esconosciuta forma di criminalità organizzata, rievocando alcuni degli episodi più significativi legati ad essa”.

Infatti, nella trama, ci sono evidenti riferimenti alla cronaca nera passata e recente: dalla faida tra lefamiglie Romito e Li Bergolis, che per molti anni ha insanguinato il foggiano, alla tragica fine dei fratelli Luigi e Aurelio Luciani di San Marco in Lamis, agricoltori uccisi senza pietà, colpevoli solo di aver assistito, per puro caso, a un omicidio.

Francesco Patanè, Lidia Vitale @Sara Sabatino

Raccontare una storia di fantasia attingendo dalla sorgente della realtà: per Mezzapesa non è la prima volta, basti pensare al suo film precedente, “Il bene mio”, in cui l’ultimo abitante di un paese devastato dal terremoto, interpretato da un ottimo Sergio Rubini, si rifiuta di lasciare per sempre la propria casa. Impossibile non riconoscere, in alcune scene, il chiaro richiamo al terremoto del Molise che causò il crollo della scuola elementare Francesco Jovine di San Giuliano e la tragica morte di tanti bambini.

“Sì, l’ispirazione nasce spesso da vicende reali che inserisco in un contesto di fantasia dice Mezzapesa -. La differenza tra i due film sta nel fatto che “Il bene mio” è un film sull’importanza della memoria. In “Ti mangio il cuore” invece l’intento è quello di raccontare nella maniera più articolata e veritiera possibile un fenomeno che non si conosce abbastanza e che ha fatto del suo essere misconosciuto la propria forza”Viene da chiedersi come abbia fatto la mafia foggiana a restare nell’ombra per così tanto tempo.

Elodie, Pippo Mezzapesa @Sara Sabatino

“I motivi, a mio parere, sono duedice il regista -. Da un lato le altre mafie hanno sempre avuto un modo di manifestarsi molto più plateale, dall’altro c’è stata, inizialmente, anche unasottovalutazione dell’elemento foggiano/garganico. Si tratta di una criminalità che non è stata raccontata mai abbastanza, né contrastata. Ora, per fortuna, il lavoro e le sentenze della magistratura hanno decretato che si tratta di un fenomeno mafioso a tutti gli effetti”.

Mezzapesa per raccontare questo orrore sceglie in “Ti mangio il cuore” un bianco e nero anomalo epotente che scolpisce gli sguardi e i movimenti, forse a creare una continuità cromatica con la terra,che spesso diviene una sostanza ibrida, molle di fango e letame, e col sangue, che si intuisce vermiglio, ma scuro e malato, simbolo rassegnato di un male ineluttabile. Stesso colore, potremmodire, tinge il linguaggio. Un dialetto sporco di termini gergali mafiosi, tramite il quale le parolecambiano di significato. Così “magnare” diventa sinonimo di uccidere e l’ultima preghiera delcondannato a morte è la frase “lassame ‘a faccia”.

Michele Placido @Sara Sabatino
Elodie @Sara Sabatino

Tutto questo sotto l’egida della divinità, sempre presente nella sua forma di tradizione religiosa o festa popolare. “Accade spesso nei miei film sottolinea il regista -. Anche ne “Il bene mio” c’era la statua della Madonna a rappresentare l’ultimo cuore pulsante del paese devastato dal sisma. La tradizione religiosa ha una funzione simbolica, ma anche una sua fascinazione. Esercita sulle comunità una forza che mi piace raccontare. Impossibile narrare la Puglia senza inserire un elemento che abbia a che fare con la religione. Viviamo in una terra in cui i paesi sono attraversati continuamente da bande e processioni, sono momenti che fanno parte della nostra identità culturale, per questo in “Timangio il cuore” scandiscono la vita dei protagonisti. La tradizione religiosa trae la sua potenza narrativa dal suo contrasto con la modernità. È bello raccontare una terra in cui questi contrasti sono così vivi e autentici. È bello perché non c’è nulla di costruito o artificioso”.

Quello legato alla religione non è l’unico simbolismo presente nel film. Ce n’è un altro, ugualmente forte, quello legato agli animali. “Il bene mio” aveva già introdotto questo tema, assegnando a un gregge di pecore il compito di dareinizio alla storia, poi di terminarla. In “Ti mangio il cuore” diversi animali (maiali, pecore, vacche,galline, cani), proprio come le tradizioni religiose, scandiscono la vita, ma soprattutto la morte deiprotagonisti. “Sì, anche qui c’è una funzione fortemente simbolicaspiega Mezzapesa -. Racconto, in fondo, una società che ha dei forti elementi ancestrali, quindi è molto legata agli animali. Le dichiarazioni di guerra e le riappacificazioni si fanno, ad esempio, attraverso di essi. Raccontare questa storia senza utilizzare la metafora degli animali sarebbe stato impossibile”.

di Thomas Pistoia

I libri – marzo 2023

Franco Cassano. A passeggio sui confini di Franco Chiarello, Edizioni Radici Future, 2023

Per indole, per formazione culturale, e poi per preminente interesse scientifico, Franco Cassano è stato un instancabile esploratore di territori di confine, di quelle linee che separano e al tempo stesso connettono popoli, nazioni e culture. A partire dal confine a lui più prossimo, il lungomare di Bari, luogo principe delle sue lunghe passeggiate, dove terra e mare si incontrano e si toccano. Nella biografia intellettuale di Cassano questi due elementi costituiscono una esemplare metafora della modernità, le cui complesse traiettorie egli ritiene di decifrare meglio collocandosi ai suoi margini geografici (il Mediterraneo, il Sud, Bari) e sociali (l’Altro) piuttosto che nei suoi sfavillanti centri metropolitani. Senza posizioni pregiudizialmente contrarie rispetto ai suoi valori fondativi, ma con una visione radicalmente critica delle sue derive fondamentaliste, prime fra tutte l’onnipotenza del mercato e la mercificazione di ogni ambito di vita.


Semi di anguria di Salvatore Tommasi, Esperidi Edizioni, 2021

La storia di una bambina e delle sue sorelle, orfane in breve tempo di entrambi i genitori, all’inizio degli anni Cinquanta. La storia di un piccolo paese del Salento che sogna, attraverso l’impianto di una fabbrica tessile, lo sviluppo economico e il riscatto sociale.

Due storie unite dall’ambigua figura di un industriale del Nord, assecondato da un prete maneggione e da politici incauti. A lui viene affidata, attraverso una cospicua elargizione di contributi statali, la prospettiva della rinascita postbellica in un territorio di ataviche povertà e diseguaglianze. A lui viene affidata anche la sorte delle tre bambine, la più piccola delle quali conta i giorni con i semi d’anguria.


La portalettere di Francesca Giannone, Nord, 2023

Italia, anni ’30. Un paesino del Sud. Una donna del Nord. Un incontro che cambierà entrambi. Un’emozionante storia d’amore e di riscatto

«In giro a piedi tutto il giorno, con la pioggia o con il sole. Ci perderesti la salute. Siamo seri. Non esistono portalettere donna.»
«Finora», disse Anna

Salento, giugno 1934. A Lizzanello, un paesino di poche migliaia di anime, una corriera si ferma nella piazza principale. Ne scende una coppia: lui, Carlo, è un figlio del Sud, ed è felice di essere tornato a casa; lei, Anna, sua moglie, è bella come una statua greca, ma triste e preoccupata: quale vita la attende in quella terra sconosciuta? Persino a trent’anni da quel giorno, Anna rimarrà per tutti «la forestiera», quella venuta dal Nord, quella diversa, che non va in chiesa, che dice sempre quello che pensa. E Anna, fiera e spigolosa, non si piegherà mai alle leggi non scritte che imprigionano le donne del Sud. Ci riuscirà anche grazie all’amore che la lega al marito, un amore la cui forza sarà dolorosamente chiara al fratello maggiore di Carlo, Antonio, che si è innamorato di Anna nell’istante in cui l’ha vista. Poi, nel 1935, Anna fa qualcosa di davvero rivoluzionario: si presenta a un concorso delle Poste, lo vince e diventa la prima portalettere di Lizzanello. La notizia fa storcere il naso alle donne e suscita risatine di scherno negli uomini. «Non durerà», maligna qualcuno. E invece, per oltre vent’anni, Anna diventerà il filo invisibile che unisce gli abitanti del paese. Prima a piedi e poi in bicicletta, consegnerà le lettere dei ragazzi al fronte, le cartoline degli emigranti, le missive degli amanti segreti. Senza volerlo – ma soprattutto senza che il paese lo voglia – la portalettere cambierà molte cose, a Lizzanello. Quella di Anna è la storia di una donna che ha voluto vivere la propria vita senza condizionamenti, ma è anche la storia della famiglia Greco e di Lizzanello, dagli anni ’30 fino agli anni ’50, passando per una guerra mondiale e per le istanze femministe. Ed è la storia di due fratelli inseparabili, destinati ad amare la stessa donna.


Intervista a Gabriella Genisi

La sua sbirra barese Lolita Lobosco, nei cui panni si è calata con una perfezione (quasi) madrelingua la bella e brava Luisa Ranieri, ha sbancato prima le librerie, poi la tivù. Anche se, come spesso succede non questi casi, difficile dire se fondamentale per aprire un vero o proprio caso editoriale sia stato l’uovo-libro o la gallina-fiction: diremo insomma di un reciproco aiuto.  Ma di certo Gabriella Genisi, scrittrice nata a Mola di Bari nel 1965, ha avuto frecce sufficienti al proprio arco per far innamorare della bella poliziotta in Louboutin niente meno Luca Zingaretti, che ha deciso di produrre la serie. Inscenando un “matrimonio” ideale perfetto tra Sicilia e Puglia: di là Salvo Montalbano e i suoi arancini, di qua Lolita Lobosco e gli spaghetti all’assassina.

Domanda di prammatica: come si diventa una scrittrice di successo? 

“Non c’è un’unica strada, si può arrivare facendo parte di un progetto letterario che parte da una scuola di scrittura o dalla scelta di un editore. Oppure credendo fortemente ai propri sogni e costruendo una rete di lettori con la pazienza di un ragno”.

La pugliesità è un limite o una scorciatoia, in questo periodo storico?

“C’è molta attenzione alla Puglia letteraria e turistica, ormai da molti anni a questa parte, ma la pugliesità non è sufficiente a decretare il successo di un libro. Contano le storie, i personaggi, il mondo parallelo che lo scrittore riesce a costruire e che irretisce il lettore, lo incolla alle pagine”.

Come spiega il successo generale dei libri e dei film che hanno come protagonista esponenti delle forze dell’ordine? Gli italiani sono legati a queste figure istituzionali o cosa?

“E’ il fascino innegabile del bene che sovrasta il male, in un momento storico con poche certezze, dove nulla va come dovrebbe andare. Talvolta, almeno nello spazio di un libro o di una fiction, amiamo il finale consolatorio”.

 In cosa Lolita Lobosco è diversa dagli altri commissari di polizia, a parte la sua femminilità prorompente? 

Ranieri, Sgueglia @ducciogiordano

“Lolita Lobosco, a parte una poliziotta creata da Silvana La Spina nel 2007, è stata la prima commissaria della letteratura poliziesca italiana. Non scimmiottava le poliziotte americane e si teneva stretto il suo essere donna, anche in commissariato. Riteneva la diversità di genere un punto di forza, non di debolezza. Ha scelto di non omologarsi”.

E quale differenza con Chicca Lopez, ultima sua creatura letteraria, oltre al fatto che la prima è barese e la seconda è leccese?

“Sono personaggi completamente diversi, per età, carattere, orientamento sessuale, rete familiare. Hanno però un tratto che le accomuna: un forte senso di Stato e di Giustizia”.

Lolita è ormai una star in Italia… lo diventerà anche all’estero?

“La fiction è stata già trasmessa in venti Paesi in tutto il mondo, sarebbe bello riscuotesse lo stesso successo ottenuto in Italia”.

di Leda Cesari

LA PETRESCIATA: una tradizione carnevalesca della città di Andria

Andria, città dell’olio e della burrata, ma anche dei famosi ed irresistibili confetti.

Il primo confetto sembra risalire al 447 a.C.. La parola “confetto” sembra derivi dal verbo latino “confacere”, cioè “avvolgere”, con qualcosa.

All’epoca dei romani si usava già avvolgere le mandorle con il miele, una tradizione in qualche modo ripresa dalla famiglia Mucci e mantenuta dal 1894.

I confetti restano sempre un simbolo di buon auspicio, un augurio di prosperità, fecondità e fertilità.

Era infatti consuetudine regalarli alle future spose durante il rito cosiddetto della “Petresciata”.

Durante il Carnevale, i confetti meno pregiati venivano lanciati per strada in quello che poteva sembrare un vero e proprio lancio di pietre. Non a caso questa tradizione fu chiamata “la petresciata”. Venivano lanciati con una certa violenza, a volte mescolati addirittura con sassolini. I negozianti cercavano di proteggersi il più possibile. Il rischio era quello, infatti, di venire colpiti da confetti decisamente più grandi, veri e propri sassi di zucchero coloratoche rompevano vetrine e potevano anche fare male. Il podestà di allora ne vietò la produzione.

L’usanza del lancio è stata sostituita dalla tradizione, molto meno violenta, del regalo. I Mucci prepararono allora composizioni da donare alla futura nuora, alle fidanzate o comprate dagli anziani per regalarle in famiglia.

Una tipologia di confetti utilizzati era la fiaschetta, su cui erano dipinti diversi soggetti naturali con parole d’amore. I confetti a forma di frutta o con mandorla vengono regalati per augurare fertilità e prosperità alla coppia. Il lancio si svolgeva nelle case delle ragazze non fidanzate ufficialmente. In quei giorni di festa, i fidanzati, con i famigliari, si recavano a casa dell’amata e facevano cadere sul capo delle ragazze una pioggia di confetti coloratissimi.
La suocera, inoltre, doveva portare un oggetto pregiato o una bomboniera altrimenti non era gradita in casa e poteva mettere a rischio il fidanzamento.

Importanti, dal punto di vista del loro valore e significato storico, sono i “confetti Ricci” dedicati a Federico II di Svevia, lavorati con mandorle tostate, zucchero e miele che ricordano il confetto medioevale, quando ancora non esisteva lo zucchero e veniva impiegato il miele, riprendendo l’antica tradizione dei romani di avvolgere le mandorle con il miele. Un altro confetto, riconducibile ad avvenimenti e personaggi noti nella storia è chiamato “Lacrime d’Amore”, dedicato a Bianca Lancia e realizzato con l’aroma della viola molto gradito da Bianca e da Federico. Una storia d’amore tormentata quella tra la giovane fanciulla e l’imperatore.

Secondo la leggenda, infatti, Federico II di Svevia accusò Bianca di tradimento. Sospettava che il figlio non fosse suo. Bianca, per dimostrare la sua innocenza, si sarebbe tagliata i seni e li avrebbe fatti recapitare al sovrano su un vassoio d’argento insieme al neonato.

Un episodio che ha ulteriormente ispirato la famiglia Mucci tanto da produrre dei confetti che rappresentassero proprio i seni di Bianca: due bon bon bianchi alla sambuca con una cialda di biscotti e i capezzoli decorati. I confetti furono offerti durante un evento a Casteldel Monte.

Tra le tante varietà di confetti e dragées prodotti non mancano quelli dedicati alle festività pasquali che in passato erano uova colorate e confetti decorati a mano raffiguranti Castel del Monte, pulcini, ovetti e campane.

Oggi è possibile scegliere una specialità per ogni tipologia di evento da festeggiare.

di Angela Ciciriello


Oltre a visitare uno dei luoghi più dolci d’Italia, il Museo del Confetto Mucci, il visitatore può rimanere incantato dalla bellezza e dall’offerta turistica di Andria, città legata indissolubilmente all’Imperatore Federico II di Svevia, rimastagli sempre “fedele” come recita l’iscrizione presente sull’arco della Porta di Sant’Andrea.

Per conoscere meglio l’imperatore e il suo rapporto con la città, per visitare la storica sede della confetteria Mucci Giovanni attiva dal 1894, l’associazione ArtTurism realizza percorsi guidati che si concludono con una degustazione di prodotti locali.

Associazione ArtTurism – Arte Cultura Territorio Cell. 392/6948919
email: info@arturism.it– www.arturism.it


Pubblicato il 7 marzo 2023 alle ore 11:45

Il ruolo dei dialetti nelle ripartizioni linguistiche regionali

La Puglia, come ricordava Strabone (VI, 3, 1, 11), in epoca prelatina, era occupata, nell’area barese e delle Murge dai Peucezi e dai Pedicoli, nella Capitanata e nel Gargano dai Dauni, nel Salento dai Messapi e dai Salentini. “Di queste popolazioni soltanto i Messapi si opposero alla espansione dei Greci in seguito ad una immigrazione importante cominciata a partire dal secolo VIII. Tra le città greche di Otranto, Gallipoli e Taranto, soprattutto quest’ultima ebbe a lottare ripetutamente contro la resistenza tenace dei vicini Messapi […]. Le rimanenti zone della Puglia, la Daunia e la Peucezia, videro sotto la cultura ellenica della Magna Grecia, un periodo di eccezionale fioritura, in cui le popolazioni messapiche di tali zone si fusero progressivamente con quella greca […]” (Stehl 1988: 698).

La divisione etno-territoriale non poteva non avere ripercussioni, in generale, sulla cultura, e, in particolare, sulla lingua, che nel corso dei secoli ha visto perpetuarsi la sua eterogeneità all’interno della regione. Anche la presenza latina e la conseguente latinizzazione determinò reazioni differenti: il Salento continuò ad usare il messapico in epoca imperiale, mentre il resto della regione accolse il nuovo modello linguistico-culturale di Roma. Proprio in età imperiale, la realizzazione della via Appia “legò Taranto a Brindisi, e consacrò in quel momento storico il confine di due tipi di cultura per cui restava segnata al Nord la cultura delle antiche popolazioni delle Murge, mentre restava segnata al Sud la cultura delle antiche popolazioni del tavoliere salentino” Mancarella (1975: 5). Una divisione che non fu alterata dalle successive dominazioni e che oggi noi possiamo definire grossomodo con due grandi aree dialettali principali, a loro volta articolate al loro interno:

  1. l’area centro-settentrionale che comprende le varietà apulo-dauna (distinta in foggiana; dauno-appenninica e garganica) e apulo-barese;
  2. l’area meridionale che comprende la sub-regione a sud del confine linguistico che Francesco Ribezzo (1912) tracciò lungo la linea Ostuni-Ceglie-Taranto e che secondo gli studi, soprattutto di carattere fonetico, può essere divisa in tre tronconi: a) salentino settentrionale, con centro egemone Brindisi; b) salentino centrale, con centro egemone Lecce; c) salentino meridionale, con varietà dominante otrantina e varietà secondaria gallipolina.

“La distinzione dei dialetti salentini da quelli pugliesi coincide con la distinzione geografica che oppone il tavoliere leccese al Sud e la catena delle Murge a Nord secondo l’arco della «soglia messapica»” (Mancarella 1975: 8), ossia di quella zona di transizione a nord-est di Taranto che separa le Murge dal Tavoliere salentino.

Lungo la depressione carsica corre cioè anche una linea immaginaria, il confine linguistico che va da Ostuni a Taranto al di là del quale gli accenti, i suoni, i ritmi, ma anche le parole e, più in generale, la grammatica delle parlate cambiano notevolmente. 

  1. Il dialetto barese

L’area barese, che si estende dall’Ofanto a Nord al confine settentrionale salentino a Sud ed ha come centro egemone Bari, presenta come tratti caratteristici, per esempio, i frangimenti vocalici, ossia i dittonghi spontanei cosiddetti ‘atipici’: gaddejnə ‘gallina’; la palatalizzazione, cioè la resa di A latina come “e”: Bèri ‘Bari’; le vocali evanescenti (dal suono indistinto) ə: dəménəchə; le forme dell’infinito tronche per la caduta della sillaba -re: parlá ‘parlare’, vénnə‘vendere’, dərmí ‘dormire’, la realizzazione dell’indicativo imperfetto in -ave: mangiàve ‘mangiavo’.

Inoltre, “la varietà di condizioni e di attività, e la duplice qualificazione socio-economica, agricola e marinara, conferiscono al lessico ricco e vario del capoluogo connotati di rappresentatività regionale, con sensibili caratteri di arcaicità dei settori tecnici e specialistici” (Valente 1975: 37). Alcuni esempi: saniízzə ‘terreno incolto’; sétəmelagrana’, kəlúmmə ‘fiorone’, lúzzə‘nasello’, angiddəanguilla’.

  1. I dialetti dauni e foggiani

La Daunia, un tempo occupata dai Sanniti, aveva una parlata omogenea ma, in seguito alla pratica della transumanza, che la metteva in comunicazione con l’Abruzzo ed il Molise, ha rafforzato le analogie con i dialetti di queste regioni, caratterizzandosi rispetto al resto dei dialetti pugliesi.

I dialetti dauni appenninici e garganici, nonostante presentino alcune differenze, registrano molti tratti comuni. Tra gli altri ricordiamo: la conservazione, fatte alcune eccezioni, della vocale latina accentata A: casə, panə, fratə; la conservazione, sul modello abruzzese, delle consonanti doppie latine -LL- (kallə ‘calla’). Per il lessico, “[t]ra le voci ritenute tipiche di tutta la varietà dauna abbiamo fəlanolə <<lungo palo>>, attaməndá <<guardare>>, tozzə<<pannocchia di granturco>>; il secchio di latte si chiama moltrə, la paglia delle pannocchie cóffelə, il mucchio di pietre cragnə” (Sobrero-Tempesta 2002: 32)

Tra i tratti caratteristici che differenziano il foggiano dagli altri dialetti dauni si registra la palatalizzazione della vocale latina A in sillaba libera, ossia terminante per vocale: käsə ‘casa’. Inoltre, il foggiano non conosce il frangimento vocalico, che invece caratterizza l’area barese.

Dal punto di vista morfologico, il foggiano presenta il condizionale, sconosciuto agli altri dialetti pugliese: sarrjə“sarei”. Per il lessico, invece, condivide molto di quello barese; alcuni termini, soprattutto legati al mondo pastorale, sono, invece, di derivazione abruzzese e napoletana.

  1. I dialetti salentini

 Fra i tratti specifici del Salento ricordiamo: il passaggio di b- a v- ad inizio di parola: vasiare ‘bocca’; vucca ‘bocca’, fino al dileguo, in alcuni casi, di v: ucca; la pronuncia cacuminale del gruppo consonantico tr: patre; la mancanza dell’infinito dopo i verbi servili: voju ddormu ‘voglio dormire’, tokka bbaw ‘devo andare’. Il fenomeno viene concordemente spiegato dai linguisti come tratto risalente al greco “o, meglio, al periodo in cui gli abitanti del Salento, passando dall’influenza greca a quella latina, furono – per lungo tempo – bilingui […]” (Sobrero-Tempesta 2002: 105).

Per il lessico, il Salento presenta un elevato numero di termini derivati direttamente dal latino: nel suo Vocabolario dei dialetti salentini Rohlfs, su 2000 lemmi, ne attribuisce 1000 all’etimo latino. Questi hanno avuto sorti differenti: alcuni sono stati sostituiti da forme più innovative: crai ‘domani’, puscrai ‘dopodomani’; altri hanno subito una risemantizzazione nel passaggio dal latino al dialetto: lat. CANNA, sal. canna ‘gola’. Non mancano, inoltre, termini derivanti dal greco, parole germaniche, arabe, spagnole e francesi, resti delle dominazioni che segnarono il Salento a partire dal Medioevo.

Confini linguistici che non coincidono con quelli amministrativi delle singole province della regione e racchiudono al loro interno “aree vaste” che nel corso dei secoli hanno condiviso vicende storico-culturali ed hanno costituito punti di forza di azione e reazione ad identità altre che hanno elaborato sistemi linguisti differenti, come manifestazione di un’ulteriore espressione di specificità territoriale.


Bibliografia      

Mancarella G.B., 1975, Salento, Pisa, Pacini.

Ribezzo F., 1912, Il dialetto apulo-salentino di Francavilla Fontana, Martina Franca, Apulia.

Rohlfs G., 1976, Vocabolario dei dialetti salentini, Galatina, Congedo.

Sobrero A.A. –Tempesta I., 2002, Puglia, Roma-Bari, Laterza.

Stehl T., 1988, Italienisch: Areallinguistik XI. Apulien und Salento, in LRL: 695-716.

Valente V., 1975, Puglia, Pisa, Pacini.


di Annarita Miglietta

Pubblicato il 6 marzo 2023 alle ore 17:14

Le doti inventive e febbrili di Salvatore Sava

Il mio primo approccio critico all’opera dello scultore Salvatore Sava, la cui notorietà non ha più bisogno di attestazioni, risale al 2005, quando lo proposi per la mostra “Pro Arte Pro Deo” (Monteroni, Chiesa Parrocchiale), nella quale egli presentò Il Candido Presepe, opera già oggetto di attenzione critica (Il candido Presepe, con una nota di Giuseppe Appella e una preghiera di Salvatore Sava, Edizioni della Cometa, Roma MMIV). È proprio questa la prima delle tre opere scelte sulle quali proverò a fornire indicazioni che aiutino a comprenderle. Nella presentazione mi premurai di spiegarne la apparente estraneità del soggetto, rispetto alla dominante linea della sua ricerca scultorea, grazie, soprattutto, ai contributi del critico e storico dell’arte contemporanea Luciano Caramel, che aveva già messo in luce, nella concezione e visione poetica dell’artista, innanzitutto la connessione tra la sua sostanza umana e culturale e i materiali usati (la loro specifica natura), materiali «già carichi di una loro storia, anche proprio di rapporto con l’uomo, il suo lavoro, la sua fatica, che ne avevano provocato la forma e poi l’usura, secondo ancora un percorso

Presepe, 2004, pietra leccese, calcare, ferro, cemento.

diramato nel trascorrere del tempo, e della vita». L’artista in quell’opera aveva scelto come materiale la pietra leccese, aveva evitato la stereotipa tradizione iconografica di quel tema, ma non l’iconografia, – infatti i protagonisti e i vari personaggi che la costituiscono sono tutti presenti, – cosa resasi possibile per lui, essendo ormai approdato «a una rimeditazione sugli statuti, e quindi i materiali e i modi, della scultura contemporanea e quella, non tradita, della tradizione radicata nei millenni, dei manufatti popolari agricoli. Con la volontà, in un certo senso, di un innesto di quella in questa, o viceversa, per esaltare le qualità della cultura materiale innervandola dei portati dell’arte d’oggi, e nel contempo liberare quest’ultima dalle restrizioni autoreferenziali che spesso la denotano e la limitano». (Caramel). Osservando il suo presepe, si può constatare che il procedimento di realizzazione, che va valutato in rapporto all’esito che l’artista voleva raggiungere, non è stato semplice, come potrebbe sembrare. Non casualmente, mi azzardai ad affermare che Sava aveva fatto come Picasso, creato, cioè, forme, dove «nulla sembra essere presente, ma in cui c’è tutto». Superando la convenzionalità iconica, egli aveva puntato sulla propria genuina fantasia, creando così un’opera capace ancora di suggestionare il nostro animo. L’impressione che egli abbia operato una sorta di semplificazione delle forme, che fa apparire le figure come appartenenti all’immaginario fantastico dell’infanzia, è solo impressione, perché, a ben guardare, egli aveva dato sfogo alla sua capacità immaginifica, facendo tesoro della rivoluzione moderna della scultura, a lui certamente non estranea. Maria, Giuseppe, Gesù Bambino, il bue e l’asino, i pastori, i Re Magi e le pecore ci sono tutti, ed è la materia di cui sono fatti, con la sua povertà, a farceli sentire umanamente vicini e per alcuni di essi monumentali e sacralmente austeri.

Fiori di pietra, 1997, ferro, pietra, legno, piombo, smalto, cm.188x150x150

Occorre aggiungere che il suo procedimento di realizzazione delle opere non prevedeva e non prevede tuttora solo l’utilizzo di determinate tecniche e materiali, ma comprende anche l’“invenzione” e la titolazione, operazione, quest’ultima, tanto indispensabile che Sava l’ha sempre considerata sua esclusiva prerogativa. Del resto, anche Caramel lo aveva implicitamente evidenziato, quando aveva citato testualmente gli appunti che l’artista abitualmente gli inviava, appunti nei quali erano indicati non solo i titoli delle opere, ma erano anche vere e proprie notazioni che esprimevano, con piena consapevolezza, la sua visione poetica. Perciò penso che sia opportuno riproporne un passo che può aiutarci a comprendere la prima delle altre due opere da me scelte. «I fiori di pietra – scriveva allora – rappresentavano…la fase finale di un’esperienza personale. Era il tempo della Magica Luna. Andavo alla ricerca dell’equilibrio e mi cimentavo di trovarlo nelle forme più svariate. Mi accorsi allora che le pietre naturali contenevano nelle loro sagome scolpite dal tempo un grande equilibrio. Erano perfette. Nel loro aspetto irregolare e casuale avevano trovato l’armonia col resto del mondo naturale. Ne presi coscienza e meditai. Con umiltà e rispetto ne scelsi un po’, dialogai con i loro silenzi, le posi su piedistalli di ferro e ne esaltai le caratteristiche forme vissute. Ora le pietre ritornano, sono fiori dal gambo in ottone, ornati solo di silenzio per narrare la loro storia». Basta osservarli attentamente questi suoi fiori di pietra, per renderci conto che il titolo assume tutta la sua valenza significante (è il caso di ricordare che “denominare” significa attribuire un nome particolarmente significativo), proprio perché fissa lo stretto legame tra la naturalità delle materie, le pietre e i metalli, l’artificio tecnico e l’invenzione formale.  Ancora una volta, la soluzione adottata dall’artista, apparentemente semplice, era frutto delle sue doti inventive e fabbrili.

Xalento, 2021, ferro, pietra, acciaio inox, smalto, cm.190x123x123

La terza opera è Xalento, esposta nell’ultima personale (Paolo Bolpagni, Salvatore Sava. L’altra scultura, Lecce, Fondazione Biscozzi-Rimbaud, 2022). Come si può vedere, essa si presenta particolarmente complessa nella sua costruzione e articolazione. È, cioè, un classico esempio di “composizione espressiva di elementi vari”.  I materiali usati non sono per lui insoliti, ma la loro combinazione è più articolata e intricata. Al primo impatto, giusta la mia attenzione ai titoli, mi aveva colpito la sua denominazione, in particolare la presenza della X invece della S. Non ho potuto fare a meno, perciò, potendolo fare, di interrogare l’autore, il quale mi ha dato indicazioni essenziali. Intanto mi ha indicato la data di realizzazione, il 2021, in piena pandemia Covid e ancora in corso il fenomeno che ha interessato gli uliveti del Salento, l’infezione del batterio Xilella, che li ha decimati, e ha confermato che la X del titolo fa riferimento a quest’ultima. Mi ha, poi, chiarito che il corpo centrale è un galleggiante di autoclave recuperato da un ammasso abusivo di rifiuti abbandonati in un ex-uliveto. Le pietre disposte a corona nella parte alta, smaltate di verde, sono un diretto riferimento alla struttura del covid, mentre i filamenti in basso simboleggiano i tentacoli del batterio. Un rimando al paesaggio salentino sono le pietre disposte sul galleggiante. Va da sé che queste indicazioni diventano pienamente significanti solo se rapportate al processo dell’invenzione costruttiva e formale dell’opera, che, proprio come tale ci interroga e continuerà a interrogarci. Non sfugge, tra l’altro, che la sua elaborazione ha fatto certamente appello proprio alle sue doti inventive e fabbrili (non è casuale la scelta della foto dell’artista da me segnalata).

Il curatore della citata ultima mostra non ha avuto remore nel ritenere Sava uno degli scultori più significativi della propria generazione in Italia, a conferma del giudizio concorde di tutta la critica che ne ha colto la singolarità e il valore nel modo in cui la sua esperienza di vita ha via via alimentato la sua arte. A tal proposito trovo pertinente chiudere citando testualmente un altro brevissimo passo dei suoi appunti: «Di origini contadine, ho vissuto gran parte dei miei anni a contatto della natura, assaporandone e rispettandone il perfetto equilibrio. Ricordo ancora le forme armoniose di alcuni semi trasportati da minuscole formiche sotto il cocente sole d’estate, i colori e le forme uniche della corazza di alcuni insetti o ancora i fiori selvatici, autentici capolavori scultorei, che crescevano spontanei sotto la rugiada di primavera. Parlo naturalmente di un po’ di anni fa. Era il periodo in cui ci si poteva ancora dissetare ad una pozzanghera affiorante sulla roccia o addirittura sorseggiare l’acqua contenuta da una foglia di cavolo. Quell’equilibrio campestre non esiste più…».

di Lucio Galante


Salvatore Sava. Biografia

  • È nato nel 1966 a Surbo (Lecce), dove attualmente vive e opera. Diplomatosi al Liceo Artistico di Lecce e all’Istituto d’Arte di Roma, ha completato la sua formazione artistica all’Accademia di Belle Arti di Lecce, conseguendo il diploma in pittura. Ha svolto la sua prima attività, nella pittura, la grafica e la fotografia. Dal 1990 insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. La costante attenzione della critica che ne ha seguito l’intensa attività espositiva (mostre personali e collettive) testimonia, ormai ampiamente e indiscutibilmente, la sua piena affermazione nel panorama artistico nazionale. Tra le mostre personali vanno, in particolare, ricordate Magica Luna (Lecce 1996), Tramontana (Milano, 1999), Salvatore Sava. Opere 1994-2001(Lecce, 2001), Opere recenti (Milano 2009) (tutte curate da Luciano Caramel), Follie barocche, (Lecce 2014 a cura di Letizia Gaeta e Massimo Guastella), Sava. Echi di natura in giallo fluo (Milano 2019, a cura di Rosella Ghezzi), Salvatore Sava. L’altra scultura (Lecce 2022, a cura di Paolo Bolpagni). Riconoscimenti di rilievo sono, inoltre, il Premio internazionale di scultura “Terzo Millennio” (Erbusco – Brescia 2006), Premio “Mastroianni”, sesta Biennale internazionale di Scultura (Regione Piemonte. Torino 2008), Premio Limen Arte per la scultura (Vibo Valentia 2012). Sue opere, infine, figurano in importanti collezioni pubbliche e private.