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Andar per borghi

da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020

I Borghi rappresentano senza dubbio una risorsa fondamentale per raccontare e studiare la storia e le tradizioni del nostro Paese. Il termine borgo è di origine tedesca, burg, latinizzato nell’Alto Medioevo in burgus (diventato poi bourg in francese, borough in inglese e burgo in spagnolo); indicava originariamente un castello fortificato fino a quando, nell’Europa Romanza, tra l’VIII e il X secolo, il termine acquistò il significato di “abitato agglomerato” per indicare sia un gruppo di abitazioni al di fuori delle mura, sia un abitato nato intorno a un castello o a una chiesa senza che fosse necessaria la presenza di mura o fortificazioni.

In Italia è stata la Via Francigena a far scoprire i borghi: infatti i più antichi si trovavano lungo la strada percorsa dai pellegrini che nel Medioevo raggiungevano Roma (ad esempio tra Piacenza e Parma troviamo il borgo San Donnino che corrisponde all’odierna Fidenza, citato dalle fonti alla fine del IX secolo, e il Burgus Arisa, citato nel 909 e corrispondente all’attuale Acquapendente, nel Lazio settentrionale). Il borgo indica un agglomerato al di fuori delle mura cittadine lungo le strade principali che portano al contado. Nella prima età comunale i borghi iniziano a crescere in estensione fino a superare le città principali; intorno al XII secolo, invece, vengono inclusi in ampie cinte urbane costruite o ricostruite, mantenendo però la denominazione di borgo. Dal Duecento gran parte dei comuni italiani inizia a fondare borghi, sia per controllare il potere territoriale, sia per abbattere quello della nobiltà feudale e mantenere in equilibrio il rapporto militare ed economico fra città e contado. Nonostante l’evoluzione del termine e delle dimensioni, si può concordare sul valore storico di questi luoghi che attraverso chiese, strade e piazze viene tramandato e raccontato L’essenza stessa dei borghi, infatti, è la loro storicità: l’essere cioè luoghi abitati senza interruzioni da millenni: per questo visitarli è come rivivere e sentire la storia dei secoli passati.

Per quanto riguarda le dimensioni, non esiste un limite di abitanti che renda i borghi differenti dalle città, e le associazioni che si occupano di preservarli e  promuoverli hanno criteri distinti per classificarli: l’associazione Borghi Autentici, ad esempio, fissa un tetto massimo di 30.000 abitanti per far entrare un borgo nella rete di quelli autentici. Proprio questa associazione promuove la loro riscoperta come “luoghi da vivere, sostenere e preservare attraverso un modello di sviluppo locale equo e sostenibile, che valorizzi queste identità adottando strategie di miglioramento del contesto sociale, ambientale e produttivo dove i protagonisti sono le comunità, gli amministratori locali e gli operatori economici e culturali dei luoghi”. L’associazione è una vera e propria rete fra piccoli comuni impegnata in un progetto di tutela del paesaggio, della cultura, della storia, delle tradizioni e dell’identità dei borghi.

La struttura dell’associazione comprende l’Assemblea degli associati, gli Organi e le Cariche associativi (ufficio di presidenza, consiglio direttivo, comitato etico nazionale, delegati regionali, revisore contabile, segreteria tecnica nazionale) e gli Organismi di sistema (BAI Tour, un’agenzia di viaggi e tour operator, e Fondazione Futurae onlus). Annualmente si tiene un’assemblea nazionale che riunisce tutti i rappresentanti degli enti per ragionare insieme sui percorsi di sviluppo da intraprendere e per fare il punto della situazione. Esiste anche una festa annuale che si tiene ogni anno in un borgo diverso  che ospita i rappresentanti per un fine settimana all’insegna della musica, dei sapori tipici, momento anche di  riflessioni su temi importanti come la sostenibilità.

L’associazione fa parte di reti nazionali ma anche internazionali, come il ‘Covenant of Mayors, il patto dei sindaci, l’Associazione italiana Turismo Responsabile, e collabora, tra gli altri, anche con il FAI e Legambiente Onlus.

Di Raffaela Cezza

Daìmon, una scuola per imparare a restare

Gianluca Palma

da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020

Si può imparare a restare nell’accezione di Vito Teti? Pare proprio di sì, se Daìmon, nata da un’idea dell’ associazione “Scatola di latta” e del suo animatore Gianluca Palma, in pochi mesi ha radunato più di 200 allievi. Certo è una scuola particolare in cui non ci sono voti, né scrutini, in cui le lezioni più importanti si fondano sul baratto dei saperi, in cui la ricerca dell’identità culturale dei luoghi è uno degli obiettivi da privilegiare, elemento cardine della consapevolezza a “restare”. Si tratta di imparare a seguire il proprio Daìmon nell’accezione degli antichi greci, questa “forza interiore che a volte scavalca circostanze, limiti e contesti poco favorevoli affinché possiamo esprimere parte della nostra vera natura”. (J.Hillman “Il codice dell’anima”).

Imparare a “restare” non è solo fermarsi e resistere nel proprio territorio, ma cominciare ad abitare se stessi, conoscendo e approfondendo le proprie radici non in mistiche solitudini, ma in una dimensione di comunità solidale.

Negli ultimi decenni in tanti hanno lasciato i piccoli centri rurali e sono diventati improvvisati cittadini delle grandi città, mantenendo rapporti affettivi che col tempo inevitabilmente saranno destinati a dileguarsi. Paesi abbandonati e paesi  fantasma, spesso oggetto di vendite favolose: un euro per una casa da restaurare, effimera illusione di nuova vita dei borghi abbandonati perché di solito non tornano quelli che erano partiti, ma chi sogna orizzonti bucolici stanco delle metropoli. Bisogna impadronirsi della forza e del valore del neologismo “glocale”, bisogna imparare l’arte della cura, prima di se stessi e poi degli altri, dell’ambiente che ci circonda che dobbiamo tutelare perché ci tuteli.

La “scuola” è partita a gennaio prima con degli incontri sperimentali in Puglia e in Basilicata, poi da maggio hanno avuto inizio le video lezioni civico culturali sulla piattaforma zoom. Ora le vacanze estive e a settembre Daìmon riprenderà il suo percorso con vecchi e nuovi “alunni”. Fine ultimo? L’ eudaimonia, la felicità.

Info:3395920051– scatoladilatta2014@gmail.com

La pagina facebook di Daìmon – A scuola per restare. https://www.facebook.com/ascuolaperrestare

di Maria Rosaria De Lumé

Restare è inquietudine, mutamento, mobilità…

da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020

Da lungo tempo mi occupo – non solo a livello di pensiero, di riflessione culturale, ma anche con scelte di vita ed esistenziali – di “antropologia della restanza”, di “quel che resta”, del “restare”.

Ho scritto libri, saggi, articoli – tra antropologia, storia, letteratura, psicoanalisi – su questi motivi. Ho seguito e curato iniziative promosse in tutte le regioni d’Italia da gruppi locali, associazioni, comunità impegnate in iniziative di resistenza, resilienza, restanza, di rigenerazione, soprattutto nelle aree interne, nei luoghi dello spopolamento e dell’abbandono. Potrebbe sembrare, allora, che l’imprevisto e necessario periodo del lockdown, che in lingua italiana suona come “confinamento”, sia stato accolto come una sorta di inveramento e di accettazione – come il risultato di una profezia – con facilità, quasi come un destino. E invece, l’essermi a lungo interrogato sull’etica, sulla bellezza, sulla necessità del restare – frutto di una scelta politico, culturale, esistenziale – rende ancora più doloroso e impegnativo fare i conti con un “restare” non per scelta, ma per necessità, per convinzione civile, per senso di responsabilità.

Restare a casa ai tempi del Coronavirus è molto diverso dalla filosofia del restare prima di questa catastrofe, che non è un’apocalisse, ma che all’apocalisse fa pensare. La mia idea, la mia concezione, la mia pratica del “restare” non hanno nulla a che fare con staticità, immobilità, attesa, apatia, ma raccontano una scelta di vivere e di abitare diversamente, di stabilire un rapporto vero con i luoghi, immaginando il restare come un atto di inquietudine, di mobilità, di mutamento.

Restanza richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi, appunto, in esilio e stranieri nel luogo in cui si vive e che diventa il sito dove compiere, con gli altri, con i rimasti, con chi torna, con chi arriva, piccole utopie quotidiane di cambiamento. Disponibili anche allo scacco, all’insuccesso, al fallimento, al dolore.

Restare non significa contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo.

Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. Questa concezione, questa pratica, questa etica della restanza assume oggi un altro senso, un’ulteriore verità, nel momento in cui dalle città del Nord, dai luoghi dell’esodo, migliaia e migliaia di persone sono tornate o vorrebbero tornare.  Intellettuali e studiosi pongono una domanda decisiva e cruciale: «Che si fa con i giovani tornati al Sud?». Questa è un’occasione unica, da non sprecare. Anche per una sorta di “rivoluzione antropologica”: cancellare le antiche distanze e incomprensioni tra partiti e rimasti, tra rimasti e coloro che ritornano. Sono i rimasti, assieme a quelli che adesso tornano, che forse non se ne erano mai andati, a dovere custodire memorie, a osservare rovine, a dovere intrattenere un diverso rapporto con i luoghi, a dover dare senso alle trasformazioni, a porsi il problema di riguardare i luoghi, di proteggerli, di abitarli, viverli, renderli vivibili.

Ho ripreso il mio cammino nei paesi, ho letto tante memorie degli studenti e dei giovani e avverto un sentimento nuovo: la possibilità che si possa fare qualcosa di concreto e di veramente incisivo, fino a poco tempo fa, immaginato soltanto da piccole minoranze. Attenzione, però, a posizioni localistiche, a chiusure, a false retoriche identitarie, a generici e strumentali inviti al ritorno ai paesi, magari da chi ha promosso e praticato sempre un’esasperata visione urbanocentrica. Attenzione anche a ri- vendicazioni contro un generico Nord, a visioni neoromantiche e a nostalgie inautentiche di un buon tempo antico mai esistito. Restare significa innovare, aprirsi al mondo esterno. Occorrono scelte politiche rivoluzionarie, in controtendenza rispetto al passato, un “ritorno”, diverso dal passato, alla terra, all’agricoltura, a pratiche di elaborazione e trasmissione culturale.

Serve un nuovo patto tra “partiti” e “rimasti”, tra generazioni diverse, tra governo nazionale e istituzioni locali. Siamo dinnanzi a un “che fare” che riguarda tutti: in primo luogo, oltre al governo, le Regioni, e poi Comuni, associazioni, Università, sindacato, Chiesa, movimenti dal basso, mondo del volontariato. Riguarda chi torna, chi resta, chi parte, chi, comunque, scopre un nuovo senso dell’abitare ed è persuaso ad affermare una diversa “presenza”. Sono in tanti a pensare che, finalmente, sia possibile una rigenerazione dei luoghi e della memoria, la costruzione di neo-comunità. Bisogna ripartire dai margini, dalle periferie, dagli ultimi di tutte le aree interne e delle periferie urbane, dei centri storici in abbandono, sia al Sud che al Nord. Anche da un nuovo sentimento dei luoghi e del passato da proiettare verso il futuro.

di Vito Teti


Vito Teti è ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”. Si è occupato di storia e antropologia dell’alimentazione, di antropologia del viaggio e dell’emigrazione, di antropologia religiosa, con particolare riferimento al Mezzogiorno d’Italia e al Mediterraneo. I percorsi della costruzione identitaria, il motivo della melanconia e della nostalgia, l’antropologia dei luoghi e dell’abbandono, la storia e l’antropologia dello spopolamento e delle rigenerazione dei luoghi, il rapporto antropologia-letteratura sono al centro della sua scrittura e delle sue numerose pubblicazioni, alcune delle quali tradotte all’estero. Ha realizzato numerosi documentari etnografici nel Sud Italia, in Calabria e in Canada per conto della Rai. È autore di reportage fotografici, di racconti, di memoir e narrazioni in cui intreccia, in maniera originale, etnografia, storia, autobiografia, memoria orale e memoria individuale.
Tra i suoi scritti più recenti: Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli 2004; n. ed. 2014; Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet 2011; Maledetto Sud, Einaudi, 2013; Terra Inquieta, Rubbettino, 2015; A filo doppio. Un’antologia di scritture calabro-canadesi (con Francesco Loriggio), Donzelli, 2017; Quel che resta, Donzelli, 2017; Il vampiro e la melanconia, Donzelli, 2018; Il colore del cibo, Meltemi, 2019; Pathos (con Salvatore Piermarini), Rubbettino, 2019.

Il Museo Castromediano tra tradizione e rinnovamento – – parte seconda –

da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020

L’immersione nei paesaggi del Salento continua tra i segni e i gesti della spiritualità  e della quotidianità degli antichi abitanti del territorio.

Sulle tracce del sacro: simboli e miti vengono da lontano

Il viaggio tra i segni e i paesaggi del sacro nel Salento antico ricomincia dalle sue innumerevoli grotte, i più antichi monumenti sacri della storia dell’uomo, luoghi di socializzazione e di preghiera, spazi delle prime manifestazioni dell’arte, quella parietale, ma anche luoghi della sepoltura e della cura dei morti.  Alcune sono percepite come luogo simbolico già dal Neanderthal. Quindi il Sapiens continua a utilizzarle per tutto il resto del Paleolitico, nel Neolitico e poi nell’età dei Metalli come spazio in cui offrire alle forze soprannaturali che sovrintendono e regolano il ciclo della vita beni di ogni tipo (alimenti lavorati, primizie, piccoli oggetti preziosi, ecc.) per invocare la fertilità di uomini, piante e animali, e per dipingere, sulle pareti, narrazioni che hanno come protagonisti eroi, antenati, divinità nel tentativo di entrare così in contatto con esse.

Anfora capolavoro del Pittore di Chicago, con Polinice ed Erifile

Nella Grotta dei Cervi, in quelle delle Veneri, della Trinità, del Fico, vengono deposti da mani antiche una infinita varietà di beni in onore di un dio cui sono date, spesso, forme femminili, nell’eterna speranza di ottenere in cambio la rigenerazione per il mondo animale, vegetale, umano. Il dono, lo scambio rituale, avviene in luoghi percepiti come naturali ombelichi della terra, nei quali, evidentemente, è possibile  entrare in contatto con le forze soprannaturali. I visitatori/viaggiatori del museo Castromediano, grazie ad una installazione di realtà aumentata, potranno rivivere le sensazioni e le emozioni di una discesa nella Grotta delle Veneri.

Ancora, gli agricoltori-allevatori del Neolitico, tra gli 8.000 e i 6.000 anni fa, percepiscono le grotte come gli spazi più idonei allo svolgimento di una molteplicità di rituali di carattere iniziatico o propiziatorio; mentre le comunità dell’età del Rame (4.000-2.000 a.C.) e del Bronzo, nel II millennio a.C., le considerano segno tangibile del legame, stretto e indispensabile, con i propri antenati defunti. In questo periodo le grotte,  insieme alle strutture ipogee (naturali piuttosto che costruite dall’uomo) e ai megaliti, costituiscono il paesaggio eletto per la sepoltura e la cura dei morti, ora nettamente distinto e separato dai luoghi dove vivere.

Trozzella messapica con Eracle

Grotte affacciate sul mare, terrazzi e approdi rappresentano, più tardi, le evidenze di una nuova religiosità.

Sul finire dell’VIII sec. a.C., infatti, la fondazione di colonie greche lungo l’arco ionico accende ancor più l’interesse sul promontorio salentino, che gli antichi chiamano Iapigio. Accordi e scambi tra genti greche e messapiche avvengono da questo momento in poi sotto la garanzia di Thaotor Andiraho o  Zis Batas, il dio che protegge i viaggi e i commerci.

Nel nostro viaggio nei Paesaggi del Sacro, il racconto di queste grotte-santuario sulle cui pareti marinai, proprietari di navi, mercanti, semplici viaggiatori hanno inciso per secoli le loro preghiere agli dei per una buona navigazione, le promesse di offerte in cambio di buon vento (anfore di vino, bestiame, statue in bronzo) e il loro

ringraziamento per il buon viaggio fatto, è affidato ancora una volta alle visioni di luce di Hermes Mangialardo che ricreano, negli spazi fluidi del Castromediano, immaginari anfratti Raccontano di Grotta di San Cristoforo e  il terrazzo antistante, affacciati sulla splendida insenatura di Torre dell’Orso, con i santuari in parte crollati che ancora conservano un altare e fosse per le offerte e gli oggetti usati per le cerimonie; del terrazzo di Punta Ristola a picco sul mare profondo di Leuca con  il suo enorme altare di ceneri e ossa (i capretti sacrificati agli dei) e le grotticelle-deposito di offerte; e, infine, della Grotta della Poesia, la più interna di un complesso di cavità carsiche a sud di Roca  connessa a sorgenti di acqua dolce (posìa nel dialetto della Grecìa Salentina significa acqua sorgiva) con le sue preghiere di pietra (così le chiamava lo scopritore), una fitta ragnatela di inscrizioni in messapico, greco e latino a coprire i 600mq delle sue pareti.

Cratere apulo a figure rosse con Nike e cavaliere

Con il tempo, gli abitanti della Messapia mutano il modo di rappresentare gli dei, e i segni del sacro non si identificano più unicamente con lo spazio delle grotte. Dal VI sec. a.C., infatti, in molte aree del Salento affiorano forme di strutturazione degli spazi dedicati al culto, con l’introduzione di recinti, altari, escara (altari di ceneri) e depositi votivi in forma di pozzetti. Le pratiche cultuali, offerte e sacrifici, si diversificano e si adattano ai campi d’azione delle tante divinità, mentre cominciano ad apparire elementi strutturali (cornici, capitelli colonne) che trovano la loro naturale collocazione in spazi sacri.

L’emersione precoce di questi segni è certamente legata al processo di ellenizzazione in atto da tempo in Messapia. E in tutto questo un ruolo fondamentale lo giocano le storie e i miti raccontati per immagini sulle statue e sui  vasi che, attraverso il mare, arrivano dalle coste ioniche e dai centri dell’Asia minore, da Corinto e

da Atene. Queste narrazioni diventano così spettacolari media per veicolare modelli e ideali greci, nel graduale processo di riferimento ai valori universali della cultura ellenica.

Le comunità locali, di fatto,  si mostrano pienamente in grado di assimilare e rielaborare il nuovo linguaggio formale e le nuove tecniche artigianali provenienti dall’esterno, incrementando, sul finire del V sec. a.C., il consumo di una produzione magnogreca di vasi a figure  rosse che, nei due secoli successivi, compariranno nei contesti messapici in quantità sempre crescente.

Corredo funerario da San Cesareo, VI sec. a.C.

Così, scene di vita quotidiana, immagini di dei ed eroi, vicende del mito, racconti e storie raffigurati sui vasi aiutano a sedimentare le storie di popoli diversi, a rinnovare amicizie, costituire abitudini, acquisire e fare propri stili di vita e usi e costumi, e non sentirsi esclusi da quella grande koinè culturale che, da un certo momento in poi, accomuna tutto il Mediterraneo, da una sponda all’altra

Ma il rapporto con i Greci non determina forme di mera assimilazione: l’articolazione degli spazi sacri e le pratiche cultuali conservano caratteri peculiari propri dei Messapi.

I Messapi chiamano ‘pana’ le cose buone. Storie di vita quotidiana

La quotidianità dei cacciatori-raccoglitori paleolitici e mesolitici del Salento è raccontata dai manufatti in pietra scheggiata conservati per millenni nelle grotte. Nei villaggi neolitici si producono vasi in ceramica, attrezzi in osso, conchiglia, ossidiana, si realizzano tessuti, si leviga la pietra. Nelle comunità organizzate dell’età del Rame emergono gruppi di potere che si autorappresentano mediante l’ostentazione di beni.

Con l’età del Ferro, il Salento, l’antica Messapia, comincia lentamente a distinguersi all’interno di un’unità culturale che contraddistingue la regione degli Iapigi. Legami ed affinità rimangono forti ed evidenti, dall’uso di seppellire i morti in posizione rannicchiata ai decori geometrici sui vasi, ma il dialogo profondo, precoce e continuo con la grande civiltà greca da parte delle elites aristocratiche messapiche introduce novità e distinzioni tra le genti messapiche, daune e peucete.

Tra le novità che caratterizzano i Messapi, la più netta ed evidente è l’introduzione della scrittura, con l’adozione dell’alfabeto tarantino, già sul principio del VI sec. a.C. Meno evidenti ma non meno distintive sono poi le produzioni riferibili ad un artigianato ceramico specializzato che si distingue per i motivi geometrici in bruno su fondo chiaro già a partire dall’VIII sec. a.C. Grazie al mare, principale tramite delle influenze elleniche e illirico-balcaniche, il repertorio dei vasi si arricchisce di forme, motivi e segni: svastiche, losanghe, meandri, raggi pendenti e reticoli. Attorno alla metà del VII a.C., nella decorazione si introduce la bicromia, mentre, nel secolo successivo, con la rivoluzionaria introduzione del tornio veloce, si aggiungono due nuove classi ceramiche, quella a fasce e quella acroma, che continueranno ad essere prodotte fino all’arrivo dei Romani.

Tra le forme di gran lunga più caratteristiche della produzione geometrica messapica ci sono da un lato il cratere (vaso per mescere il vino) con anse a fungo, poi soppiantato nel corso del V sec. a.C. dalla forma a colonnette di derivazione greca, dall’altro la lekythos ariballica (per contenere unguenti profumati) e la trozzella che sopravvive, con varianti e modifiche nella morfologia e nelle decorazioni, fino alla fine del III sec. a.C. e oltre. Così chiamata dallo studioso tedesco M. Mayer agli inizi del ‘900, la trozzella si impone come forma distintiva dei corredi funerari femminili.

Archivio Storico Museo Castromediano

È caratterizzata da due manici a nastro ornati alle estremità da rotelle plastiche in argilla, che ricordano le carrucole dei pozzi: trozza nel dialetto locale significa ‘ruota’. Negli esemplari più tardi, ai motivi lineari geometrici si sostituiscono gli elementi vegetali – rami di edera o ulivo, rosette, fiori di loto, palmette -, secondo un gusto comune e diffuso non solo nelle officine dei vasai messapici, ma anche in quelle tarantine, attiche, alessandrine, greco-orientali. Rarissima nella ceramica messapica è la rappresentazione della figura umana: nel museo si conservano due soli esemplari, uno con scena di caccia sul collo e l’altro, di fattura eccezionale, con Eracle.L’itinerario nella quotidianità dei Messapi, in rapporto vivo e stretto con i costumi della Grecia e della Magnagrecia, continua con i racconti del simposio, vale a dire l’arte dello stare insieme tra pari, con gli straordinari vasi in bronzo (ciste, lebeti, paterae, hydriai, oinochoai) e lo strumentario (spiedi, colini, mestoli, grattugie) per mescere il vino e arrostire le carni; dell’arte della guerra, con armi da offesa e da difesa (punte di lancia e giavellotto, cinturoni ed elmi) e della paideia, la palestra, con gli strumenti per gli allenamenti e le immagini di gare sportive e agoni musicali; della musica – intesa come unione di suoni, canti e danze -, incredibilmente presente  in tutte le occasioni pubbliche e private, civili e religiose, come dimostrano le tante immagini sui vasi. E ancora con il racconto della vita quotidiana al femminile: sono oggetti di uso personale che rimandano alla toilette (specchi, fibule, pinzette, contenitori di olii profumati, ecc.) all’arte della tessitura e al mondo dell’infanzia, dai giochi all’educazione. I reperti che si susseguono serrati nella fitta scansione delle vetrine sono il riflesso di una società complessa e organizzata, con una ordinata ed efficiente divisione dei ruoli ed una funzionale ripartizione dei compiti: piccoli oggetti di tutti i giorni e, più rari, oggetti di prestigio, strumenti di lavoro, ornamenti e, ancora, le straordinarie immagini sui vasi a figure rosse di produzione greca o apula ci restituiscono preziose testimonianze degli usi, dei costumi e dei rituali degli abitanti di questo estremo lembo d’Italia.

La cura dei morti, dovere di chi resta

è l’uomo di Neanderthal, nel Paleolitico medio, a praticare per primo il culto dei morti, riflesso di un pensiero simbolico strutturato e dell’instaurarsi di relazioni sociali. Con la diffusione del Sapiens, le pratiche funerarie si fanno più complesse e i defunti continuano ad essere sepolti negli spazi in cui si abita o nelle immediate vicinanze.

Nel corso del Neolitico, compaiono i primi spazi dedicati esclusivamente alle sepolture e allo svolgimento delle cerimonie funebri:  le necropoli. Nel Salento, una delle prime necropoli è quella di Samari, dove sono attestate tombe scavate nel terreno con accanto spazi cerimoniali. Straordinaria per organizzazione e caratteristiche è poi la necropoli di Serra Cicora, risalente al V millennio a.C., con i suoi circoli di pietra, le fosse e i monumenti megalitici.

Nell’età del Rame, molte grotte ospitano centinaia di individui e si diffonde la pratica dei cumuli di terra e pietre a protezione delle inumazioni e incinerazioni dentro vasi. Succede a Salve, dove la necropoli (90 sepolture tra tumuli contenenti una o più incinerazioni in vaso e grandi tombe a lastroni con decine di inumazioni) è utilizzata per circa 1000 anni; e a Grotta Cappuccini, dove tra il 2500 e il 2300 a.C., 300 individui vengono sepolti insieme a vasi, oggetti di ornamento, manufatti in rame.

Singolare ed unica nel panorama archeologico dell’Italia meridionale è l’assenza, nel Salento, di sepolture riferibili al periodo compreso tra il IX e il VII sec. a.C., con l’eccezione dei neonati deposti all’interno di contenitori in argilla (enchythrismoi). Più che alla casualità delle scoperte, il fatto è imputabile alla scarsa visibilità archeologica dei rituali connessi alla sepoltura. Raccontando di Falanto, mitico condottiero dei Parteni fondatori di Taranto, alcune fonti antiche riferiscono della pratica di incinerazione dei defunti e della successiva dispersione delle ceneri durante i riti funebri (Giustino, Epit. III 4, 10-18).

A cominciare dal VI sec. a.C., il rituale funerario dei Messapi prevede l’inumazione entro fosse rettangolari scavate nella terra o nel banco tufaceo di base, o in sarcofagi di pietra locale, come nel resto del mondo greco e italico. Ma, secondo un costume esclusivo dei Messapi, le necropoli si estendono anche in settori distinti delle aree urbane, alternandosi ai nuclei di abitazioni. Inoltre, le tombe sono utilizzate nel corso del tempo per più deposizioni, connotandosi spesso come tombe di famiglia, della quale, a volte riportano il nome, inciso o dipinto sulle pareti interne. La sepoltura è seguita dalla deposizione del corredo: gli oggetti utilizzati in vita e le offerte di cibo accompagnano il defunto anche nella vita ultraterrena. Si tratta spesso, ma non esclusivamente, di oggetti indicativi dello status sociale (età, genere, ruolo) del defunto, o necessari allo svolgimento della  cerimonia funebre; in ogni caso offrono, ad archeologi e  studiosi, preziose informazioni sulla socialità e sulla economia di queste genti. L’identità e il ruolo del defunto sono affidate alla presenza, tra gli elementi del corredo, di oggetti di lusso, materiali esotici, monili preziosi, raffinati vasi figurati, importati dalla Grecia e dall’Oriente attraverso il Mediterrraneo,  pregiati per fattura e perfezione tecnica, ma ancor di più perché carichi di valori simbolici. Successivamente, dal IV sec. a.C., questi sono demandati alle prestigiose architetture funerarie: si attestano, infatti grandi ipogei a più camere, decorati da pitture, sculture e rilievi, sul modello delle contemporanee tombe principesche macedoni ed epirote. I grandi ipogei ornati da sculture e rilievi, come quello delle Cariatidi a Vaste (in parte conservate al MArTa di Taranto) o quello cosiddetto delle porte dipinte, o ancora, il più famoso ipogeo Palmieri di Lecce (nel quale è possibile oggi immergersi con una esperienza di realtà aumentata) non sono solo i luoghi di sepoltura delle aristocrazie messapiche ma anche, e soprattutto, i luoghi della loro autorappresentazione ideale.  Di contro, la presenza numerosa nei corredi funebri delle ceramiche sovradipinte, la cosiddetta ceramica di Gnathia, racconta del consolidarsi di una classe media, indissolubilmente legata alla crescita economica e demografica, all’acquisizione e alla circolazione di più evolute tecniche di sfruttamento agricolo, ad una maggiore e più semplice circolazione di risorse.

Nei decenni iniziali del I sec. a.C., le necropoli poste all’interno dei circuiti murari delle città messapiche vengono abbandonate. Continuano, invece, ad essere utilizzate, almeno in parte, quelle poste all’esterno delle città. Il fenomeno è da mettere in relazione con l’acquisizione dello statuto municipale romano per Lecce (Lupiae), al termine della guerra sociale (89 a.C.). Con la fine dello stesso secolo, è evidente un’altra trasformazione nel rituale funerario: la cremazione del defunto, talvolta insieme al corredo, e la deposizione delle ceneri in urne di terracotta, vetro o pietra.


NOTE:

Per approfondire i Paesaggi del Sacro:

Sissa, M. Detienne, La vita quotidiana degli Dei greci, 1989, (ed. italiana Bari 2001);

Pagliara, Santuari costieri, in Atti del XXX Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 4-9 ottobre 1990, pp. 503-526;

D’Andria, A. Dell’Aglio (a cura di), Klaohi Zis, Il culto di Zeus a Ugento, Catalogo della mostra, Ugento Museo Civico luglio 2002 – febbraio 2003, Cavallino 2002;

Lombardo, Tombe, iscrizioni, sacerdoti e culti nei centri messapici: aspetti peculiari tra sincronia e diacronia, in Archeologia dei luoghi e delle pratiche di culto, Atti del Convegno Cavallino 27-27 gennaio 2012; pp. 155-164;

L. Tempesta, Le immagini greche arrivano in Messapia, in Capolavori del Museo Sigismondo Castromediano, I Quaderni del Museo Provinciale 2″, Lecce 2014, pp. 61-93.

Per approfondire i Paesaggi dei Vivi:

G. Yntema, The Matt-Painted Pottery of Southern Italy, Utrecht 1985;

Lippolis (a cura di), Arte e artigianato in Magna Grecia, Catalogo della Mostra Taranto, Convento di San Domenico 1996, Napoli 1996;

Semeraro, En Néusì, ceramica greca e società nel Salento arcaico, Lecce-Bari 1997;

Ingravallo, Lontano nel tempo. La preistoria del Salento, Lecce 1999;

Alessio, G. Andreassi, Lo Sport nell’Italia Antica. Taranto, la Messapia, la Daunia, Foggia 2004;

Mannino, Vasi attici nei contesti della Messapia (480-350 a.C.), Bari 2006;

L. Tempesta, Usi, costumi e rituali dei Messapi, in Capolavori del Museo Sigismondo Castromediano, I Quaderni del Museo Provinciale 2, Lecce 2014, pp. 31-59;

Giardino, F. Meo (a cura di), Muro Leccese, I segreti di una città messapica, Lecce 2016;

Ingravallo, G. Aprile, I. Tiberi, La Grotta dei Cervi e la Preistoria nel Salento, Lecce 2019.

Per approfondire i Paesaggi dei Morti:

Lombardo, Tombe, necropoli e riti funerari in “Messapia”: evidenze e problemi, in “Studi di Antichità” 7, 1994, pp. 25-45;

Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in “Studi di Antichità” 7, 1994, pp. 137-203;

M.T. Giannotta, Una tomba rinvenuta a Vaste nel 1915 e il ruolo della trozzella nei corredi funerari messapici, in “Studi di Antichità” 11, 1998, pp. 169-178;

Aprile, E. Ingravallo, I. Tiberi, I tumuli della necropoli di Salve. Architetture e rituali nell’ideologia funeraria dell’età del Rame, Bari 2018.


di Anna Lucia Tempesta (foto di Raffaele Puce)

Anna Lucia Tempesta
Laureata in Lettere Classiche con indirizzo archeologico all’Università degli Studi di Firenze, specializzata presso la Scuola di Specializzazione in Archeologia classica e medievale all’Università di Lecce, vincitrice di borsa di Dottorato in Archeologia della Magna Grecia all’Università Federico II di Napoli, è curatrice delle collezioni archeologiche del Museo Castromediano di Lecce dal 2003.
Dal 1991 ad oggi, dapprima in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata, quindi con la Soprintendenza di Puglia, ha curato gli allestimenti del Museo Archeologico Nazionale di Metaponto (1991-2000), dell’Archeologico Provinciale di Potenza (1997),  del Museo Civico Messapico di Alezio (2005); dei Musei diocesani di Gallipoli (2004) e di Ugento (2005), e quello privato di “Casa Colosso” ad Ugento (2007), oltre naturalmente a nuovo allestimento delle sezioni  archeologiche del Sigismondo Castromediano. 
Al suo attivo la direzione ed il coordinamento di attività di ricerca sul terreno in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Basilicata, con le Province di Potenza e Lecce, con la Cattedra di Topografia dell’Italia Antica dell’Università degli Studi di Lecce, con la Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi della Basilicata, con società e cooperative convenzionate con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Austin, in Texas.
Tra le tante mostre organizzate ricordiamo, per ultimo, “Menadi Danzanti, Suggestioni visive tra Antico e Contemporaneo”. Tra i lavori pubblicati L’evoluzione dell’arte ceramica in Italia nella Collezione Tondolo, Secoli XIV-XX (Congedo Editore, Galatina 2018), e contributi per i cataloghi del Museo Archeologico Nazionale di Metaponto: Metaponto. Archeologia di una colonia greca, a cura di A. De Siena, (Scorpione Editrice 2001); del museo Casa Colosso di Ugento La Collezione archeologica Adolfo Colosso, 2008; del Museo Pagliano di Martano Il Museo “Giulio Pagliano” di Martano, a cura di I. Laudisa, (Ed. Grifo 2014); del Museo Borgo Terra di Muro Leccese Muro Leccese. I segreti di una città messapica, a cura di L. Giardino e F. Meo, (Ed. Grifo 2016); oltre naturalmente al catalogo del  Museo Castromediano Capolavori del Museo Sigismondo Castromediano, I Quaderni del Museo Provinciale, voll. 3, (AusEdizioni, 2014).

Il turismo alla ricerca di una nuova normalità

Puglia bella e possibile

La tempesta sembra passata, la vita sembra riprendere (quasi) come tre mesi fa, le città si sono animate, spiagge e locali aperti, nei parchi sono tornati a giocare i bambini. “Sembra”, naturalmente, perché in realtà sono cambiate tante cose dentro e fuori di noi. Se ci fermiamo ad analizzare l’ambito del turismo, in continuità col numero precedente di Puglia tutto l’anno, dobbiamo sottolineare che la filiera del turismo è stata la più colpita, sono venute meno tutte le certezze che sembravano acquisizione sicura. L’intervista all’assessora regionale all’Industria turistica e culturale, Loredana Capone, e l’intervento dell’ex commissaria dell’Azienda di promozione turistica della provincia di Lecce, Stefania Mandurino, avevano tracciato i traguardi e i successi raggiunti dopo un lavoro serrato di anni di impegno. Dobbiamo dimenticare tutto? No, quei dati ora servono da promemoria: eravamo arrivati a un buon livello anche nel difficile ambito della destagionalizzazione non senza la consapevolezza che c’era ancora tanto da fare. Il Coronavirus ha interrotto un percorso proprio quando si cominciavano a incassare i frutti del lavoro di tanti operatori a tutti i livelli.  E ora, dopo che la tempesta sembra transitata, si contano i danni, si chiede e si dà aiuto, si ritorna sul nastro di una ripartenza di un turismo che va alla ricerca di una nuova dimensione, che sarà sempre comunque accattivante perché la materia prima c’è ed è sempre bella. Anzi di più. Sarà comunque una dimensione diversa, si va alla ricerca di una nuova normalità che va costruita tenendo conto proprio degli effetti della “tempesta” appena superata.

L’orizzonte si è improvvisamente ristretto, ma non per questo ci si deve sentire limitati e impediti a continuare a viaggiare. È sufficiente riscoprire il valore della “siepe” di leopardiana memoria, il confine che limita l’orizzonte e che proprio per questo dà lo slancio di guardare al di là fino a cogliere spazi infiniti. Il “turismo di prossimità” c’è sempre stato, ma da quest’anno è diventato una vera e propria necessità. Facciamolo diventare di moda. Scoprire le nostre città e i nostri paesi con occhi nuovi capaci di vedere realmente aspetti che la consuetudine a volte impedisce di notare, conoscere le province limitrofe alla nostra, i punti più lontani e nascosti della regione. Non basterà una sola estate. Anche la Cei, Conferenza episcopale italiana, invita a scegliere i pellegrinaggi nella propria regione, o almeno sempre in Italia. E intanto, conoscendo meglio la Puglia, impareremo a conoscere meglio noi stessi, quel sottile ma forte filo che ci lega ai luoghi e alla nostra storia e che dà senso e sostanza alla nostra identità. Anche perché turismo di prossimità significa anche riscoprire il senso della comunità, dell’accoglienza e dell’ospitalità.  Non sono valori di poco conto.

Non c’è motivo perché i pugliesi non siano nel numero degli italiani che guardano alla Puglia come ad una meta ambita, così come risulta da un’indagine del Codacons: un italiano su tre sceglierebbe la Puglia come meta delle vacanze estive 2020. La regione più ambita i pugliesi ce l’hanno a portata di … piedi, sarebbe imperdonabile se non trasformassero uno stato di necessità in una opportunità virtuosa.  Non mancano i suggerimenti, le guide, i consigli (anche noi di “Puglia tutto l’anno” andiamo in questa direzione). Qualche settimana fa Legambiente e Touring club hanno pubblicato “Vacanze Italiane”, una guida online che raccoglie oltre 200 itinerari tra cui 43 in bici, 63 a piedi, 13 a cavallo e 7 proposte interregionali di lunga percorrenza. Sono otto quelli pugliesi: A cavallo nel Parco nazionale del Gargano; L’avventura sui Monti Dauni; Pedalando nel Parco nazionale dell’Alta Murgia; La Via Traiana e la Piana degli ulivi secolari; Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese; Trekking tra le spunnulate nella Palude del Conte; A piedi nel profondo Salento; Trekking in Salento. (www.touringclub.it/notizie-di-viaggio/vacanze-italiane-puglia). Non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Ripartire, quindi, con la consapevolezza che distanziamento fisico delle persone, sanificazione dei luoghi, mascherine, altre inevitabili e necessarie precauzioni costituiscono dei fattori complessi che operatori e gestori dei servizi turistici devono armonizzare. Quasi tre mesi di chiusura hanno avuto un peso economico considerevole sulle attività della filiera del turismo. Aggiungiamo una ridotta capacità di spesa da parte delle famiglie e il persistere di paure, ansie, incertezze. Si può tornare a viaggiare sereni? Possiamo “affidarci” ai vicini come nel passato? Costa in tutti sensi venir fuori dalla “capanna” che abbiamo costruito intorno a noi.

Nessuno resterà indietro, nessuno resterà solo: il mantra di questo periodo sia dal governo centrale, sia da quello regionale.   La Puglia è ancora bella e sarà ancora possibile con una serie di interventi regionali per operatori turistici in tutti i settori: Microprestito: destinato a piccole aziende (con fatturati fino a 400.000 euro), professionisti, partite Iva, start-up, artigiani, commercianti che potranno accedere a prestiti, a tasso zero, da un minimo di 5mila a un massimo di 30mila euro, erogati direttamente dalla Regione Puglia, senza alcun intermediario e con procedure estremamente celeri e semplificate. Ancora: Aiuti agli investimenti delle piccole e medie imprese nel settore turistico alberghiero, misure finalizzate a sostenere il rafforzamento del capitale circolante delle MPI con un fatturato sino a 50 milioni di euro, attraverso contributi che potranno andare da 30 mila euro sino a un massimo di 2 milioni di euro. Nessun settore è stato trascurato: artigianato, cultura, sport, arte, cinema, musica. La ripartenza sarà veramente tale, se sarà di tutti e nessuno sarà lasciato indietro.

Di Maria Rosaria De Lumé

Bellezza è…

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da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020

Bellezza è il bambino. Corre per la campagna, la esplora e la conquista. Suo padre è lì che dissoda, pota l’ulivo, innaffia i pomodori. Ha i colori della primavera, la terra, perché adesso è primavera. Il bambino li conta e li confronta. Un colore lo attrae più di tutti. È un blu vellutato. Ce l’hanno minuscoli fiori che formano un manto vicino al muretto. Si abbassa a guardarli e poi ne strappa uno. Si accorge che solo se ce n’è tanti insieme è bello il colore. Primaverile è anche il vento, perché il soffio è leggero, una calda carezza.  E poi ha un buon profumo, di tenera erba appena spuntata. Respira, il bambino, a pieni polmoni. È alla memoria che è apparso, il bambino. E non se ne va. Perché solo lì adesso si corre, ci si abbraccia, si gioca. Angusta è invece la stanza. Lontano il respiro dei campi. È cupo il presente. Soltanto il ricordo ora è dolce, gioioso. E allora, che allenti, il pensiero, le briglie, assecondi le imprese!

Bellezza è la lucertola. Il bambino l’ha vista affacciarsi tra le pietre, l’ha attesa. Ha pronto il suo cappio. È un filo di avena selvatica. Se riesce a infilarle la testa e, lesto, a dare uno strappo, la potrà poi portare a guinzaglio, per un po’, e ammirare tranquillo quel verde brillante, frenarne la corsa. Le farà fare il giro del campo, accanto al muretto. Ha un curioso merletto di pietre, il suo campo, uno scialle, una frangia elegante che chiude, di là, l’uliveto, di qua i mandorli, i peschi, il fico gigante.

Bellezza è la pietra. Il lichene la rende più varia. Se è umido, e il muschio si aggiunge, o un rovo s’affianca, il muretto si fa come l’orlo di un grande presepe. La casupola pure, lì a un angolo, è fatta di pietre, ammucchiate, ordinate, disposte con grande maestria a formare una cupola. È lì che conserva la zappa suo padre. Il rastrello, la roncola. E l’anfora d’acqua, panciuta. È lì che dirige la preda il bambino. Vuol darle da bere, per poi farla andare. C’è ombra in quel luogo. Se piove, è un riparo. Il bambino lo chiama furnì. Glielo ha detto suo padre quel nome. E al padre, suo padre. È un’antica parola, che piace al bambino.

Perché la parola è bellezza. È bella la voce che insegna a parlare. È bella la voce che apprende. Ha un po’, la parola, del fiore, un po’ del dipinto. È fatta di umano e divino. Del pensiero essa è la sostanza, come il filo lo è dell’arazzo, del mosaico la tessera dura. Del pensiero, essa è pure strumento. E il cantore che intreccia parole è signore di un dono sublime. Parla al cuore, egli, e alla mente. Conosce il mistero. Sa che l’uomo è un pantano nel quale si specchia l’azzurro del cielo. Bellezza è il papà che ha raccolto la rosa. Il figlio lo guarda mentre, a strati, egli colma il paniere. Ci mette le fave, e i primi fioroni. Poi ci andranno le pesche, gli dice, poi i fichi. Più tardi, d’inverno, le ulive. Si spera, gli dice. E che siano tante, e di resa. Sopra, infine, protetta da foglie, sistema la rosa. Tornato a casa, la darà alla sua donna. Per te è questa – dirà – mia padrona!

Vede in lei la Bellezza.

di Salvatore Tommasi

Scrivo un racconto con tante P e vinco una vacanza in Puglia

Un concorso per bambini (e non solo) promosso da Medinforma

Quando si è costretti a stare all’interno di regole e di limiti ben precisi come in questo periodo di Covid-19, adulti e bambini insieme, spesso in spazi non sempre adeguati, allora è tempo di azionare tutti i dispositivi di auto aiuto. Prima di tutto la creatività, la fantasia in grado di stemperare i disagi e di usare i colori anche se il fondo è grigio. Che fare? Da più parti giungono i consigli degli esperti: insegnare ai piccoli attività manuali, promuovere lettura e scrittura creativa.

In questo contesto si situa l’iniziativa di Medinforma (sedi a Bologna e Lecce), da anni impegnata nella promozione di “Salute e Turismo nel Salento” con l’obiettivo di valorizzare la Puglia e le sue ricchezze naturali e artistiche: in collaborazione con Bhea Edizioni e con questa rivista, ecco la proposta a tutte le famiglie italiane #IoRestoACasaMaLeggoCreoEScrivo, Invito alla lettura e alla scrittura creativa.

Si tratta di un concorso legato alla lettura del libro “Pietro Paolo da Pioppi sul Po – L’inventore della P” scritto da Cino Tortorella, il Mago Zurlì, scomparso il 23 marzo di tre anni fa. L’invito è rivolto ai bambini e agli adulti che in questo periodo hanno più tempo per stare con i loro figli. Il punto di partenza è la lettura del romanzo di Tortorella, davvero molto piacevole.

Successivamente genitori e figli si metteranno alla prova nell’ideazione e scrittura di un racconto che deve avere questa particolarità: la maggior parte delle parole deve iniziare con la P.

Il più lungo e il più bello vinceranno una vacanza per tutta la famiglia, naturalmente in una regione che inizia con la P, naturalmente la Puglia che Tortorella amava e frequentava assiduamente. I racconti devono pervenire entro il 31 maggio all’indirizzo: invitoletturascritturamedinforma.eu.

L’elaborato va inviato in allegato alla mail dove viene indicato il nome e il cognome dell’autore, un contatto telefonico di un referente per le eventuali comunicazioni e il nominativo di chi ha comprato il libro. L’acquisto del libro in versione digitale dà il diritto di partecipazione al concorso a un solo elaborato. Il contributo per l’acquisto del libro è di 5 euro pagabili con PayPal (l’aggiunta di un altro euro sarà il contributo per la ricerca sulla cura delle malattie infettive) all’indirizzo:

http://www.medinforma.eu/invito-alla-lettura-alla-scrittura-creativa/ 

Provvedimenti e prospettive per l’olivicoltura

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Intervista all’onorevole Paolo De Castro 

Onorevole, l’agricoltura è fondamentale per la Puglia. E l’ulivo ne è l’emblema. Lei, pugliese domiciliato a Bologna, e da dieci anni membro effettivo della commissione Agricoltura al Parlamento europeo, conosce bene la storia dell’olivicoltura, da tempo in difficoltà a causa della Xylella fastidiosa. Cosa è successo?

è successo che da quando la batteriosi iniziò a diffondersi e a essiccare le prime piante nel Salento – eravamo nel 2012 – non è stato portato avanti alcun piano organico di contenimento della malattia e le autorità deputate alla gestione del territorio hanno perso tempo, tra burocrazia e rimpalli di responsabilità, lasciando di fatto da soli gli agricoltori colpiti e tutta la filiera olivicola.

Quali sono le misure che i produttori di olio devono adottare in tempo di Xylella?

I produttori prima di tutto devono essere messi nelle condizioni di difendere le loro colture da avversità e malattie che periodicamente possono presentarsi, come è successo per la Xylella. I rimedi per contrastare quest’ultima, che si concretizzano sostanzialmente nell’espianto degli alberi malati e nel reimpianto con nuove varietà di olivo resistenti, sono stati indicati quasi subito dagli esperti. Ma purtroppo gli agricoltori e gli operatori della filiera non sono stati correttamente informati sulle procedure da seguire. Col risultato che a distanza di sette, otto anni, siamo ancora quasi al punto di partenza. E nel frattempo la malattia non è stata fermata.

Quali misure europee sono in atto?

L’Unione europea, dopo avere esaminato la questione in modo rigoroso e scientifico, nel 2014 ha deciso e comunicato all’Italia che le piante malate e le fonti di inoculo del batterio andavano eliminate. Ma purtroppo questo intervento, nonostante il sostegno economico dell’Ue per contrastare l’avanzata della batteriosi, è stato fatto solo in parte, col risultato che la Xylella, sia pure lentamente, nel frattempo si è diffusa anche in altre province, come Bari e Taranto.

Quali i provvedimenti che intende adottare per sostenere i piccoli e medi proprietari di ulivi?

Oltre ai fondi europei, che tra l’altro consentono agli agricoltori interessati di riconvertire la produzione, sostituendo ad esempio gli ulivi estirpati con altre colture, il governo italiano ha recentemente stanziato altre risorse finanziarie nella speranza di mettere la parola fine a questo flagello e ridare fiducia anche a piccoli e medi proprietari di ulivi. Produttori che da generazioni praticano un’agricoltura perfettamente integrata con il patrimonio ambientale dei nostri territori a beneficio di tutti, popolazioni residenti e turisti in arrivo da tutto il mondo.

Quali sono le prospettive?

A questo punto mi auguro che il decreto interministeriale del 6 marzo scorso, che dà attuazione al Piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia, e i 300 milioni stanziati dal Governo possano ridare ossigeno a breve agli olivicoltori che da anni sono senza reddito, rilanciando tutta la filiera olivicola pugliese che, voglio ricordare, rappresenta l’ossatura centrale per il settore a livello nazionale, con oli di eccellenza riconosciuti a Denominazione di origine protetta dall’Unione europea.

Salute e Turismo è un progetto teso a valorizzare le professionalità della salute della Puglia in un contesto straordinario che è il Salento. Ce la possiamo fare, nonostante la Xylella e nonostante il Coronavirus?

Conosco e apprezzo il progetto che punta a far conoscere, tra l’altro, le proprietà organolettiche dei nostri oli extravergini d’oliva. Se sapremo fare leva sul contributo di medici, nutrizionisti e una corretta informazione sono convinto che salute e turismo, in un territorio straordinario come il Salento, potranno diventare un binomio vincente e un volano di crescita per la nostra economia, soprattutto dopo le emergenze che stiamo affrontando in questi giorni.

di Maria Rita Pio

Xylella, guardiamo avanti

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Politica e sindacalista italiana, Teresa Bellanova è nata a Ceglie Messapica; lascia gli studi per andare a lavorare nei campi. Giovanissima, entra nelle organizzazioni sindacali dei braccianti e si impegna contro la piaga del caporalato. Il 28 febbraio 2014 è stata nominata sottosegretario di Stato al lavoro nel governo Renzi, ed, in seguito, il 29 gennaio 2016, viceministro dello sviluppo economico. Dal 5 settembre 2019 ministra delle politiche agricole alimentari e forestali nel governo Conte II.

 

Intervista alla ministra Teresa Bellanova 

Teresa Bellanova, nessuno più di lei può capire il dramma che sta vivendo il Salento con la Xylella. Bracciante, sindacalista, già sottosegretaria allo Sviluppo Economico e ora Ministra per le Politiche Agricole, ma soprattutto: pugliese, del Salento. Come lo vede e vive questo dramma?

Vedo quello che vedono tutti: un paesaggio che l’avanzare del batterio ha totalmente modificato e che noi dobbiamo essere capaci di rigenerare. Non a caso dico con forza noi. Solo un lavoro veramente corale potrà avere i risultati sperati.

Ad oggi non vi sono ancora rimedi efficaci per contenere e combattere questo flagello. Quali sono le indicazioni del Governo e del suo Ministero in particolare?

Rigenerare il paesaggio, avere cura del territorio, contenere e contrastare l’avanzare del batterio vanno di pari passo. Abbiamo finalmente a disposizione il Piano per la rigenerazione olivicola, 300 milioni in due anni. Le parole chiave sono precise: indennizzi, investimenti, ricerca.

Va assolutamente recuperato il tempo perduto: monitoraggio, rimozione degli alberi infetti, reimpianti, utilizzo di pratiche agronomiche mirate a ridurre il rischio di diffusione della malattia, sostegno al reddito degli agricoltori, investimenti produttivi per il rilancio del territorio, sostegno a frantoiani e florovivaisti. Bisogna voltare radicalmente pagina. Ricerca e innovazione devono essere nostre indiscutibili alleate.

Quale sarà il paesaggio che il Salento offrirà nei prossimi anni?

Nessun paesaggio è statico, i luoghi e i territori mutano continuamente. In questa trasformazione sono convinta che l’agricoltura può e deve avere un ruolo centrale. La qualità dei territori non è in astratto. Troppo spopolamento, troppo abbandono e troppo consumo di suolo. è su questo che dobbiamo essere capaci di incidere fortemente. Perché accada, sostenibilità ambientale, sociale, economica si tengono fortemente. Il paesaggio del Salento nei prossimi anni avrà bisogno dell’impegno e della responsabilità di tutti. Dobbiamo lavorare perché agricoltura e agroalimentare siano fortemente attrattivi per le nuove generazioni, la più straordinaria leva per l’innovazione su cui possiamo contare. E perché siano sempre più a trazione femminile. Nuove generazioni e donne. è uno dei miei obiettivi prioritari.

Qual è il destino dei piccoli coltivatori e produttori di olio? Quali gli aiuti previsti?

Questo piano è degli agricoltori. E prevede azioni appropriate oltre che per l’accelerazione degli espianti e il reimpianto, per il risarcimento dei danni subiti dalle imprese agricole e dai frantoi oleari, le figure economiche più colpite e su cui è necessario concentrare l’attenzione per la ricostruzione e rigenerazione del sistema economico e produttivo.

La Puglia grazie al suo patrimonio di eccellenze artistiche, naturali e gastronomiche è diventata una meta per il Turismo nazionale e internazionale. Da questa crescente richiesta nasce il Progetto “Salute e Turismo”: fare una vacanza meravigliosa e contemporaneamente usufruire di terapie mediche all’avanguardia utilizzando strutture situate in contesti straordinari. Uno dei progetti che abbiamo recentemente riproposto è “Regala un Sorriso”, che consiste nel regalare un trattamento odontoiatrico al posto di cose superflue. Il Sorriso, trattamento odontoiatrico, ma anche stile di vita, abito da indossare nei rapporti umani, accoglienza e mano tesa. Ci dica il suo pensiero sul Sorriso.

Ho sempre pensato che il sorriso sia uno dei modi che abbiamo per accogliere gli altri. Il grande Charlot aveva ragione: un giorno senza un sorriso

di Maria Rita Pio

Il caso Xylella e la rigenerazione dell’agricoltura nel Salento

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Xylella fastidiosa è un batterio che svolge il ciclo vitale su diverse piante, oltre 300, legnose ed erbacee, coltivate e spontanee, alcune suscettibili, che si possono quindi ammalare, altre tolleranti, altre resistenti. L’elevato numero di piante in grado di ospitare il batterio garantisce al patogeno l’insediamento stabile nelle aree in cui è stato introdotto.

Ad infezione avvenuta il batterio provoca, riproducendosi e formando ammassi cellulari, occlusione dei vasi legnosi (xilematici) della pianta adibiti al trasporto della linfa grezza (soluzione acquosa di sali minerali) dalle radici verso l’alto. L’ostruzione è causa di seccumi che all’inizio interessano le foglie (bruscatura), poi i rami, quindi le branche (disseccamenti) fino a compromettere l’intera pianta. Gli olivi colpiti tendono a ricostituire l’apparato vegetativo emettendo polloni destinati anch’essi, in breve tempo e per la stessa causa, a deperire. Il batterio non è sporigeno, quindi non si diffonde per contatto o diffusione aerea, ma principalmente tramite insetti vettori (il più noto è la cosiddetta sputacchina, Philaenus spumarius) che, nutrendosi di linfa vegetale, incamerano il batterio da piante infette e lo introducono in altre piante della cui linfa si nutrono. Anche l’innesto (pratica ampiamente diffusa in campo ornamentale e agrario) può trasmettere il batterio ed è attendibile che la Xylella abbia raggiunto il Salento veicolata da vegetali infetti importati. L’epidemia sembra dunque conseguenza del commercio globalizzato non assistito da un’opportuna rete di sicurezza per gli organismi da quarantena. Nel 2008, quando apparvero i primi preoccupanti sintomi su olivi a ridosso della fascia costiera di Gallipoli, di Xylella non se ne parlava e il fenomeno colse tutti di sorpresa; furono ipotizzate diverse cause e concause (funghi, larve d’insetti rodilegno, inquinamento della falda acquifera, abbandono colturale, ecc.).

Nel 2013 il compianto prof. Martelli dell’Università di Bari, Dipartimento di Scienze del Suolo, della Pianta e degli Alimenti, individuò in Xylella l’agente patogeno causa della moria di olivi: all’epoca erano già seccati (quindi infetti) oltre 8.000 ettari di oliveto in provincia di Lecce. Le due principali varietà di olivo storicamente presenti nel leccese, l’Ogliarola di Lecce e la Cellina di Nardò, si mostrarono da subito particolarmente suscettibili alla malattia. In seguito è stata accertata la resistenza/tolleranza al batterio di due varietà: la FS17 (Favolosa) e il Leccino, attualmente utilizzate per i nuovi impianti. Ad oggi altre sei varietà sembrano mostrare caratteri di resistenza o tolleranza. Studi, ricerche, analisi e monitoraggi svolti da organismi scientifici e tecnici di spessore, regionali, nazionali e internazionali (EFSA), hanno confermato, oltre ogni ragionevole dubbio e ipotesi complottistica, che la causa della distruzione dell’olivicoltura nel Salento è da attribuire a “Xylella fastidiosa subsp. pauca ceppo ST53, CoDiRO (Complesso del Distaccamento Rapido dell’Olivo – Olive Quick Decline Syndrome, o OQDS, nella letteratura scientifica internazionale)”, organismo nocivo da quarantena. Non si conoscono metodi di lotta efficaci e il contenimento dell’infezione nei territori colpiti è la sola strategia adottata e adottabile per evitare il diffondersi della malattia.

Entrare nel dettaglio delle vicende che hanno caratterizzato per oltre 10 anni il dramma dell’olivicoltura salentina, fra linee guida, misure di emergenza e di tutela, piani straordinari, inchieste della magistratura, determinazioni, provvedimenti, delibere regionali, decisioni comunitarie, decreti, leggi nazionali e scontri fra poteri istituzionali, sarebbe veramente dispersivo e non esaustivo. Vale la pena considerare alcuni passaggi significativi del processo che ha interessato il territorio. Fra i tanti, il cosiddetto Piano Silletti (2015) voluto per il contenimento dell’infezione (eradicazione della pianta colpita e delle piante prossime entro un raggio di 100 metri) sul quale si riversarono pressioni di tutti i tipi, di piazza, politiche, mediatiche e giudiziarie con l’inchiesta della Procura di Lecce (sullo stesso Silletti e altre nove persone). Seguirono le dimissioni del Silletti e lo stop del piano, fino alla recente archiviazione (2019), accolta dalla Procura di Lecce, su richiesta della magistratura inquirente, per assenza del nesso di causalità: «Pare impossibile trovare la prova certa che, osservate le corrette regole di comportamento, l’evento non si sarebbe comunque realizzato». Traspaiono non poche perplessità (irregolarità, negligenza, pressappochismo, scorrettezze, prevalenza di interessi economici…) su come è stata affrontata l’emergenza dal sistema in generale, dai decisori politici alla macchina burocratica, dagli organismi scientifici a quelli tecnici.

Ad oggi (BURP n.8 del 24.01.2019) il sud della Puglia è diviso in:

– Zona infetta: comprende l’intera provincia di Lecce, Brindisi e parte di Taranto: è la zona in cui il batterio è insediato e in cui non è possibile eradicarlo. In questa zona la decisione non fissa alcun obbligo di eliminare le piante infette.

– Zona di contenimento: è la fascia di 20 km della zona infetta adiacente alla zona cuscinetto in cui devono essere effettuati il monitoraggio, l’attuazione delle misure di contenimento attraverso l’estirpazione delle piante risultate infette e la lotta al vettore.

– Zona cuscinetto: è la fascia di 10 km di larghezza che circonda la zona infetta. È una zona indenne in cui deve essere effettuato il monitoraggio e, nel caso di ritrovamento di un focolaio, l’applicazione di “misure di eradicazione”, che consistono nell’eliminazione della pianta infetta e di tutte le piante delle specie ospiti, indipendentemente dal loro stato di salute, presenti nel raggio di 100 m e nella lotta al vettore. In provincia di Lecce la superficie olivetata ammonta (ammontava) a circa 90/95.000 ettari, impiantati per il 53% con la varietà “Cellina di Nardò” e il 41% con la “Ogliarola leccese”, colpite a morte dalla Xylella in quanto, come accennato, molto suscettibili alla malattia. La restante parte, meno del 6%, è interessata da varietà di olivo introdotte di recente (Nociara, Leccino, Frantoio, Picholine ecc. che mostrano gradi di tolleranza/resistenza diversi). Considerando un patrimonio iniziale di olivi di circa 9.000.000 di piante, attualmente sono circa 6.000.000 le piante di olivo secche: una strage.

Gli olivicoltori, e con essi tutti i soggetti della filiera dell’olio, messi in ginocchio dalla perdita del patrimonio arboreo e da anni di mancati redditi, si dibattono stritolati da un’impietosa burocrazia, da normative imbarazzanti e da “gravami” di settore a stento tollerabili, speranzosi in sostegni, non solo economici, lontani all’orizzonte e senza i quali è impossibile ripartire. Finora gli aiuti al settore sono stati limitati al riconoscimento della “calamità naturale” per il 2015 (11.000.00 di euro dal Fondo di Solidarietà Nazionale, circa €600,00 ad ettaro alle sole aziende che, all’epoca, hanno potuto fare richiesta). È in itinere un riconoscimento irrisorio per il 2016 e il 2017 mentre di niente si parla per il 2019 e il 2020. Poi ci sarebbero gli aiuti previsti dal PSR, Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 della Regione Puglia, in particolare il bando della Sottomisura 5.2 “Sostegno a investimenti per il ripristino dei terreni agricoli e del potenziale produttivo danneggiati da calamità naturali, avversità atmosferiche ed eventi catastrofici” tristemente in transito sui tavoli della Regione Puglia, del Ministero e della Commissione Europea. Insomma, “la situazione è grave ma non è seria”, come si usa dire, in quanto certamente “serio” non è stato il modo in cui sono stati affrontati l’emergenza e l’avanzamento dell’epidemia, né è serio il modo in cui è, a tutt’oggi, affrontata la crisi di settore. Gli agricoltori (e non solo) guardano alla “rigenerazione” dell’agricoltura e del territorio salentino, ma la realtà in generale è complessa e quella agricola è tipicamente frammista ad aspetti sociali, ambientali, paesaggistici, turistici e fondiari di cui inevitabilmente occorre tener conto.

E allora cosa fare, come procedere?

Di certo “nessun vento è buono per chi non sa dove andare” quindi occorre conoscere la meta. Dopo la scomparsa dell’olivicoltura tradizionale che per secoli ha caratterizzato il settore produttivo agricolo, dopo la distruzione del paesaggio agrario degli uliveti (monumentali, millenari, secolari) delle zone interne e delle fasce costiere, dopo il crollo dell’economia locale, COME SI VORREBBE IL SALENTO DA QUI A VENTI, CINQUANT’ANNI tenendo conto delle caratteristiche, delle potenzialità e della vocazione dei terreni e del territorio? Di questo bisognerebbe parlare, se mai verrà superata l’emergenza economica con i necessari e urgenti aiuti al settore. Parlarne con coraggio, convinzione e perizia, tenendo conto della necessità di un approccio che richiede competenze diverse e multisettoriali (agronomiche, ambientalistiche, paesaggistiche, di macro e micro economia, di marketing, turistiche…) e condivisione della base sociale, imprenditoriale e politica.

Ideare, progettare, pianificare (nel breve, nel me- dio e nel lungo periodo) IL PIANO DI RIGENERAZIONE DEL SALENTO e poi realizzarlo strada facendo: queste le parole chiave per salvare l’agricoltura e il territorio salentino. Da anni è l’impegno sostenuto da alcune associazioni di categoria e professionali che, evidentemente, non possono far altro che indicare la strada il cui percorso dev’essere inevitabilmente tracciato dalla politica.

Maurizio Cezzi

 

 

 

 

di Maurizio Cezzi