Poesie di Gianni Seviroli
La nuova dimensione del turismo religioso
Tre domande a don Gionatan De Marco, Direttore dell’Ufficio nazionale della CEI per la pastorale del tempo libero, turismo e sport.
In alcuni suoi interventi lei parla di “turismo conviviale” che sembra una connotazione necessaria proprio in ragione di quel “religioso”. Dovrebbe essere un turismo “capace di diventare pane”: lo può spiegare brevemente?
Il turismo conviviale è una declinazione al futuro di quello che fino a ieri chiamavamo turismo religioso. È un modo di tratteggiare l’esperienza del turismo con le coordinate della bellezza, dello stupore e della comunità. Oggi, soprattutto dopo l’esperienza pandemica, solo la bellezza potrà guarire quelle ferite dovute al distanziamento sociale e alle paure che il Covid ci ha inculcato. Una bellezza non da spiegare, ma da ascoltare. Una bellezza che porta con sé messaggi capaci di evocare attimi passati, quelli neri da ospitare e quelli luminosi da rigustare. Una bellezza capace di generatività con narrazioni che parlano meno di storia e molto più di vita, quella quotidiana della gente che ha bisogno non di cronaca, ma di messaggi, non di telecronache, ma di parabole capaci di riattivare sogni e desideri. Una bellezza che si fa scuola di stupore, che intendo non tanto come emozione, quanto come atteggiamento di fronte alla vita accaduta e di fronte alla vita attesa. Bellezza e stupore che si fanno pane nell’incontro con una comunità che non guarda al turista come un cliente, ma come un ospite… atteso, desiderato. Una comunità che sa attivare nell’ospite il sesto senso, quello di sentirsi a casa.
Crede che i tempi siano maturi e che il periodo e le difficoltà che stiamo vivendo facilitino questo percorso?
Sono convinto che questo periodo sia tutto da ascoltare. Perché ciò che è accaduto non ha seminato paura e morte, ma ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità di custodi disattenti nei confronti di una creazione che è stanca di essere sfruttata e deturpata. L’oggi non può ridursi in questione economica. Vorrebbe dire che non abbiamo capito nulla. L’oggi deve spingerci a scelte fino a ieri impensabili. E tra queste scelte vedo come urgente quella di adottare la convivialità come ritmo del vivere sociale ed economico… anche nell’ambito turistico. Esperienze sociali ed economiche che non si declinano lungo i tracciati del profitto, ma che si inclinano alla logica del dono che si fa scommessa sull’altro, sulle sue potenzialità e sui suoi talenti, sulle sue risorse e sui suoi sogni, sapendo che una strada spianata donata, prima o poi verrà ricambiata in ricadute sociali ed economiche impensabili, dove la gara non è a chi ha di più, ma a chi condivide di più per un benessere condiviso. Oggi, l’urgenza, non è rimettere in piedi il sistema Paese di ieri, ma fondare il sistema Paese di domani, avendo il coraggio di soppiantare le solite dinamiche dei pochi che emergono per far spazio a logiche sovversive dei tanti che danzano una vita realizzata, non più schiava dell’arroganza dei soliti noti. I tempi sono maturi? Lascio al lettore la risposta.
La Puglia da San Michele Arcangelo a S. Maria di Leuca offre mete turistiche ricche di storia e di spiritualità: quale l’approccio corretto del viator dei nostri giorni?
Il problema, a mio parere, non è l’approccio dell’homo viator di oggi, che – come quello di un tempo – si fa cercatore di messaggi capaci di dare un senso a quella vita spesso inquieta. Il problema, oggi, è di chi ha fatto di quelle esperienze di storie e di spiritualità una mera questione di marketing. Fin quando il turismo – soprattutto quello religioso – verrà programmato con logiche economiche, non darà mai al nostro territorio regionale la possibilità di essere una terra finestra. Occorre riportare il turismo nel recinto dell’antropologia, della sociologia, dell’educazione, perché solo allora tornerà ad essere luogo dove la storia riscrive storie e dove le comunità si riscoprono protagoniste di narrazioni autentiche e non succubi di storytelling prefabbricato. La Puglia ha una storia che dimostra che la scommessa del turismo conviviale è la più attuale e – se accolta e tradotta nei territori – può rivitalizzare comunità che vedono annerirsi il futuro perché sempre più spoglie di giovani. Il turismo conviviale scommette non sul piano di marketing, ma sul progetto di comunità che si riscoprono laboratorio di possibilità dove la bellezza si fa parola e le esperienze si fanno pane, per una restanza felice.
a cura di Ilaria Lia
La Taranta per Sergio Blasi
Intervista a Sergio Blasi
Come ricorda Antonio Avantaggiato a chi non ha avuto il privilegio di conoscerlo?
Nonostante siano passati 25 anni dalla sua scomparsa il suo ricordo è ancora vivido, presente in ognuna delle mie giornate. Limpido e forte, come forte e pugnace era la sua personalità, mi ha insegnato la politica. Mi ha fatto innamorare della politica come la più straordinaria delle invenzioni umane, perché attiene alla vita degli uomini, alla sua organizzazione nei luoghi che vivono e frequentano. Quando non si riduce a sola tecnica ma la si fa a cuore aperto è davvero la più nobile delle arti.
Questo ho imparato da Antonio ed è questo il segno che ha lasciato nella mia anima e nella mia testa. La sua intelligenza era veloce come un lampo e pura come una colomba. È stato un grande Politico della nostra terra che ha avuto l’ambizione di svolgere il suo ruolo di Sindaco non semplicemente per amministrare la sua comunità ma per governarla: mettendoci tecnica e passione, sogno e realismo. Ha pensato e realizzato La Notte della Taranta tenendo ben fermo l’obiettivo di far conoscere il Salento per la bellezza del suo patrimonio: dall’arte al territorio, dalla tradizione al folklore.
Arrivati alla 23^ edizione, l’obiettivo per cui la Fondazione è nata è stato raggiunto?
Ho lasciato la Fondazione della Notte della Taranta nel settembre 2015, da allora non ho più proferito parola né sul Festival né sulla Fondanzione, credo sia giusto non farlo anche in questa occasione. Quando si ci distacca da un figlio ci si chiude nei ricordi più belli. Nella lettera con cui mi dimisi dal consiglio di amministrazione della Fondazione scrissi: <<Esprimo un unico rammarico: non essere riuscito a fare della Fondazione ciò che avevo immaginato. Non solo il luogo dove si organizza il Festival ma una vera e propria scuola dove giovani ricercatori, studiosi, appassionati, approfondiscono e ricercano, scavando nella nostra cultura immateriale, nel folklore (il sapere del popolo) del Salento, della Puglia, dei tanti Sud del mondo, del Mediterraneo. Purtroppo non tutti i sogni diventano realtà, anche quelli che, dopo 18 anni, pensavo fossero a portata di mano. Io mi fermo qui>>.
Si è salentini “nell’anima”, lei hai fatto tanto e si sta battendo molto per questa terra, ha fatto un percorso ricoprendo cariche sempre più importanti, dando modo di fare ancora di più per la Puglia e il Salento. Qual è il progetto che vorrebbe vedere nascere e crescere?
Ho speso questi miei anni di consigliere regionale della Regione Puglia perseguendo, tra le altre cose, l’obbiettivo né semplice né scontato di riuscire a far costruire in questa parte del Sud Salento un nuovo Ospedale. Per anni abbiamo combattuto contro un impianto industriale che inquinava. Siamo riusciti a farlo chiudere (si chiamava Copersalento). Posso dire con soddisfazione che ci siamo. La Regione Puglia ha acquisito il finanziamento dal Ministero della Salute e si sta lavorando alla progettazione esecutiva, sarà un Ospedale di primo livello. Innovativo e ad alta tecnologia. Riuscire in questa impresa è una prova che dà senso all’impegno politico di una vita. Lo riempie degnamente.
Una domanda curiosa parliamo di soul food, quale cibo o piatto la fa sentire a casa?
Non c’è dubbio: un piatto di orecchiette con lo “schiattariciato”, cioè le orecchiette con il pomodoro fresco appena buttato a scottare in del buono olio d’oliva extra vergine del Salento e poi fatto ben amalgamare. E una foglia di basilico appena messa la pasta nel piatto: è certo che quel piatto ha in sé tutta la meraviglia del Salento.
Aspettando il Concertone – XXIII edizione Notte della Taranta
Siamo arrivati all’edizione numero 23, mai saltata una e non succederà ora nonostante l’emergenza Corona virus. Non ci saranno le 19 tappe del Festival itinerante, annullate dal Consiglio di amministrazione della Fondazione La Notte della Taranta, in accordo con tutti i sindaci della Grecìa Salentina. Anche il Concertone del 22 agosto sarà a porte chiuse e trasmesso il 28 agosto su Rai 2 alle 22.50.
Con l’utilizzo della tecnologia sarà questa edizione a raggiungere ognuno di noi attraverso il web o la tv. Anche nella sua forma virtuale la musica sarà capace di rapirci l’anima e regalarci momenti magici nel rispetto delle rigidissime misure anti Covid-19. La location sarà sempre Melpignano l’esibizione sarà fatta probabilmente all’interno del convento degli Agostiniani, il maestro concertatore Paolo Buonvino insieme alla Fondazione è al lavoro per l’ottimizzazione della manifestazione.
L’ultimo brano dell’Orchestra Popolare della Notte della Taranta, la “Quarantella”, ha rallegrato la Pasqua in tempo di quarantena. Usando il multimediale questo sound comunque riesce a trasmettere emozioni.
Nelle ultime settimane che hanno caratterizzato un periodo inaspettato della nostra vita, abbiamo sentito tanto parlare di persone coraggiose e accostare la Notte della Taranta a persone coraggiose ci porta inevitabilmente al ricordo di chi, con il suo coraggio, la sua determinazione e la ferma volontà ha fatto parlare in quasi tutto il mondo di questo piccolo paese del Salento: Melpignano.
Siamo nel 1980 quando il giovane Antonio Avantaggiato viene eletto Sindaco di Melpignano (da giugno 1980 a giugno 1990); con il responsabile delle attività culturali Sergio Blasi (dal 1983 al 1993) ha inizio una guida amministrativa brillante e oculata. La loro determinazione e lungimiranza li porta a realizzare il primo festival di gruppi rock sovietici in Italia. Il 23 e il 24 luglio del 1988 il campo sportivo di Melpignano ospita il festival de “Le Idi di Marzo”.
Antonio Avantaggiato mette il turbo a un paese di poco più di duemila anime, scuotendo le giovani menti, proponendo loro un nuovo punto di vista, il piccolo paese diventa punto di riferimento culturale, fucina di iniziative, fermento e movimento. La vita nel paese, in quel periodo, era emozionante. Tanti progetti culturali coinvolgenti, non solo per giovani, ma anche per gli adulti, c’era sempre qualcosa da fare con curiosità ed entusiasmo. Una sveglia dal torpore. Abbiamo scoperto di possedere determinazione, talento e unicità, eravamo stati asintomatici sino a quel momento. È stato come guardare un quadro in bianco e nero per anni, per poi assistere allo sbocciare dei colori, che erano sempre stati lì, ma potevano essere visti solo se guardati dal nostro punto di vista senza seguire la massa per paura di essere giudicati, lasciando spazio alla nostra individualità. Magnifico. Antonio Avantaggiato “il giovane sindaco di Melpignano”, muore prematuramente il 4 aprile del 1995, periodo di elezioni e liste già depositate. Stimatissimo come persona, in quella triste situazione ci fu grande rispetto da parte di tutti. L’avversario politico ritirò la candidatura e il Prefetto annullò i comizi elettorali. La Piazza che ospita il Municipio porta il suo nome. Nulla si è fermato, con la stessa lungimiranza e determinazione, accompagnato da un amore per la sua terra oltre ogni cosa, sarà il consigliere alla cultura Sergio Blasi a immaginare e volere la prima edizione della Notte della Taranta nel 1998 (lui a scanso di equivoci ama definirsi non il “padre”, ma la “madre” della Notte della Taranta), creando onde di incredibile bellezza capaci di varcare i confini. Ricopre tale carica fino al 2000, anno in cui diventa Sindaco di Melpignano.
Attualmente è componente delle Commissioni consiliari della Regione Puglia. Blasi ha da sempre sostenuto l’incontro tra culture musicali diverse che ha declinato con lo sviluppo del territorio, fino alla istituzione della Fondazione “La Notte della Taranta”, progetto fondamentale per il Salento, la Puglia, e non solo: <<è il sogno di tutti i sud: mostrare con orgoglio ciò che lungamente è stato considerato qualcosa di cui vergognarsi – perché, fino a non molti anni fa, erano percepiti come vergogna il passato contadino, i dialetti, la cultura orale – e scoprire invece di possedere un tesoro, da mettere a frutto per il bene di tutti>>.
Artisti di fama mondiale si sono esibiti sul palco da Stewart Copeland a Franco Battiato, Gianna Nannini, Pino Zimba, Piero Pelù, Giovanna Marini, Lucio Dalla, Uccio Aloisi, Peppe Servillo, Buena Vista Social Club, Einaudi e così via, edizione dopo edizione. Il pubblico, che già nella prima edizione del 1998 contava 5000 presenze, ha raggiunto nel 2019 le 200.000. Mi piace pensare che il numero delle presenze del 2020 sarà infinito, perché saranno presenti quelle persone che per motivi vari non hanno potuto partecipare nel passato, chi non sarebbe potuto esserci quest’anno e chi non ci è mai stato, con le nuove tecnologie, virtualmente… ci saremo tutti.
Ecco il testo con traduzione della canzone Kali Nifta, che chiude tradizionalmente il Concertone della Notte della Taranta, lo canteremo virtualmente tutti insieme alla fine di questa edizione speciale che racconteremo in futuro insieme alla storia di tutte le persone coraggiose.
Kalinifta
Tien glicea tusi nifta ti en òria
cìevò plonno pensèonta ‘ss’esena
C’ettù mpì ‘s ti ffenèstra ssu agàpi mu
tis kardia mmu su nifto ti ppena.
Larilò larilò lallerò, larilò larilò llà llà…
Evò panta ss’esena penseo
jati ‘sena, fsichi mmu ‘gapò
ce pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò
Larilò larilò lallerò, larilò larilò llà llà…
[…]
Kali nifta se finno ce pao
plaia ‘su ti vo pirda prikò
ma pu pao, pu sirno pu steo
sti kkardia panta sena vastò.
Larilò larilò lallerò, larilò larilò llà llà…
Buonanotte
Com’è dolce questa notte, com’è bella
e io non dormo pensando a te
e qui sotto la tua Finestra, amore mio,
del mio cuore ti apro le pene… Larilò larilò lallero…
Io sempre a te penso,
perché te, anima mia, io amo,
e ovunque io andrò, vagherò, starò
nel cuore sempre te porterò… Larilò larilò lallero…
[…]
Buonanotte! Ti lascio e fuggo via
dormi tu che io sono partito triste
ma ovunque io andrò, vagherò, starò
nel cuore sempre te porterò… Larilò larilò lallero…
di Maria Rita Pio
Io e il Griko
Da piccolo parlavo in griko.
Non amo parlare di me. Se talvolta lo faccio, uso la maschera della poesia. Ma, su questo argomento, parlando di me, tutto diventa più chiaro. Il caso ha voluto, infatti, che la storia del griko si intrecciasse con la mia. Nel senso che sono l’ultimo testimone (a livello generazionale) di questa lingua. Il griko era infatti la mia lingua materna. Sono nato in una famiglia umile, ma onesta e laboriosa. Una famiglia contadina. Pure le famiglie dei miei parenti, dei miei vicini, della maggior parte della gente del mio paese, assomigliavano alla mia. Anche se il mondo stava cambiando e bisognava adattarsi, cercando nuove attività e nuovi lavori, tutte le persone che conoscevo erano ancora legate, immerse nei valori, nella mentalità, nella struttura della civiltà contadina. E la loro lingua era il griko. Perché parlavamo questa lingua? Una volta, da bambino, lo chiesi a un adulto. Mi rispose: “Jatì ìmesta griki” (perché siamo griki). Era la consapevolezza di un’identità che si esprimeva nella lingua.
Eravamo greci, un po’ diversi, ormai, come la nostra lingua che, a furia di stare in terra straniera, aveva accolto in sé le parole e i suoni che le stavano intorno. Da quanto tempo stavamo in terra straniera, noi e la nostra lingua? In questa punta estrema dell’Italia, della Puglia, nel Salento? La domanda se la posero, poi, gli studiosi della cultura “alta”, quando si accorsero della strana, eccezionale, presenza. Era la fine dell’Otto- cento. Discettarono sulla nostra origine, bizantina o magnogreca, con dovizia di analisi, ma senza mai accordarsi. Gli ultimi studiosi hanno infine tagliato il nodo gordiano e hanno proposto una lunga, ininterrotta continuità, a partire addirittura dalla civiltà cretese. Millenni di storia, insomma, racchiusi nell’umile scrigno del griko.
Aveva avuto una cultura “alta” anche il griko, in realtà. Un tempo, mentre i contadini parlavano il loro greco popolare, c’erano maestri che scrivevano e insegnavano il greco dotto, c’erano monaci che copiavano opere antiche, c’erano preti ortodossi che officiavano i riti religiosi. Dal Seicento in poi, nulla più di tutto questo. La Riforma cancellò l’ultima traccia della cultura dotta, quella religiosa. Rimase solo la lingua parlata dal popolo, trasmessa oralmente attraverso le ultime generazioni. Un attaccamento tenace, per quanto territorialmente ridotto in un nucleo di nove, ora sette, paesi.
A cinque anni seppi di conoscere un’altra lingua. La nascita di mio fratello segnò, nella mia famiglia, lo spartiacque. Lo stesso spartiacque caratterizzò ogni famiglia del mio e degli altri paesi grecofoni. Solo un paese lo dilazionò di qualche anno. Senza alcun referendum, si decise allora tutti insieme che era tempo di cambiare abito comunicativo. I “vecchi” continuarono a usare tra loro il griko, con i “nuovi” si usò il dialetto romanzo. Una Babele, cui si aggiunse l’italiano perché si andava a scuola, si ascoltava la radio, si accoglieva la nuova civiltà.
L’italiano divenne poi, per me e per i miei coetanei, la lingua del lavoro, della socialità. La cultura italiana dotta, ufficiale, moderna, divenne la mia, la nostra cultura. Il griko (aveva anche una sua cultura, questa lingua?) fu relegato, comprensibilmente, forse, all’ambito strettamente familiare, ma divenne anche, meno comprensibilmente, sinonimo di ignoranza, di arretratezza, di subalternità. Un abito da buttare alle ortiche, come un vecchio attrezzo, un vecchio mobile. Una casa inadatta, da demolire.
Quanto più, tuttavia, la mia lingua materna diventava per me oggetto di memoria e non di uso, quanto più dalla casa dei miei genitori, sempre più vuota, essa si trasferiva nella mia mente, tanto più cresceva in me l’attaccamento e la considerazione nei suoi confronti. Il desiderio di darle continuità. Mi imbattei in uno studioso calimerese del passato, Vito Domenico Palumbo, che della nostra tradizione linguistica e del nostro patrimonio di cultura popolare aveva fatto il suo ambito principale di studio, dedicandovi tutta la vita, e mi accorsi della ricchezza e dell’importanza di quanto lui aveva raccolto. Decisi di seguire le sue tracce. Dando conti- nuità al griko, come lui aveva iniziato a fare, imitato da altri suoi estimatori, attraverso la scrittura. Mettendo a servizio del griko gli strumenti appresi nell’ambito della cultura “dotta”. Rendendo al griko, e alla sua cultura, la dignità che spetta loro secondo gli stessi parametri della cultura ufficiale.
Pur essendo consapevole della scarsa attrattiva di un lavoro del genere presso le nuove generazioni, succubi spesso di una totale e acritica accettazione della modernità, ritengo comunque un mio dovere “generazionale” quello di testimoniare un passato e, in particolare, una lingua di cui il destino mi ha voluto partecipe. Si tratta, credo, di un piccolo, ma inestimabile tassello per ricostruire una storia e un’identità.
Glòssama
(La nostra lingua)
Ti ene e glòssama? Pedàimmu!
‘En i’ loja tse chartì,
ka ‘sù pianni ce mattenni meletonta;
c”en i’ loja ka vrìkane grammena
‘s kané mea paleon lisari,
‘s ena’ ticho kau stin grutta.
E glòssama e’ fonì,
fonì manechò.
(…)
Cos’è la nostra lingua? Ragazzo mio!
Non sono parole d’un vecchio manoscritto,
che a fatica tu impari a decifrare;
né parole scolpite
sopra un’antica lastra di pietra,
su di un muro, in una grotta.
La nostra lingua è voce,
voce soltanto.
Tu mi chiedi qual è il suo inizio, com’è giunta fino a noi,
chi l’ha portata da queste parti,
chi l’ha appresa per primo.
Chi lo sa, ragazzo mio!
Non ti importa saperlo.
È la voce che abbiamo succhiato
dal seno di nostra madre: come il suo latte
dolce,
come il sorriso delle sue labbra;
voce che ci vestiva, trastullava, accompagnava a letto;
voce che ci insegnava le canzoni, le preghiere, l’amore,
e il mondo;
voce dell’ulivo, del fico,
voce del focolare.
Lo ricordi tu, il focolare?
E la pignatta con i piselli,
il pentolone appeso alla catena
dove si bollivano le verdure,
la scodella con l’olio bollente
dove si friggevano i calangi per Natale?
E il braciere? Lo ricordi il braciere?
Si accendevano prima i rami secchi, fuori, al vento,
perché s’alzasse una grande fiamma e i carboni
diventassero di fuoco.
– Quante storie ci ha raccontato,
quelle sere d’inverno, lì intorno al braciere,
la comare Filomena!
Come il fuoco è la nostra lingua:
ci ha riscaldato la vita.
Nessuno ha messo più ramoscelli,
nessuno ci ha soffiato sopra
perché la fiamma s’alzasse un po’,
e adesso si spegne,
con noi.
Che ti rimane? Un po’ di cenere, un bianco mucchietto.
Se tu vai a toccarlo, con una paletta nera,
se provi a rivoltarlo, ecco, vien fuori una scintilla,
una timida fiammella,
e si spegne poi,
con te.
(…)
Ti su meni? Lillì statti, enan aspro kulumài.
An esù pai n’on enghisi, ma mia’ mavri paletteddha,
a pai n’on escalisi, na!, su kanni kammìa spitta,
sozzi doi mian addhi vampa,
depoi sbìnnete,
ma ’sena.
(Da: Tommasi Salvatore, Alia loja, Ghetonìa, 2009)
di Salvatore Tommasi
Salvatore Tommasi è nato a Calimera (Lecce) nel 1950. Laureato in Filosofia e in Lingue e letterature straniere, dopo un’esperienza di ricercatore presso l’Università statale di Mosca, ha insegnato Filosofia e Scienze della formazione nella Scuola secondaria superiore.
Ha pubblicato nel 1988 un libro di poesie, “Le mie bandiere” (Firenze Libri). Da anni si occupa del recupero e della valorizzazione della lingua e della cultura greco-salentine. Ha scritto, in tal senso, “Katalisti o kosmo”, (Ghetonia, 1996), raccolta di dialoghi e guida grammaticale del griko; “Io’ mia forà… Fiabe e racconti della Grecìa Salentina” (Ghetonia, 1998), con la trascrizione, traduzione e studio di un ricchissimo patrimonio di narrativa popolare, frutto della ricerca sul campo compiuta da Vito Domenico Palumbo alla fine dell’Ottocento; “Alia loja” (Ghetonia, 2009), raccolta di versi in lingua grika; “E òrnisa ce o sciddho, Manuale di griko per ragazzi” (Kurumuny, 2016-2019). È inoltre autore di “Loja amerikana”, commedia brillante in griko rappresentata al teatro Politeama di Lecce nell’ambito della rassegna di teatro dialettale “Le parole della memoria” (ed. 2004) e alla quale è stato assegnato il primo premio, nonché dell’atto unico “Sìmmeri”, premiato anch’esso al concorso bandito dalla Società degli Scrittori Teatrali di Cipro nel 2012.
Nel 2010 ha pubblicato il romanzo in lingua italiana “Sarakostì”, dedicato al lavoro dei carbonai di Calimera negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale (Nuova edizione Argo, 2019); nel 2016, “I tesori della cassapanca”, raccolta di racconti per ragazzi dedicati ai vecchi mestieri (Ed. Kurumuny); nel 2018, “Vito Domenico Palumbo, Letterato della Grecìa Salentina” (Ed. Argo). Di prossima pubblicazione, infine, un “Dizionario di griko” (per i tipi di Argo), al cui manoscritto è stato assegnato il secondo premio “Tullio De Mauro”, nell’ambito del concorso nazionale Unpli “Salva la tua lingua locale” 2019.
Sulle strade del cicloturismo
da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020
Non bisogna aspettarsi perfette piste ciclabili né tantomeno attrezzati percorsi con precisa segnaletica: il viaggio in bicicletta in Puglia è tutto una sorpresa e la strada da imboccare è quella dell’avventura. Dunque, con il Gps alla mano, bisogna seguire le indicazioni, utilizzando la rete di strade secondarie e rurali che rendono questa terra ideale per essere scoperta su due ruote.
Già, perché il fitto intrico di vie di comunicazione locali ma anche il concentrarsi del traffico automobilistico attorno ai grandi centri urbani e sulle strade a scorrimento veloce, fa sì che gran parte delle strade secondarie, persino quelle in riva al mare, siano a bassa intensità di traffico. Aspettando che anche in Puglia prendano forma percorsi e infrastrutture ciclabili degni di questo nome, proprio questa rete di strade secondarie e rurali è diventata la preziosa risorsa di molti cicloturisti e tanti tour operator, molti dei quali stranieri, che hanno puntato sulla Puglia.
Non sfugge a questa regola la Ciclovia dell’Ac- quedotto Pugliese, la più importante infrastruttura della regione, realizzata per soli venti chilometri in Valle d’Itria, ma che presenta un percorso realmente percorribile, che segue le tracce del più grande acquedotto d’Europa, dalle sorgenti di Caposele fino alla trionfale cascata monumentale di Santa Maria di Leuca.
Cinquecento chilometri di pura bellezza, attraversando paesaggi unici dell’Italia interna, dall’Alta Irpinia al Vulture, dall’Alta Murgia alla Valle d’Itria, dall’Arneo al Basso Salento, toccando borghi incantevoli e luoghi selvaggi. Il racconto di questo straordinario itinerario è racchiuso nella guida “Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese” (Ediciclo editore, euro 14, 2018), nella quale ho raccontato non solo un itinerario possibile ma soprattutto l’esperienza di un gruppo di “cicloesploratori” che ha creduto nel progetto della Ciclovia, inserito nel 2016 fra le quattro ciclovie di interesse nazionale finanziate dalla Legge di Stabilità.
La passione del viaggio slow in scenari naturali unici e la scoperta di una delle pagine più affascinanti della storia di Puglia sono gli ingredienti che fanno di questo percorso un appassionante viaggio nella storia e nella natura del Sud. La ciclovia, non ancora ufficialmente segnalata ma percorribile grazie alle tracce gps che si scaricano dal sito dell’editore e alla cartografia molto accurata della guida, attraversa anche l’intero Salento, ma rigorosamente nell’entroterra.
È tutta rivolta al mare, invece, l’attenzione dell’altra guida arrivata in libreria da poche settimane, “In bici sui mari del Salento” (Ediciclo editore, euro 14,50, maggio 2020) e che conduce i cicloviaggiatori in un affascinante percorso lungo la costa. Il Salento è una penisola di tesori circondata da un mare dai colori cangianti – dal turchese al blu mediterraneo, dall’azzurro intenso al verde smeraldo – che in uno straordinario percorso gravel lascia scoprire le spiagge più belle del Sud, fra storia e natura, raccontate con tutte le istruzioni per l’uso, per raggiungerle agilmente in bici e fare bagni da sogno. Scoprendo lunghe spiagge sabbiose, basse scogliere con piccole baie, faraglioni, insenature di morbida roccia, scogliere superbe, grotte, fiordi e porticcioli al centro del Mediterraneo.
In bici sui mari del Salento nella bellezza senza confini
(dal libro di Roberto Guido “In bici sui mari del Salento” Ediciclo editore, maggio 2020.)
“… Si continua sulla litoranea per altri due chilometri, per arrivare sull’alta scogliera che contraddistingue il punto più a est d’Italia. Si svolta a sinistra, proprio all’altezza di un (brutto) insediamento militare, per imboccare una mulattiera che scende giù e alla prima curva ecco tutta la bellezza del faro di Punta Palascìa, abbarbicato sulla roccia davanti all’infinito blu del Canale d’Otranto. Ancora un tornante e dopo poche centinaia di metri si arriva ai piedi della costruzione militare che affianca il faro, che ogni anno a San Silvestro richiama qualche centinaio di persone per vedere l’alba di Capodanno, il primo sole che sorge sull’Italia con i suoi colori tenui, tra il rosa del cielo e l’azzurro del mare.
Visto da sotto, il faro è imponente e lo è ancor di più se si considera che tutt’intorno non c’è nient’altro che una selvaggia scogliera. Alto ben 32 metri, si innesta su un piccolo edificio di due piani, dove una volta vivevano i militari che gestivano l’impianto, e con la sua luce segna il confine tra l’Adriatico e lo Ionio. Le carte nautiche, infatti, indicano convenzionalmente proprio qui la confluenza tra i due mari, e non a Leuca, come molti pensano. Oggi il vecchio guardiano non c’è più, ma il faro continua a svolgere la sua funzione con un segnale luminoso di cinque secondi, visibile a ben 18 miglia nautiche di distanza.
[…]
Qui non è proprio il caso di pensare a un bagno, sia perché il mare è 30 metri più in basso e la costa è molto impervia, sia perché è subito mare aperto e i fondali sono davvero molto profondi.
Si risale la stessa mulattiera per riprendere la litoranea e godersi uno dei tratti di costa più selvaggi del Salento. Si resta per un chilometro in quota, su una sorta di altopiano in riva al mare, con lo sguardo che spazia verso l’altra costa del Canale d’Otranto, che nelle giornate più terse si mostra in tutto il suo fascino. Qui le massicce montagne dell’Albania e le isole greche, distanti 45-50 miglia, in alcuni giorni, grazie al gioco della rifrazione, si vedono nitidamente, tanto da sembrare vicinissime, e indicano a chi viaggia che il mondo della bellezza non ha confini…”.
di Roberto Guido
Roberto Guido è giornalista di professione, cicloesploratore per passione, è uno dei principali esponenti del Coordinamento dal Basso per la Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese. Con un reportage a puntate sulla Cicloesplorazione dell’Acquedotto Pugliese, pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno nel 2015, ha vinto nel 2016 il Premio “Michele Campione”/Giornalista di Puglia per la sezione Cultura e Costume. Cronista al Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto dal 1979 al 1998, Roberto Guido ha fondato nel 2001 e diretto fino al 2017 “quiSalento”, l’insostituibile guida di eventi e cultura popolare salentina. È autore di diverse guide sul Salento fra cui “Le 50 spiagge più belle del Salento” (2015-2017), “Salento istruzioni per l’uso” (2005-2013), “Lecce istruzioni per l’uso” (2006-2009), nonché di originali pubblicazioni come “La Notte della Taranta 1998-2007. Breve storia per testi e immagini dei dieci anni che hanno rivoluzionato la musica popolare salentina” (2007), “Salento da favola” (2009) e “Salento da gustare” (2011), tutte nella collana “i libri di quiSalento” (Edizioni Guitar).
Stessa spiaggia stesso mare
da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020
La Puglia può vantare uno dei perimetri costieri più estesi della penisola italiana per cui non c’è da sorprendersi se il turismo balneare sia una delle principali risorse economiche della regione. Lungo 800 km circa di costa pugliese si alternano paesaggi molto diversi caratterizzati da coste rocciose (38%), falesie (16%) e spiagge (36%). Le coste ricadenti nei primi due gruppi rivestono un interesse economico subordinato in quanto risultano per molti tratti inaccessibili oppure sono utilizzate da un numero relativamente ridotto di persone per le oggettive difficoltà di accesso e di fruizione.
In effetti, il ruolo predominante nell’offerta turistico-balneare è ricoperto dalle spiagge, in particolar modo quelle sabbiose. Estese spiagge sono presenti nei pressi della foce del fiume Fortore (costa settentrionale del Promontorio del Gargano), un corso d’acqua che ha alimentato con i propri depositi i cordoni litoranei che in tempi storici hanno completato lo sbarramento dei laghi di Lesina e di Varano. Una spiaggia lunga 60 km si è formata tra Manfredonia e Barletta, ai bordi dell’ampia piana alluvionale costruita dai fiumi Ofanto, Carapelle, Candelaro e Cervaro. Spiagge estese si rilevano inoltre nell’area metapontina del Golfo di Taranto.
Numerose altre spiagge, di estensione più limitata, sono distribuite lungo la costa del Gargano, delle Murge e del Salento, ospitate in baie e insenature di ampiezza variabile che interrompono lunghi tratti costituiti da coste rocciose.
Le spiagge pugliesi, caratterizzate da una elevata qualità ambientale e valorizzate da un contesto climatico e culturale favorevole, costituiscono uno degli attrattori principali presenti nella nostra regione e giustificano il numero sempre maggiore di turisti domestici ed internazionali che visitano ogni anno le località costiere pugliesi. Le spiagge, quindi, costituiscono uno degli elementi fondamentali su cui poggia l’offerta turistica della regione ed è quindi opportuno conoscerle in maggiore dettaglio.
La spiaggia è un elemento del paesaggio costiero prodotto dall’azione di trasporto e deposito del moto ondoso. Le onde, infatti, prendono in carico una parte dei depositi trasportati in mare dai corsi d’acqua, quelli provenienti dalla disgregazione dei corpi di frana presenti al piede delle falesie e dalla frammentazione dei gusci dei molluschi (bioclasti) che colonizzano i fondali. Questo materiale può essere trasportato anche per lunghe distanze lungo costa prima di essere accumulato a formare una spiaggia. Lungo le coste adriatiche della Puglia centro-meridionale, per esempio, si nota la presenza di sedimenti di spiaggia di colore nero, spesso scambiati dal turista da catrame o altre terribili forme di inquinamento. In realtà i granuli di colore scuro che compongono questi particolari sedimenti sono minerali vulcanici provenienti dalle rocce del Monte Vulture, un antico edificio vulcanico posto nei dintorni di Melfi, in Basilicata. Queste rocce sono attivamente erose dal Fiume Ofanto che le trasporta, riducendole progressivamente in sabbia, sino alla foce, ubicata tra Barletta e Margherita di Savoia. Il moto ondoso, poi, ridistribuisce questo materiale lungo costa verso sud-est sino ad Otranto. Nel caso invece delle spiagge ioniche la maggior parte del rifornimento è rappresentato da bioclasti provenienti dai fondali antistanti.
Il materiale trasportato viene quindi depositato in alcuni settori protetti del litorale a formare delle spiagge, in Puglia prevalentemente sabbiose.
è bene sottolineare che la spiaggia comprende sia una parte emersa, l’arenile su cui stendiamo i nostri asciugamani e piantiamo gli ombrelloni, sia una parte sommersa. Il moto ondoso modifica in continuazione la forma della spiaggia muovendone i sedimenti dalla parte emersa, estesa dal piede della duna alla battigia, alla parte sommersa e viceversa. Questo spiega perché durante una passeggiata invernale stentiamo a riconoscere la spiaggia che ci ha accolto durante il soggiorno balneare. Dopo una mareggiata, infatti, quando la maggior parte dei sedimenti di spiaggia sono accumulati sulla parte sommersa, la spiaggia emersa è rappresentata da una piatta superficie di erosione.
Il movimento di sedimenti da terra verso mare e viceversa avviene principalmente durante e subito dopo le mareggiate e risulta di vitale importanza per le spiagge a vocazione turistico-balneare come quelle pugliesi perché garantisce l’elevata qualità dell’ambiente di spiaggia, uno dei punti fondamentali di attrazione dei turisti.
Le mareggiate, infatti, erodono i sedimenti di spiaggia emersa che a causa della loro permanenza per un certo periodo in ambiente continentale si presentano naturalmente ricchi di pollini, semi, animali terricoli e acquatici, funghi microscopici, particelle argillose, ecc. Questi sedimenti vengono trasportati al largo durante le mareggiate, privati dei granuli di minori dimensioni che vengono allontanati in sospensione e disinfettati dalla vigorosa ossigenazione prodotta dal moto ondoso, per poi essere restituiti perfettamente idonei alla fruizione turistico-balneare alla spiaggia emersa durante i periodi di mare calmo.
A questi movimenti continui dei sedimenti di spiaggia si devono quindi arenili igienicamente sicuri ed acque di balneazione cristalline che rappresentano il miglior biglietto da visita delle spiagge pugliesi.
Purtroppo talvolta il moto ondoso, a cui si deve la formazione di una spiaggia e la conservazione di elevate qualità ambientali, determina dei fenomeni erosivi più o meno generalizzati. Questi fenomeni, che provocano inesorabilmente la riduzione dell’ampiezza dell’arenile, possono essere ricondotti a cause sia naturali che antropiche. Le prime sono in qualche modo legate ai cambiamenti climatici in atto che determinano un progressivo innalzamento del livello del mare e un aumento della frequenza e della intensità delle mareggiate, le seconde alla realizzazione di numerose dighe lungo i principali corsi d’acqua pugliesi e lucani, di opere portuali e di difesa costiera.
Purtroppo i fenomeni erosivi interessano attualmente anche le spiagge pugliesi. Per esempio nell’area del fiume Ofanto è stato stimato un tasso di arretramento medio di 2 metri/anno con una perdita di sedimenti di spiaggia superiore a 125000 mc di sabbia, mentre nell’area metapontina si sono registrati negli ultimi 40 anni arretramenti con tasso pari a 3-4 metri/anno.
In maniera comprensibile, l’erosione delle spiagge spaventa gli operatori balneari che vedono ridurre inesorabilmente l’area utile per la fruizione della spiaggia e per questo vengono subito invocati interventi per fronteggiare i fenomeni erosivi. Le risposte tecniche a questo problema sono molteplici, ma condividono una base comune in quanto queste non rimuovono le cause dell’erosione ma tendono solo a mitigarne gli effetti. Qualsiasi intervento, quindi, perde la propria efficacia nel tempo e bisogna per questo prevedere, oltre ai costi per la sua realizzazione, anche quelli di manutenzione e ripristino.Purtroppo le spiagge utilizzate ai fini turistico-balneari devono il loro valore alla elevata qualità ambientale dell’arenile e delle acque di balneazione cosicché la scelta del migliore intervento da realizzare per mitigarne l’erosione deve garantire il mantenimento di queste caratteristiche. Il rischio, infatti, è di avere una spiaggia stabile ma di scadenti qualità ambientali e per questo non più attrattiva per i turisti balneari che possono trovare la stessa offerta in aree geograficamente più vicine o più economiche.
La natura ha generosamente donato alla nostra regione spiagge incontaminate ed acque cristalline che rappresentano un’importante risorsa per l’economia turistica regionale. Purtroppo questa risorsa non è rinnovabile ed è attualmente minacciata in più punti da fenomeni erosivi che possono essere mitigati mediante varie tipologie di interventi. La scelta di quelli più idonei deve essere necessariamente sostenuta da una conoscenza approfondita della dinamica costiera in modo da evitare di far scadere l’elevata qualità ambientale. Sintetizzando questo concetto in pochi e famosi versi, ogni intervento dovrebbe quindi garantire “stessa spiaggia, stesso mare”.
di Paolo Sansò
Paolo Sansò è professore associato di Geografia fisica e Geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali del- l’Università del Salento. Svolge attività didattica nell’ambito del corso di laurea triennale in Scien- ze e Tecnologie dell’Ambiente e della laurea magistrale in Scienze Ambientali. Si è interessato ai differenti aspetti della geologia ambientale, ha sviluppato ricerche sull’evoluzione del paesaggio costiero pugliese in risposta alle variazioni del livello del mare, del clima e delle attività antropiche nel corso dell’Olocene; ha studiato i fenomeni di erosione costiera, gli effetti di maremoti verificatisi in epoca storica, i fenomeni di crollo e di alluvionamento legati all’evoluzione del paesaggio carsico.
I risultati delle ricerche sono riportati in numerose pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali ed internazionali.
Andar per borghi
da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020
I Borghi rappresentano senza dubbio una risorsa fondamentale per raccontare e studiare la storia e le tradizioni del nostro Paese. Il termine borgo è di origine tedesca, burg, latinizzato nell’Alto Medioevo in burgus (diventato poi bourg in francese, borough in inglese e burgo in spagnolo); indicava originariamente un castello fortificato fino a quando, nell’Europa Romanza, tra l’VIII e il X secolo, il termine acquistò il significato di “abitato agglomerato” per indicare sia un gruppo di abitazioni al di fuori delle mura, sia un abitato nato intorno a un castello o a una chiesa senza che fosse necessaria la presenza di mura o fortificazioni.
In Italia è stata la Via Francigena a far scoprire i borghi: infatti i più antichi si trovavano lungo la strada percorsa dai pellegrini che nel Medioevo raggiungevano Roma (ad esempio tra Piacenza e Parma troviamo il borgo San Donnino che corrisponde all’odierna Fidenza, citato dalle fonti alla fine del IX secolo, e il Burgus Arisa, citato nel 909 e corrispondente all’attuale Acquapendente, nel Lazio settentrionale). Il borgo indica un agglomerato al di fuori delle mura cittadine lungo le strade principali che portano al contado. Nella prima età comunale i borghi iniziano a crescere in estensione fino a superare le città principali; intorno al XII secolo, invece, vengono inclusi in ampie cinte urbane costruite o ricostruite, mantenendo però la denominazione di borgo. Dal Duecento gran parte dei comuni italiani inizia a fondare borghi, sia per controllare il potere territoriale, sia per abbattere quello della nobiltà feudale e mantenere in equilibrio il rapporto militare ed economico fra città e contado. Nonostante l’evoluzione del termine e delle dimensioni, si può concordare sul valore storico di questi luoghi che attraverso chiese, strade e piazze viene tramandato e raccontato L’essenza stessa dei borghi, infatti, è la loro storicità: l’essere cioè luoghi abitati senza interruzioni da millenni: per questo visitarli è come rivivere e sentire la storia dei secoli passati.
Per quanto riguarda le dimensioni, non esiste un limite di abitanti che renda i borghi differenti dalle città, e le associazioni che si occupano di preservarli e promuoverli hanno criteri distinti per classificarli: l’associazione Borghi Autentici, ad esempio, fissa un tetto massimo di 30.000 abitanti per far entrare un borgo nella rete di quelli autentici. Proprio questa associazione promuove la loro riscoperta come “luoghi da vivere, sostenere e preservare attraverso un modello di sviluppo locale equo e sostenibile, che valorizzi queste identità adottando strategie di miglioramento del contesto sociale, ambientale e produttivo dove i protagonisti sono le comunità, gli amministratori locali e gli operatori economici e culturali dei luoghi”. L’associazione è una vera e propria rete fra piccoli comuni impegnata in un progetto di tutela del paesaggio, della cultura, della storia, delle tradizioni e dell’identità dei borghi.
La struttura dell’associazione comprende l’Assemblea degli associati, gli Organi e le Cariche associativi (ufficio di presidenza, consiglio direttivo, comitato etico nazionale, delegati regionali, revisore contabile, segreteria tecnica nazionale) e gli Organismi di sistema (BAI Tour, un’agenzia di viaggi e tour operator, e Fondazione Futurae onlus). Annualmente si tiene un’assemblea nazionale che riunisce tutti i rappresentanti degli enti per ragionare insieme sui percorsi di sviluppo da intraprendere e per fare il punto della situazione. Esiste anche una festa annuale che si tiene ogni anno in un borgo diverso che ospita i rappresentanti per un fine settimana all’insegna della musica, dei sapori tipici, momento anche di riflessioni su temi importanti come la sostenibilità.
L’associazione fa parte di reti nazionali ma anche internazionali, come il ‘Covenant of Mayors, il patto dei sindaci, l’Associazione italiana Turismo Responsabile, e collabora, tra gli altri, anche con il FAI e Legambiente Onlus.
Di Raffaela Cezza
Daìmon, una scuola per imparare a restare
da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020
Si può imparare a restare nell’accezione di Vito Teti? Pare proprio di sì, se Daìmon, nata da un’idea dell’ associazione “Scatola di latta” e del suo animatore Gianluca Palma, in pochi mesi ha radunato più di 200 allievi. Certo è una scuola particolare in cui non ci sono voti, né scrutini, in cui le lezioni più importanti si fondano sul baratto dei saperi, in cui la ricerca dell’identità culturale dei luoghi è uno degli obiettivi da privilegiare, elemento cardine della consapevolezza a “restare”. Si tratta di imparare a seguire il proprio Daìmon nell’accezione degli antichi greci, questa “forza interiore che a volte scavalca circostanze, limiti e contesti poco favorevoli affinché possiamo esprimere parte della nostra vera natura”. (J.Hillman “Il codice dell’anima”).
Imparare a “restare” non è solo fermarsi e resistere nel proprio territorio, ma cominciare ad abitare se stessi, conoscendo e approfondendo le proprie radici non in mistiche solitudini, ma in una dimensione di comunità solidale.
Negli ultimi decenni in tanti hanno lasciato i piccoli centri rurali e sono diventati improvvisati cittadini delle grandi città, mantenendo rapporti affettivi che col tempo inevitabilmente saranno destinati a dileguarsi. Paesi abbandonati e paesi fantasma, spesso oggetto di vendite favolose: un euro per una casa da restaurare, effimera illusione di nuova vita dei borghi abbandonati perché di solito non tornano quelli che erano partiti, ma chi sogna orizzonti bucolici stanco delle metropoli. Bisogna impadronirsi della forza e del valore del neologismo “glocale”, bisogna imparare l’arte della cura, prima di se stessi e poi degli altri, dell’ambiente che ci circonda che dobbiamo tutelare perché ci tuteli.
La “scuola” è partita a gennaio prima con degli incontri sperimentali in Puglia e in Basilicata, poi da maggio hanno avuto inizio le video lezioni civico culturali sulla piattaforma zoom. Ora le vacanze estive e a settembre Daìmon riprenderà il suo percorso con vecchi e nuovi “alunni”. Fine ultimo? L’ eudaimonia, la felicità.
Info:3395920051– scatoladilatta2014@gmail.com
La pagina facebook di Daìmon – A scuola per restare. https://www.facebook.com/ascuolaperrestare
di Maria Rosaria De Lumé
Restare è inquietudine, mutamento, mobilità…
da “Puglia tutto l’anno” agosto 2020
Da lungo tempo mi occupo – non solo a livello di pensiero, di riflessione culturale, ma anche con scelte di vita ed esistenziali – di “antropologia della restanza”, di “quel che resta”, del “restare”.
Ho scritto libri, saggi, articoli – tra antropologia, storia, letteratura, psicoanalisi – su questi motivi. Ho seguito e curato iniziative promosse in tutte le regioni d’Italia da gruppi locali, associazioni, comunità impegnate in iniziative di resistenza, resilienza, restanza, di rigenerazione, soprattutto nelle aree interne, nei luoghi dello spopolamento e dell’abbandono. Potrebbe sembrare, allora, che l’imprevisto e necessario periodo del lockdown, che in lingua italiana suona come “confinamento”, sia stato accolto come una sorta di inveramento e di accettazione – come il risultato di una profezia – con facilità, quasi come un destino. E invece, l’essermi a lungo interrogato sull’etica, sulla bellezza, sulla necessità del restare – frutto di una scelta politico, culturale, esistenziale – rende ancora più doloroso e impegnativo fare i conti con un “restare” non per scelta, ma per necessità, per convinzione civile, per senso di responsabilità.
Restare a casa ai tempi del Coronavirus è molto diverso dalla filosofia del restare prima di questa catastrofe, che non è un’apocalisse, ma che all’apocalisse fa pensare. La mia idea, la mia concezione, la mia pratica del “restare” non hanno nulla a che fare con staticità, immobilità, attesa, apatia, ma raccontano una scelta di vivere e di abitare diversamente, di stabilire un rapporto vero con i luoghi, immaginando il restare come un atto di inquietudine, di mobilità, di mutamento.
Restanza richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi, appunto, in esilio e stranieri nel luogo in cui si vive e che diventa il sito dove compiere, con gli altri, con i rimasti, con chi torna, con chi arriva, piccole utopie quotidiane di cambiamento. Disponibili anche allo scacco, all’insuccesso, al fallimento, al dolore.
Restare non significa contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo.
Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. Questa concezione, questa pratica, questa etica della restanza assume oggi un altro senso, un’ulteriore verità, nel momento in cui dalle città del Nord, dai luoghi dell’esodo, migliaia e migliaia di persone sono tornate o vorrebbero tornare. Intellettuali e studiosi pongono una domanda decisiva e cruciale: «Che si fa con i giovani tornati al Sud?». Questa è un’occasione unica, da non sprecare. Anche per una sorta di “rivoluzione antropologica”: cancellare le antiche distanze e incomprensioni tra partiti e rimasti, tra rimasti e coloro che ritornano. Sono i rimasti, assieme a quelli che adesso tornano, che forse non se ne erano mai andati, a dovere custodire memorie, a osservare rovine, a dovere intrattenere un diverso rapporto con i luoghi, a dover dare senso alle trasformazioni, a porsi il problema di riguardare i luoghi, di proteggerli, di abitarli, viverli, renderli vivibili.
Ho ripreso il mio cammino nei paesi, ho letto tante memorie degli studenti e dei giovani e avverto un sentimento nuovo: la possibilità che si possa fare qualcosa di concreto e di veramente incisivo, fino a poco tempo fa, immaginato soltanto da piccole minoranze. Attenzione, però, a posizioni localistiche, a chiusure, a false retoriche identitarie, a generici e strumentali inviti al ritorno ai paesi, magari da chi ha promosso e praticato sempre un’esasperata visione urbanocentrica. Attenzione anche a ri- vendicazioni contro un generico Nord, a visioni neoromantiche e a nostalgie inautentiche di un buon tempo antico mai esistito. Restare significa innovare, aprirsi al mondo esterno. Occorrono scelte politiche rivoluzionarie, in controtendenza rispetto al passato, un “ritorno”, diverso dal passato, alla terra, all’agricoltura, a pratiche di elaborazione e trasmissione culturale.
Serve un nuovo patto tra “partiti” e “rimasti”, tra generazioni diverse, tra governo nazionale e istituzioni locali. Siamo dinnanzi a un “che fare” che riguarda tutti: in primo luogo, oltre al governo, le Regioni, e poi Comuni, associazioni, Università, sindacato, Chiesa, movimenti dal basso, mondo del volontariato. Riguarda chi torna, chi resta, chi parte, chi, comunque, scopre un nuovo senso dell’abitare ed è persuaso ad affermare una diversa “presenza”. Sono in tanti a pensare che, finalmente, sia possibile una rigenerazione dei luoghi e della memoria, la costruzione di neo-comunità. Bisogna ripartire dai margini, dalle periferie, dagli ultimi di tutte le aree interne e delle periferie urbane, dei centri storici in abbandono, sia al Sud che al Nord. Anche da un nuovo sentimento dei luoghi e del passato da proiettare verso il futuro.
di Vito Teti