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Puglia e cinema – Un set di 400 km

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Non c’è soltanto “Tolo Tolo”

Sempre più Puglia al cinema e non solo per l’enorme successo di “Tolo Tolo” di Luca Medici, cioè Checco Zalone, ma per una serie di film che segnano il ritorno o l’esordio di registi nella nostra regione. È il caso di Matteo Garrone che è tornato in Puglia, dopo “Il racconto dei racconti” (2015), per girare il suo “Pinocchio”, e della prima volta di Carlo Verdone con il suo “Si vive una volta sola”. C’è poi Sophia Loren diretta dal figlio Edoardo Ponti in “La vita davanti a sé”. E come dimenticare Daniel Craig nei panni di James Bond per il 25esimo film di 007?  Né si possono passare sotto silenzio pellicole come “Lo Spietato” di Renato De Maria (produzione Netflix), “Non sono un assassino” di Andrea Zaccariello e “Il grande spirito” di Sergio Rubini, accolti peraltro con grande entusiasmo dal pubblico del Bif&st. A questi si sono aggiunte anche le serie tv “Fratelli Caputo” di Alessio Inturri e “Il commissario Ricciardi” di Alessandro D’Alatri. E ancora “Cops” di Luca Miniero, “Odio l’estate” di Massimo Venier, con il ritorno al cinema del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, e “Spaccapietre” di Gianluca e Massimiliano De Serio. Un ruolo fondamentale è ricoperto dall’Apulia Film Commission: per l’anno in corso ci sono 30 opere filmiche direttamente prodotte da Afc, alcune delle quali stanno già girando tra cinema e festival come “Santa Subito” di Alessandro Piva, che ha ottenuto l’incredibile risultato della vittoria dell’unico premio alla Festa del Cinema di Roma.


Se si unissero con una linea ideale tutti i luoghi in cui si è girato in Puglia ne verrebbe fuori una fitta rete di collegamenti, attraversando l’entroterra e collegando tutti i punti della lunga costa.

Ed è una rete in continua espansione, a dimostrazione che la Puglia è diventata a tutti gli effetti terra di cinema. Spot pubblicitari, documentari, cortometraggi e film: dalle distese della Capitanata fino al profondo sud, dal mare di Santa Maria di Leuca ai tanti paesini disseminati lungo il territorio, unici nel loro genere. In ogni luogo c’è un elemento che lo caratterizza e lo rende particolare per impreziosire ogni tipo di produzione. Stando ai numeri diffusi da Apulia Film Commission scegliere la Puglia sembra ormai una scelta facile: solo nel 2019 le produzioni sono state in tutto 51. E pensare che non era affatto scontato.

La voglia di cinema è esplosa e si è affermata negli ultimi dieci anni, prima la Puglia era troppo lontana e sconosciuta per poter essere presa in considerazione. L’immagine della regione era legata ai filmati delle teche Rai, che presentavano un territorio desolato, volto della povertà e dell’emigrazione. Erano gli anni ’50 e la parola cinema faceva solo rima con Cinecittà.

Soltanto alcuni avventurieri, come esploratori in una terra impervia, si sono affacciati con sguardo curioso e indagatore, convinti che tra le stradine dei paesini si potesse trovare qualcosa da raccontare. Ed è stato Pierpaolo Pasolini a scendere tra i primi a cercare di raccontare il fenomeno del tarantismo e con lui, poco dopo altri grandi nomi del calibro dei fratelli Taviani, Lina Wertmuller, Pietro Germi.

Poi qualcosa è successo e la grande macchina del cinema ha iniziato a guardare fuori le mura e a migrare verso posti che potessero raccontare, al pari dei testi, il senso e le emozioni che dovevano essere impresse sulla pellicola.

Inizia così la grande ascesa della Puglia e il suo riscatto nel mondo, affermandosi tra le prime regioni in Italia per la vivacità nel settore.

Il cast è certo importante per il successo di un film, ma a decretarne il successo concorre anche l’ambientazione, cioè i luoghi dove la scena viene ripresa, capaci di rendere prorompente il racconto filmico. Ecco perché è importante scegliere la scena migliore, ma la Puglia non è solo questione di set.

Il successo è semplice ma allo stesso tempo irripetibile: è un fattore di giusto mix tra bellezza, accoglienza, ottimo cibo, tradizioni. Ma è soprattutto luce, la prima cosa che conta per un regista, e nella Puglia baciata dal sole non manca certo. È una luce particolare piena, calda capace di donare tutte le sfumature possibili ai colori e a renderli in tutta la loro pienezza.

Luoghi che entrano nel cuore e che diventano subito casa per chi viene a girare. E per chi, in cerca di una vacanza emozionante, si ritrova a muoversi tra le strade e i palazzi che hanno ospitato i set, andando ad incrementare quel settore che va sotto il nome di cineturismo, che si avvale anche del grande successo di festival e manifestazioni legate al cinema.  Immancabile la foto sotto la statua di Mister Volare, Domenico Modugno, a Polignano, oppure affascinante prendere il caffè in piazza Sant’Oronzo a Lecce, ricordando Mine Vaganti di Ozpetek. E si potrebbe proseguire così, ogni posto ha un pezzo di sé in un corto o in un film. Il cinema, il grande sogno, ha dato alla Puglia una crescente visibilità, la consapevolezza delle sue possibilità e ha dato sicuramente speranze a chi spera di intraprendere la carriera nel grande mondo dello spettacolo, nelle sue tante sfaccettature e maestranze. Non solo: la presenza di nomi importanti ha dato l’avvio al recupero di zone e di ville che ora spesso sono messe a disposizione delle produzioni.

Certo, ancora c’è da fare e, anzi, non si finisce mai di crescere. In tutto questo, supporto fondamentale è l’Apulia Film Commission che ha lavorato e continua a lavorare bene, grazie agli investimenti che continua a fare sul tema del cinema e dell’audiovisivo che Regione Puglia ha posto al centro delle proprie politiche culturali (PiiiLCulturainPuglia) e anche turistiche (Puglia365), quale asse strategico per lo sviluppo dell’intera filiera industry, ma anche per la promozione del brand Puglia, quale destinazione turistico-culturale.

di Ilaria Lia (Foto tratte dal sito: apuliafilmcommission.it)

L’antica Autostrada del Sole – La via Francigena

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

I percorsi salentini della Via Francigena

Tre sono i percorsi nel Salento tracciati dall’Associazione europea delle vie Francigene, in coordinamento con la Regione Puglia e Puglia Promozione: la via Francigena del Sud da Brindisi a Santa Maria di Leuca, la Via Leucadense da Lecce a Leuca e la Via Sallentina da Taranto a Leuca.La prima ha inizio dalle colonne romane di Brindisi alla fine della via Appia, tocca Lecce, Acaya, Otranto, S. Maria di Leuca.La via Leucadense si snoda nell’entroterra: comincia a Lecce, attraversa le Serre salentine, tocca Barbarano, la Leuca piccola, S. Maria di Leuca.La via Sallentina parte da Taranto e attraversa il versante ionico: Manduria, Nardò, Alezio, Ugento, Vereto, S. Maria di Leuca.

Se la via Appia è ritenuta la “regina viarum”, non da meno è la Francigena che potrebbe essere l’antica “Via del sole”, secondo il sistema viario progettato da Giulio Cesare nel 58 a.C, e che collegava le isole britanniche a Roma.  Nei secoli successivi, nel VII secolo, con l’Italia  contesa dai Longobardi e dai Bizantini, nacque l’esigenza di strade che avessero sia la funzione di collegamento sia di difesa. Quando i Longobardi riuscirono ad occupare gran parte della penisola pensarono da subito  di creare un percorso strategico che collegasse Pavia, capitale del Regno, con i Ducati meridionali di Benevento e Cassino, in modo da creare una via interna sicura e ben protetta dalla minaccia bizantina.

Nacque così la Mons Longobardorum, letteralmente via di Monte Bardone: un insieme di fasci viari che valicava l’Appennino in corrispondenza dell’attuale Passo della Cisa (Monte Bardone era l’antico nome del Passo della Cisa), e che proseguiva per la valle del Magra, in direzione di Lucca, da qui poi per la valle dell’Elsa si arrivava a Siena raggiungendo la Val di Paglia e il territorio laziale per ricongiungersi infine nell’antica Via Cassia che conduceva a Roma.

Quando i Franchi subentrarono ai Longobardi, in epoca carolingia, la via cambiò nome e diventò la Via Francigena: strada, cioè, generata dalla Francia, che oltre al territorio francese comprendeva anche la valle del Reno e i Paesi Bassi. Il tratto della via Francigena divenne ben presto meta di numerosi traffici, sia di mercanti che di eserciti, nonché di numerosi pellegrini, che da Nord si dirigevano a Roma, e da Roma lungo la via Appia verso i porti pugliesi per raggiungere la Terrasanta.

Naturalmente non si può parlare della via Francigena come di un tracciato ben definito perché il percorso variava per cause naturali, per la presenza di briganti, per richiesta di pedaggi: si tratta di sentieri, di piste battute dai mercanti e dai pellegrini convergenti verso i centri abitati dove si trovava alloggio per la notte, le cosiddette mansioni, attraverso cui è possibile tracciare il percorso.  E proprio attraverso le 80 mansioni raccontate da Sigerico possiamo ricostruire l’antico percorso della Francigena. Nel 990, dopo essere stato ordinato Arcivescovo di Canterbury da Papa Giovanni XV, Sigerico nel viaggio di ritorno a casa annotò su due pagine manoscritte tutte le mansioni in cui era stato ospite.

Tra il I e il II millennio la pratica del pellegrinaggio assunse sempre più importanza e fu proprio la via Francigena a permettere i collegamenti tra le cosiddette “Vie della fede” che portavano ai luoghi santi della cristianità, Gerusalemme, Santiago de Compostela e Roma. Da nord il percorso puntava a Roma per poi spostarsi verso la Puglia e la Terrasanta, da sud invece si percorreva la via per andare a Luni, da dove poi si proseguiva verso i porti francesi o il Moncenisio per immettersi sulla via Tolosana in direzione della Spagna.

In particolare, la via Francigena del Sud, quella cioè che da Roma portava in Puglia, dove si trovavano i porti d’imbarco per la Terrasanta, nel 1994 è stata certificata come ‘Itinerario culturale del Consiglio d’Europa’, e a 25 anni di distanza da questa certificazione, a Monte Sant’Angelo durante il convegno “Francigena: via per Roma, Santiago e Gerusalemme”, è stata avviata l’estensione della stessa certificazione da parte dell’AEVF (Associazione europea delle vie francigene), che si occupa di promuovere il territorio e il valore del pellegrinaggio attraverso una costante comunicazione con regioni e istituzioni europee senza trascurare lo sviluppo sostenibile dei territori e l’identità culturale e turistica degli stessi.

L’itinerario prevede dunque un nuovo cammino da Canterbury all’estremità della Puglia, cioè Santa Maria di Leuca, da Roma verso Sud fino a Terracina passando poi per Teano, Alife, Benevento e Troia: o verso il Gargano e Monte Sant’Angelo, oppure verso Bari, proseguendo per Brindisi, Otranto e Leuca, per un cammino di un migliaio di km. A ragione, quindi, si parla ora di Vie Francigene.

di Raffaela Cezza – Foto tratte dal sito: viefrancigenedelsud.it

Le Torri Costiere in Terra d’Otranto

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Nella seconda metà del XVI secolo fu realizzato a più riprese lungo le coste dell’Italia meridionale un complesso sistema di fortificazioni nell’intento di contrastare le incursioni piratesche. La difesa degli insediamenti costieri costituiva un problema di urgente attualità soprattutto nella penisola salentina, l’area più meridionale della Puglia, teatro dei tragici eventi legati all’assedio e presa di Otranto nel 1480, alla distruzione di Castro e Marittima nel 1537, all’incursione dal lido di Morciano sino al paese di Presicce nel 1544, al saccheggio di S. Pancrazio e allo sbarco di 22 galee nella Marina di Ugento nel 1547.

Allo scopo di contrastare il pericolo proveniente dal mare, il Vicerè don Pedro de Toledo emanò nel 1532 una ordinanza con la quale si obbligava i privati ad erigere torri per infittire la rete di quelle già esistenti, alcune delle quali erette negli stessi luoghi di più antiche torri romane, bizantine e angioine. Tuttavia l’ordine non fu eseguito per la mancanza di risorse economiche.

Torre Fiumicelli

Un nuovo impulso per la realizzazione della rete di torri costiere d’avvistamento venne dall’editto emesso nel 1563 dal vicerè don Pedro Afan o Parafan de Ribera, duca di Alcalà. I luoghi dove costruire le nuove torri furono stabiliti dagli ingegneri regi in modo da garantire che ciascuna torre fosse visibile alle due più vicine. Per questo le torri si trovano spesso posizionate in posizione dominante, sul ciglio di falesie come Torre Matrella, Torre dell’Orso, Torre Santo Stefano o in prossimità dell’orlo di ripidi versanti costieri come nel caso di tutte le piccole torri tronco-coniche presenti sulla costa tra Otranto e Leuca (per es. Torre Sant’ Emiliano, Torre Minervino, Torre Capo Lupo, Torre Sasso) e dell’imponente Torre S. Maria dell’Alto sulla costa ionica della penisola. Molte altre torri sono poste al centro di piccole punte costituite da piattaforme costiere poco elevate, ad una distanza dalla linea di riva variabile da 50 a 130 m. In alcuni casi la posizione della torre è condizionata dalla presenza di un alto morfologico, generalmente la sommità di un cordone dunare fossile come nel caso di Torre Sabea, Torre Mozza e Torre Teste di Gallico.

Torre Capo Lupo

La costruzione della maggior parte delle torri si concluse nel 1569. In Terra d’Otranto, però, nel 1592 non erano ancora terminate le torri appaltate una decina di anni prima. Nel 1594 si dovette ricorrere quindi ad una nuova tassazione per reperire i fondi necessari per il loro completamento che si concluse nel 1608.

Nel 1748 si contavano nel Regno di Napoli 379 torri costiere delle quali 131 in Puglia cosi distribuite: 25 in Capitanata (attuale Provincia di Foggia), 16 in Terra di Bari (attuali Province di Bari e Barletta-Andria-Trani) e 80 in Terra d’Otranto (attuali Province di Brindisi, Taranto, Lecce).

Le torri costiere possono essere suddivise nelle seguenti tipologie: a) torri troncopiramidali a base quadrata, di dimensioni piccole (lato interno inferiore a 5 m), medie (lato interno compreso tra 5 e 6.5 m) e grandi (lato interno superiore a 6.5 m); b) torri a pianta circolare di dimensioni piccole (diametro inferiore a 10 m), medie (diametro tra 10 e 16 m) e grandi (diametro maggiore di 16 m); c) torri a “cappello di prete”, di forma ottagonale.

La caratteristica comune a tutte le torri è la rudimentale semplicità che elimina quasi tutti i motivi decorativi. L’ingresso, salvo rare eccezioni, è posizionato sul lato verso terra ed è collocato più in alto rispetto alla base della costruzione per motivi difensivi. Nelle torri più piccole, peraltro le più numerose, l’interno è limitato a due ambienti sovrapposti. A piano terra era prevista la costruzione di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana che vi giungeva dal terrazzo attraverso una canalizzazione ricavata nello spessore della muratura. La volta della cisterna sosteneva il vano abitabile della torre (normalmente uno solo) con ingresso sopraelevato cui si accedeva per mezzo di una scala di legno retraibile. Le scale esterne in muratura presenti oggi sono state costruite in epoche successive. Al terrazzo si accedeva per mezzo di una gradinata ricavata nello spessore della muratura, preferibilmente sul lato a monte, meno esposto alle offese provenienti dal mare. La porta di ingresso e le altre aperture erano difese da caditoie.

Torre Pali

Le torri erano presidiate da uomini di guardia che si dividevano in torrieri e cavallari. La carica di “torriere” veniva trasmessa da padre in figlio e comportava il controllo militare del piccolo distaccamento, l’amministrazione del vettovagliamento, delle munizioni e di tutto quanto era la dotazione della torre. I “cavallari”, invece, erano eletti pubblicamente da rappresentanti dell’amministrazione locale e con l’intervento del governatore del territorio in cui la torre era edificata; costoro restavano in carica tre anni ed erano suddivisi in ordinari e straordinari. Tutti erano agli ordini di un capo, il “sopracavallaro”. Gli uomini di guardia nelle torri costiere non sempre furono all’altezza del loro compito.

Il basso salario, spesso percepito in ritardo indusse spesso alla diserzione o addirittura al tradimento, che sfociò nella connivenza con i predoni o i contrabbandieri che trafficavano illecitamente lungo le coste del reame. Ad oggi sono state censite 81 torri in Terra d’Otranto (province di Brindisi, Lecce e Taranto), molte delle quali ridotte ormai allo stato di ruderi o quasi distrutte dai processi erosivi che costantemente aggrediscono la costa, ultime testimonianze della grande paura che veniva dal mare.

Simbolo di questo ineluttabile destino è Torre Fiumicelli, una piccola torre troncopiramidale ubicata sul litorale adriatico della Puglia meridionale, tra Otranto e Torre dell’Orso. I documenti storici riportano la torre ancora in costruzione nel 1596 e in una carta anonima del 1785 la torre viene già indicata come diruta. La torre venne costruita su di una bassa piattaforma costiera, poco rilevata sul livello del mare, che veniva a costituire una punta rocciosa. Verso l’interno era presente un’area paludosa in connessione con la linea di riva mediante un piccolo effluente (“il fiumicello”) che giustifica il nome della torre. Da questa posizione avanzata era possibile comunicare visivamente con le torri limitrofe presenti lungo il litorale, cioè Torre Sant’Andrea (distrutta e sostituita dall’omonimo faro) verso NNO e T.S. Stefano (oggi completamente diruta) a SSO. Negli ultimi due secoli, il graduale innalzamento del livello del mare, dovuto sia al progressivo scioglimento delle calotte glaciali sia a fenomeni di subsidenza della fascia costiera, ha determinato la sommersione della punta rocciosa e contemporaneamente la formazione di un’ampia spiaggia. Rapidamente al limite interno della spiaggia si è sviluppato un alto cordone dunare che ha prodotto il parziale seppellimento della torre tanto che essa non verrà più rappresentata nelle carte geografiche e risulta definitivamente perduta nei recenti cataloghi delle torri costiere della Puglia.

Lo stato delle cose è cambiato drasticamente negli ultimi decenni: i fenomeni erosivi in atto hanno determinato l’erosione del cordone dunare e hanno fatto riaffiorare la vecchia Torre Fiumicelli, esponendola mortalmente all’energia delle mareggiate.

di Paolo Sansò & Andrea Vitale


Andrea Vitale è geologo libero professionista. Ha collaborato in questi anni attivamente con il Dipartimento di Scienza dei Materiali e il Di.S.Te.B.a. dell’Università del Salento nell’ambito di ricerche sulla geomorfologia e la geologia del Salento. Inoltre ha svolto indagini morfometriche sul litorale del Salento leccese finalizzate alla quantificazione dei processi erosivi in atto. E’ coautore di numerosi articoli scientifici pubblicati su riviste nazionali e internazionali..

I miti “raccontati” da alcuni siti dal Gargano a S. Maria di Leuca

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020
Nel 1973 D.B. Vitaliano, nel suo pionieristico libro “Legends of the Earth: their geologic origins” (Leggende della Terra: le loro origini geologiche), conia il termine Geomitologia per riferirsi allo studio di miti, racconti folkloristici e leggende che recano il ricordo di fenomeni naturali accaduti nel passato. Questo approccio è stato accolto favorevolmente da molti studiosi, che, sul solco tracciato dalla Vitaliano, hanno cominciato a indagare miti e leggende con uno sguardo volto a individuare nei racconti le tracce di una conoscenza geologica pre-scientifica. Il presupposto teorico è che l’uomo abbia da sempre cercato di dare una spiegazione ai fenomeni geologici a cui assisteva e che, soprattutto di fronte a una grande catastrofe, abbia avuto la necessità di perpetuare il ricordo del pericolo e delle strategie di sopravvivenza. Queste istanze, in società fondate sull’oralità, sarebbero quindi convogliate nel patrimonio culturale delle comunità nella forma più adatta alla recitazione e alla trasmissione: i miti e le leggende.

In Puglia sono numerosi i luoghi in cui i fenomeni geologici hanno suscitato la nascita di miti e leggende. Da nord a sud si possono segnalare la leggenda di Matilde di Canossa a Lesina, l’apparizione di San Michele Arcangelo sul Promontorio del Gargano, l’origine del Monte del Diavolo a Manduria, la genesi del Masso della Vecchia di Giuggianello e la fondazione del Santuario di Santa Maria di Leuca.

Matilde di Canossa e Lesina

L’area costiera di Lesina è stata interessata storicamente da forti terremoti alcuni dei quali accompagnati da rapidi sollevamenti ed abbassamenti della superficie topografica nonché da eventi di maremoto. In questo territorio fortemente sismico nasce la leggenda della Grancontessa Matilde di Canossa che nell’anno 1089 decide di recarsi in pellegrinaggio via mare con la sua corte verso il santuario di Monte Sant’Angelo. Nel suo lungo viaggio fa tappa a Lesina e accetta l’ospitalità del conte normanno Petrone e dei suoi cavalieri. Questi ultimi però, di notte, attentano alla virtù delle damigelle di Matilde costringendo la corte ad una fuga precipitosa. Matilde si vendicherà dell’affronto subito producendo un repentino sollevamento delle acque del lago di Lesina e l’annegamento dei cavalieri normanni. Recenti studi geomorfologici permettono di interpretare questa leggenda come il probabile ricordo di un fenomeno di inondazione legato ad un evento di subsidenza cosismica o/e ad un maremoto che interessò l’area di Lesina durante un forte terremoto verificatosi alla fine dell’XI secolo.

L’ apparizione di San Michele Arcangelo

Il santuario di Monte Sant’Angelo, sul Promontorio del Gargano, fu costruito sul luogo dove avvenne l’apparizione dell’Arcangelo Michele, tradizionalmente datata alla fine del V sec. Il santuario ha svolto un ruolo cruciale nella conversione dell’Europa pagana, divenendo anche la principale meta di pellegrinaggio in Europa nell’Alto Medioevo. La figura altamente sincretica dell’Arcangelo guerriero, vincitore del dragone, ha infatti facilitato la conversione sia dei miti greco-romani che di quelli nordici Longobardi. Le origini geologiche del santuario sono dichiarate nella leggenda, che descrive un forte terremoto associato all’apparizione ed il successivo rinvenimento di particolari tracce nella roccia nella zona epicentrale: le “orme dell’Arcangelo”, ossia le spaccature nella roccia conseguenti al sisma. La descrizione degli effetti del terremoto trova chiari riscontri geologici nell’area del Santuario che permettono di stimare una intensità del terremoto legato all’apparizione di San Michele di gran lunga superiore alla massima registrata storicamente nell’area. Il terremoto riportato nella leggenda sembra quindi essere l’unica descrizione di un evento documentato dalle evidenze geologiche.

Il Monte del Diavolo a Manduria

Il paesaggio delle Murge Tarantine è segnato da un rilievo isolato dalla forma e dal nome singolare, il Monte del Diavolo. Si tratta di un piccolo rilievo grossomodo conico che si eleva una ventina di metri dalla piana circostante raggiungendo alla sommità la quota di 115 m. La formazione di questo strano rilievo è legata alla presenza di brecce fortemente cementate che riempivano una antichissima cavità carsica. Queste rocce, molto più resistenti di quelle intorno, sono rimaste in rilievo man mano che i processi di erosione determinavano il progressivo abbassamento della superficie topografica. Secondo le locali leggende fumi e strane luci sarebbero provenute dalla sommità del rilievo, per questo ritenuto “diabolico”. Uno dei primi studiosi della geologia del Salento, il conte Michele Milano, sulla base di questi fenomeni e della sua singolare morfologia attribuì erroneamente la sua origine a fenomeni vulcanici

Il Masso della Vecchia a Giuggianello

Alcuni massi scagliati dai Giganti nella loro furibonda battaglia contro gli Dei dell’Olimpo sarebbero caduti a Giuggianello, in corrispondenza di una dorsale poco rilevata localmente denominata Serra. Uno di questi massi costituiva il giaciglio di una vecchia strega, moglie de “lu nanni vorcu” (un terribile orco ghiotto di bambini).  La strega custodiva un meraviglioso tesoro costituito da una chioccia con sette pulcini d’oro che chiunque avrebbe potuto far suo se fosse riuscito a sollevare l’enorme masso con un dito nel giorno di San Giovanni. Per tutti coloro sprovvisti di una forza erculea, invece, sarebbe stato sufficiente pena la pietrificazione. In realtà i massi della Vecchia sono delle particolari forme carsiche modellate nella Pietra Leccese che si sono sviluppate sotto una copertura di suolo. La recente attivazione di numerosi inghiottitoi carsici nell’area ha determinato il richiamo verso il basso della copertura e la venuta a giorno di queste singolari forme del paesaggio.

Il Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae

Le origini del santuario sono indissolubilmente legate ad un evento catastrofico che interessò in epoca antica l’intero bacino del Mediterraneo orientale. Nel 365 d.C., infatti, si verificò un terribile terremoto con epicentro ubicato nel braccio di mare a sud dell’isola di Creta e magnitudo stimata tra 8.3 e 8.5. A Creta il movimento tellurico provocò il rapido sollevamento della costa sino a 9-10 m di altezza. Molte città dell’isola furono distrutte; furono registrati danni anche nel Peloponneso (Patrasso e Olimpia) e nell’isola di Cerigo. Il maremoto prodotto dal sisma si abbatté sulla costa meridionale di Creta producendo una inondazione che si spinse sino a 9 m di quota. Il maremoto si propagò nel Mediterraneo Orientale fino a Cipro e in Palestina verso est, alle coste della Calabria e della Sicilia verso ovest, e verso sud in Tunisia, in Tripolitania a Leptis Magna e a Sabratha, in Cirenaica, ad Apollonia (dove l’inondazione raggiunse quota 15 m), a Cirene e ad Alessandria d’Egitto. In quest’ultima località, Ammiano Marcellino, uno storico presente all’evento che definì “il giorno dell’orrore”, indica un innalzamento del livello del mare sino a 12 m. di quota con la conseguente inondazione di una porzione di piana costiera ampia circa 2 km. Le vittime furono circa 45.000 in tutto il Mediterraneo, di cui circa 5.000 nella sola Alessandria.La comunità costiera di Leuca fu testimone di questo terribile evento e attribuì lo scampato pericolo alla intercessione della Vergine Maria. Da qui la decisione di erigere in quel luogo simbolico un santuario a lei dedicato.

Miti e leggende di Puglia si rivelano quindi utili ad arricchire l’offerta turistico-culturale della regione costituendo nel contempo uno strumento formidabile per trasmettere utili informazioni geologiche alle comunità locali frequentemente non consapevoli della locale pericolosità geologica.

di Paolo Sansò


Paolo Sansò è professore associato di Geografia fisica e Geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali del- l’Università del Salento. Svolge attività didattica nell’ambito del corso di laurea triennale in Scienze e Tecnologie dell’Ambiente e della laurea magistrale in Scienze Ambientali. Si è interessato ai differenti aspetti della geologia ambientale, ha sviluppato ri- cerche sull’evoluzione del paesaggio costiero pugliese in risposta alle variazioni del livello del mare, del clima e delle attività antropiche nel corso dell’Olocene; ha studiato  i fenomeni di erosione costiera, gli effetti di maremoti verificatisi in epoca storica, i fenomeni di crollo e di alluvionamento legati all’evoluzione del paesaggio carsico.

I risultati delle ricerche sono riportati in numerose pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali ed internazionali.

Tre domande a Luigi De Luca

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

La Venere degli Stracci di Pistoletto sembra fare da guida nei percorsi del Castromediano…

Pedrag Matvejevic ci ha insegnato che nel “fagotto dei migranti” non ci sono solo povertà e miseria  ma i semi di un mondo nuovo, un  mondo  che immaginiamo fondato sulla grazia e  sulla bellezza senza tempo dell’arte,  sulla conoscenza  e  sull’equilibrio tra uomo ed ambiente. Perciò abbiamo scelto come compagna di viaggio alla riscoperta delle antichità del Castromediano un’opera d’arte contemporanea, la Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto. La bellezza che emerge dalla classicità greco – romana si confronta con la contemporaneità simboleggiata da una montagna di stracci che immaginiamo intrisi dall’acqua del Mediterraneo, il mare degli approdi e dei naufragi le cui onde hanno dato forma alla civiltà. Anche quella del Salento, a cominciare dalla etimologia del suo nome secondo lo storico Varrone: “Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint” (Furono chiamati Salentini perché avevano suggellato legami di amicizia in mare). Proprio da questa citazione inizia il viaggio nel nuovo Castromediano.

Quale il ruolo dei musei?

Sono il fuoco rituale intorno a cui si ritrova la comunità riconoscendosi come tale. Anche la religione oggi sembra aver smarrito questo potere del riunirsi rituale che permette di riconoscersi come un Noi dentro una identità plurale e collettiva. L’arte mantiene ancora intatto questo potere che ci dà la possibilità di commuoverci o indignarci, di rompere il muro dell’indifferenza. Il compito del museo oggi è di farci capire chi siamo, da dove veniamo, di farci riconoscere in quanto comunità, di scaldarci con il fuoco della tradizione.  Nel nuovo percorso espositivo del Castromediano abbiamo lavorato per sottrazione: meno oggetti, meno retorica, meno accademia, più significato, più storie, più relazioni. Non vogliamo soltanto avere un pubblico ma vogliamo trasformare questo pubblico in una comunità. Qualsiasi comunità si basa sulle relazioni, perciò il museo, prima che eventi o mostre, deve produrre relazioni, socialità, dialogo.

È questo il senso dell’iniziativa “facciamo un patto”?

Sì, il museo come fabbrica di amicizia attraverso la condivisione degli spazi con l’associazionismo culturale, con il volontariato, per creare socialità, vincoli di comunità, accoglienza che noi consideriamo il primo compito di un museo nella società contemporanea che sempre più si configura, per dirla con le parole di Goffredo Fofi, come un mondo di “soli”. La lotta alla solitudine dell’uomo contemporaneo, come causa di molti mali, è uno dei primi impegni cui un museo deve assolvere; altrimenti è un supermercato, del bello sì, ma sempre un supermercato.  Immaginiamo un museo come fabbrica della cultura in cui sopravvive l’artigianalità del fare con le mani, in cui alberga l’anima della comunità, lo spirito della condivisione, della solidarietà, della sobrietà, della parsimonia, dell’equilibrio, della laboriosità dell’umanità che si esprime attraverso il bello di cui il museo è la casa.

Luigi De Luca – direttore Polo Biblio Museale di Lecce –

Il Museo Castromediano tra tradizione e rinnovamento – Parte prima –

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

La terra degli Iapigi – così gli antichi greci e latini chiamavano la nostra regione – è ricca come poche di tesori archeologici. Il perché è presto detto. Da sempre è un crocevia di uomini e genti, lingue e culture, merci e idee che si susseguono, ancora oggi, quasi senza soluzione di continuità.



La comprensione della straordinaria complessità del mondo antico che l’evoluzione della scienza archeologica ha reso possibile è oggi il miglior strumento disponibile per condividere memorie, contaminare stupore e restituire identità alle comunità di riferimento. Più di qualcuno è convinto che l’arte sia un linguaggio le cui più rilevanti espressioni siano ormai fruibili da un’elite di iniziati (1), e che il più delle volte e quasi per caso, attraverso mediazioni e giudizi qualificati si possa arrivare ad una effettiva comprensione. Ovviamente l’affermazione è riferita all’arte contemporanea. Ma io aggiungo che – se mai dovesse essere vera – lo sarebbe a maggior ragione per le opere antiche, quelle che attengono all’archeologia, vale a dire al logos, ragionamento, sugli inizi della storia dell’Uomo, della sua quotidianità, dei suoi linguaggi e quindi anche dell’arte.

Questo dell’arte come linguaggio non fruibile da parte di tutti è un po’ l’arcano su cui i professionisti del museo Castromediano – curatori, operatori, ricercatori e professori, archeologi, sociologi, architetti e informatici – hanno ragionato e ponderato, cercando di cavarne un significato convincente e che, al tempo stesso, evitasse banalizzazioni o, peggio, imprecisioni.

E la scelta, motivata e inevitabile, è caduta sul Paesaggio o, meglio, sui tanti Paesaggi che hanno plasmato nei millenni l’identità salentina e oggi la rappresentano. I nuovi percorsi allestiti del museo Castromediano vogliono essere il racconto del- l’articolato complesso caratterizzato dall’azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni, prodotto del pensiero intelligente e del lavoro dell’Uomo nel corso dei millenni, una meravigliosa narrazione in cui è riportato, come parole su pagine di un immenso libro, l’avvicendarsi in questo territorio di stagioni e civiltà. Negli spazi architettonici aperti e ininterrotti dell’ex Collegio Argento, ridisegnati dall’architetto Franco Minissi, il viaggio tra e nei paesaggi del Salento è un’immersione totale, un risveglio di sensazioni e visioni, uno stimolo a guardare con i sensi, occhi, mente e cuore. È un itinerario tra mare e terra, tra spiritualità e sopravvivenza, tra preghiere di naviganti e favole di eroi, tra grotte magiche e segni di pietra, strumenti di lavoro, gesti quotidiani, storie di alterità e di amicizia. E come compagni di viaggio, un dialogo immaginato e possibile con l’arte contemporanea, la Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto – in prestito dal Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli -, le visioni di luce del visual performer Hermes Mangialardo e la street art di Chekocs  e, ancora, la guida intelligente offerta dalla più moderna tecnologia, un’applicazione di intelligenza artificiale appositamente sviluppata da Noovle, società partecipata Google, che indirizzerà il visitatore/ospite verso ciò che più lo attira ed incuriosisce, filtrando le informazioni/narrazioni a seconda di età e interessi.

Cinque gli itinerari proposti: Paesaggi di Mare, Paesaggi di Terra, Paesaggi e segni del Sacro, Paesaggi dei Vivi e dei Morti; ai quali si aggiungeranno presto i Luoghi dello Spettacolo, la Stanza delle Meraviglie del Castromediano, il Laboratorio aperto “Dallo scavo al Museo”, la Pinacoteca con i suoi Paesaggi barocchi e salentini.

Alle raccolte litiche, vascolari, epigrafiche, collezionate dalla visionaria tenacia del Duca Sigismondo Castromediano e riportate alla luce dalla passione di archeologi, storici e letterati dell’allora ‘Commissione per i monumenti e le belle arti di Terra d’Otranto’ durante le campagne di scavo ottocentesche nell’intero territorio regionale, si aggiungono i risultati dello studio e delle ricerche sul campo condotte nella seconda metà del ‘900 dai direttori che si sono succeduti e, negli ultimi tre decenni, dalle equipe di archeologi dei diversi insegnamenti del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento, in collaborazione e sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza Archeologica di Puglia.

Ogni Paesaggio è rappresentato da un reperto iconico, scelto e isolato per il messaggio intrinseco che reca e l’alto valore simbolico che lo caratterizza, e dalle parole di poeti, storici e geografi, antichi e non, che straordinariamente riassumono e concentrano il senso di ogni itinerario tematico.

All’inizio era il mare…

Fin dai tempi più remoti, il Salento è terra fruttuosa di scambi e contatti tra genti e culture diverse, aperta e intermedia tra un Oriente greco ed illirico da un lato e un Occidente italiota ed etrusco dall’altro. Le lunghe ed alterne frequentazioni dei suoi tanti approdi sull’Adriatico e sullo Ionio, i contatti e gli scambi con i siti dell’interno, favoriti dall’aspetto peninsulare e dalla natura pianeggiante dei luoghi, lasciano segni archeologici evidenti e continuativi, favorendo ed accelerando il processo di formazione dei tratti caratteristici delle genti iapigie, dalle quali si differenzieranno quindi i Messapi.

Grazie al mare, primaria e fondamentale via di comunicazione, merci preziose, manufatti esclusivi, oggetti ‘esotici’ viaggiano nell’intero bacino del Mediterraneo, vengono scambiati per stringere alleanze e sigillare amicizie tra elites dominanti, scelti per raffigurare il prestigio di una famiglia e distinguere modelli di vita aristocratici, selezionati per rappresentare l’immaginario di un gruppo e sedimentare storie e miti.

Il Mediterraneo rappresenta, dal II millennio a. C. fino ben oltre la fine dell’età antica, il più straordinario strumento di penetrazione delle civiltà e delle culture che inevitabilmente ambiscono ad affacciarvisi. Tutto attorno a questo mare si definiscono e si diffondono tecnologie, idee, costumi, divinità, alfabeti, ricette. Lo specchio d’acqua che va da Oriente verso Occidente pullula di mercanti e artigiani che trasportano e scambiano materiali preziosi e oggetti di uso comune, suppellettili e materie prime, forme ed immagini. E questi scambi e commerci, a loro volta, portano e trasmettono mode e idee, caratteristiche esotiche e storie millenarie, innovazione e tradizioni antichissime che rafforzano in modo esponenziale il valore distintivo dei semplici oggetti che passano di mano in mano.

Come le anfore per il trasporto di vino e olio preziosi, purtroppo mai giunte a destinazione, e i piatti da pesce dotati di incavo portasalsa che, sul principio del III sec. a.C., decoravano la ricca tavola di un antico abitante di questo lembo di Apulia. Mentre le prime testimoniano dei rischi e dei pericoli che correvano gli antichi mercanti (negotiator) per soddisfare bisogni primari legati al trasporto di beni di prima necessità, per lo più derrate alimentari (come cereali, vino, olio d’oliva, salse e conserve di pesce, carne, miele, sale), sotto forma di materie prime o semilavorate; i secondi  – con il loro rimando al cibo sottoposto a manipolazione (triturazione, cottura, ecc.) che bisogna di cuochi professionisti, di una coreografia della tavola e di grandiosi allevamenti (piscinae) dove i piscinarii allevavano e trattavano il pesce destinato ai banchetti – raccontano di un cambiamento e di una evoluzione delle antiche società verso il consumo e l’amore per il lusso, quella luxuria così censurata e pure ricercata, che divide inevitabilmente le genti ma unisce gli uomini nel nome delle imprese commerciali e del massimo profitto.

Nel museo Castromediano il viaggio nel Paesaggio del Mare, tra stive di navi con i loro  carichi di anfore d’olio e vino preziosi, attrezzi per la pesca e l’allevamento dei mitili di antichi villaggi di pescatori della costa salentina, ancore di pietra e di piombo, merci e oggetti pregiati e diversi arrivati per mare, relitti e carichi affondati trasformati in fondali marini e bombarde e cannoni per la guerra sul mare, si conclude con uno sguardo incantato sulle coste del Salento disseminate di approdi, imbarcazioni, grotte-santuario e preghiere di marinai.

Il grande cambiamento: da isolani diventano continentali… e fondano città

La storia del popolamento del Salento ha inizio nel Paleolitico medio, intorno ai 130.000 anni fa, e continua per tutto il Paleolitico Superiore (tra 40.000 e 10.000 anni fa): in un periodo di intense oscillazioni climatiche, le tante grotte della penisola offrono riparo ai gruppi di cacciatori-raccoglitori, prima Neanderthal e quindi Sapiens. Con la conclusione delle glaciazioni, tra 10.000 e 8.000 anni fa (Mesolitico), gli ultimi cacciatori-raccoglitori accedono a nuove aree, continuano ad utilizzare alcune cavità, ne occupano altre.

Ma è con il Neolitico, a partire da 8.000 anni fa, che nei modi di vita delle comunità del Salento si attua una vera e propria rivoluzione: dal mare giungono, attraverso un percorso di diffusione iniziato due millenni prima nel Vicino Oriente, piante, animali e un patrimonio di conoscenze indispensabile per praticare l’agricoltura e l’allevamento e, nei punti salienti del paesaggio salentino, in prossimità di fonti d’acqua e di buona terra, si impiantano villaggi di  capanne in legno e terra cruda.

Se per l’età del Rame non vi sono testimonianze sulle modalità di occupazione del territorio, nel II millennio a.C. la situazione cambia radicalmente. Da Otranto a Leuca e fin nel golfo di Taranto, tutta la costa, con le baie adatte all’approdo, è un susseguirsi di avamposti protetti da fortificazioni a controllo della navigazione di cabotaggio; mentre nell’entroterra, sulle alture delle Serre salentine, fiorisce una fitta rete di villaggi che dominano ampi territori con campi e pascoli, boschi e distese di macchia mediterranea e si alternano a strade, aree destinate alle sepolture e torri di avvistamento, le cosiddette “grandi specchie”.

Ciò che sappiamo di questa fase si deve soprattutto a Roca, un centro abitato sulla costa adriatica del Salento, un luogo speciale e carico di valori simbolici, destinato all’attraversamento del Canale d’Otranto – che proprio in questo tratto di costa raggiunge la distanza minima (70 km ca.) dalla sponda illirica -, un approdo strategico per le rotte di navigazione tra l’Egeo e il Mediterraneo, un luogo che, almeno sin dal II millennio a.C., ha avuto una sua precisa identità culturale, oltre che geografica. Le fasi storiche della grande Roca, dal XVI sec. a.C. al XV sec. d.C., sono raccontate dagli straordinari materiali – bronzi, ceramiche locali e di importazione, reperti in osso e oro – rinvenuti durante le indagini archeologiche da Cosimo Pagliara,  storico ed epigrafista, poliedrico interprete delle civiltà antiche dell’Italia meridionale, e allestiti nell’ampio spazio circolare centrale, quasi un enorme omphalos (ombelico), del progetto museografico di Minissi.

Tra X e VIII sec. a.C., i villaggi costieri si distribuiscono in luoghi difesi naturalmente, zone lagunari, promontori protesi sul mare, alture interne.

Le abitazioni sono semplici capanne con pareti e copertura di rami e canne, sostenute da pali ed impermeabilizzate con strati di argilla. L’economia è agricola, integrata dall’allevamento e non sembrano esistere classi sociali; emergono, di contro, alcune famiglie alle quali sono riservate capanne più grandi e sepolture monumentali (le cosiddette tombe a tumulo).

È in questo momento che comincia a delinearsi fra le comunità indigene della Iapigia una netta distinzione territoriale che porta alla formazione, intorno al VII sec. a.C., di tre regioni etniche e culturali distinte: la Daunia a nord, la Peucezia al centro, la Messapia a sud.

Qui, le case con tetti di tegole e muri di pietre gradualmente soppiantano le capanne in legno e argilla, ed elementi architettonici di tipo greco abbelliscono edifici civili e religiosi. Il modello insediativo prevalente rimane quello a villaggi sparsi che fanno capo a un luogo fortificato, dove riunirsi per prendere decisioni,  celebrare cerimonie religiose, difendersi in caso di pericoli. I recinti difensivi superano a volte i 4 chilometri e racchiudono superfici di quasi 100 ettari destinate a contenere, oltre a case e tombe, spazi agricoli e pascolo. La Messapia, terra tra mari, subisce per prima e più profondamente della Peucezia e della Daunia, l’influenza delle cultura greca. Dal mare arrivano l’alfabeto, i costumi e artigiani di ogni tipo. Le prime forme di scrittura,  già nel VI sec. a.C., servono a indicare la quantità delle merci scambiate, a incidere i nomi dei defunti sulle tombe, a segnare la proprietà di un oggetto e a ringraziare e propiziarsi gli dei. Da fabbri, scalpellini, muratori e ceramisti greci, i Messapi apprendono – prima degli altri popoli – l’uso del tornio per modellare i vasi e nuove tecniche edilizie che prevedono la lavorazione della pietra e dell’argilla.

Succede a Cavallino, dove nel VI sec a.C.  un insediamento di tipo protourbano è delimitato da un grande muro di fortificazione dotato di un fossato esterno e di grandi porte di accesso, o a Muro Leccese, che nella seconda metà dello stesso secolo si riorganizza in raggruppamenti distanziati di abitazioni collegate da strade dal tracciato irregolare e si dota una grande complesso residenziale che è luogo di incontro e autorappresentazione di gruppi aristocratici, o ancora a Soleto, dove, appena qualche decennio dopo, al posto delle capanne, si costruiscono case a più vani – alcuni dedicati ad attività produttive – con cortile interno, muri di pietra e pavimenti in battuto, allineate e affacciate su strade.  Vere e proprie città si riconoscono solo dalla metà del IV sec. a.C., articolate in spazi ad uso privato e aree pubbliche, cinte da mura possenti, con strade ordinate e case disposte in isolati e alternate ad aree destinate alle sepolture familiari. Succede a Manduria, Vaste, Valesio, Ugento, dove la cinta muraria raggiunge estensioni incredibili, ma anche in quei siti come Soleto o Muro Leccese che, tra la fine del IV e il III sec. a.C., si riorganizzano in senso urbano.

La realizzazione simultanea, o quasi, delle grandi fortificazioni è da mettere in relazione con i numerosi scontri tra Tarantini da un lato e Messapi e Peuceti dall’altro, e le alterne e complesse vicende militari che caratterizzano il corso del III sec. a.C., quando nel territorio apulo si aggirano eserciti greci guidati di volta in volta da generali spartani, re e principi epiroti, e poi truppe lucane e milizie bruzie (il Bruzio corrisponde all’attuale Calabria) e infine le Legioni di Roma, sempre più aggressive e determinate a conquistare queste terre ricche di storia e generose di risorse e materie prime. L’arrivo dei Romani, alla metà del III sec. a.C., porta profonde trasformazioni economiche e sociali. I segni più evidenti si traducono nell’adesione, più o meno spontanea da parte dei conquistati, ai costumi e al modo di occupare il territorio, al modo di vivere e di morire dei conquistatori, alla religione e alla lingua latine, vale a dire quel fenomeno complesso che va sotto il nome di romanizzazione. Il lungo e graduale processo di integrazione tra conquistatori e comunità salentine, si traduce nella trasformazione di Lecce in municipium romano (Lupiae), all’indomani della conclusione della guerra sociale (89 a.C.) e in concomitanza con il passaggio in queste terre di Ottaviano, futuro Augusto, nel 44 a.C. Due in particolare sono i segni archeologici, in città, dell’avvenuta trasformazione: il foro, centro della vita civile e religiosa, e i luoghi dello spettacolo e della socialità, il teatro e l’anfiteatro.

A modificare radicalmente la fisionomia delle campagne e l’organizzazione del paesaggio intervengono la centuriazione, ovvero la divisione della terra in tanti distinti appezzamenti, e l’impianto di nuovi assetti produttivi, con struttura e dimensioni differenti: basati sulle case coloniche dove nuclei unifamiliari praticano la policoltura per la produzione del necessario per vivere, oppure ordinati in lussuose residenze con largo uso di forza lavoro schiavile organizzata in colture specializzate (olio e vino) destinate alla vendita, o ancora  suddivisi in fattorie, dove un proprietario e pochi schiavi sono impegnati nella produzione destinata in parte al consumo in parte alla vendita. L’occupazione stabile del territorio è favorita da grandi e piccoli assi viari e, soprattutto, dalla costruzione delle vie Appia e Traiana che contribuiscono all’enorme sviluppo del porto di Brindisi. Da qui, le navi cariche dell’olio e del vino che giungono dalle campagne dell’entroterra salpano in direzione di tutti i principali mercati del Mediterraneo, da Oriente a Occidente. Completamente dissolta ormai l’antica tripartizione in Daunia, Peucezia e Messapia, riorganizzato il territorio in un sistema di autonomie cittadine (la Regio Secunda voluta da Augusto, con coloniae latine, romane e municipia), si va lentamente affermando l’Apulia et Calabria, istituita ufficialmente come provincia autonoma dall’imperatore Diocleziano nel III secolo (nella quale il Salento coincide, più o meno, con la Calabria). Alcune città (Canosa, Lucera, Egnazia, Brindisi, Bari) crescono di importanza, altre spariscono; le effettive specificità dei territori restano. Il paesaggio regionale dotato di grandi strade e un articolato sistema portuale si caratterizza per una solida e vivace organizzazione produttiva, ma la formazione di una vera e propria identità regionale sarà fenomeno recente e si concluderà non prima del VI secolo, mentre bisognerà attendere il pieno Medioevo perché Bari assuma una posizione di preminenza nelle terre di Puglia. Nel percorso a ritroso nel tempo del Castromediano, i diversi modi dell’abitare nel paesaggio salentino, dalle grotte del Paleolitico alle città strutturate ellenistiche e romane, sono fermati in altrettante istantanee fantastiche, che si succedono fluide sulle pareti del museo con i giochi di luce di Mangialardo.

NOTE

(1) Vanni Santoni, Il destino del romanzo, Parte prima,

I Tascabili 2018.

(2) Secondo la definizione ufficiale presente nel Codice dei Beni culturali e del Paesaggio  (D.Lgs. n.42/2004). Cfr. G. Morbidelli e M. Morisi (a cura di), Il “paesaggio” di Alberto Predieri, Atti del Convegno “Paesaggio: storia italiana, ed europea, di una veduta giuridica”, Firenze 11 maggio 2018, Firenze 2019 (anche in wwwaedon.mulino.it, n.3, 2019).

Per saperne di più cfr. Franco Cambi (a cura di), Manuale di archeologia dei paesaggi. Metodologie, fonti, contesti, Roma 2011, con  approfondimenti e materiali online consultabili anche su www.carocci.it.

(3) Secondo un principio di alternanza e sussidiarietà delle collezioni che ci consente di  implementare i percorsi espositivi, programmare grandi e piccoli interventi di restauro,  aprire i depositi, avere accesso ai risultati e ai materiali dei nuovi scavi archeologici, in una parola di essere #museoinmovimento.

(4) Oggi divenuta SABAP, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi, Lecce e Taranto

(5) Il seguente paragrafo è pubblicato in Mare Motus. Dalla Puglia al Mondo tra antico e contemporaneo, Catalogo della mostra Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare, Sfera Edizioni 2018, pp. 17 ss.

Per approfondire i Paesaggi di Mare: R. Auriemma, Salentum a salo, Galatina 2004; N. Chr. Stampolidis (a cura di), Sea Routes … from Sidon to Huelva. Interconnections in the Mediterranean 16th – 6th c. BC, Atene 2013; A. L. Tempesta, Merci, scambi, artigianato specializzato, in Capolavori del Museo Sigismondo Castromediano, I Quaderni del Museo Provinciale 2″, Lecce 2014, pp. 7 ss.; R. Auriemma (a cura di), Nel mare dell’intimità. L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico, Catalogo della mostra   Trieste – Salone degli Incanti, 17 dicembre 2017 – 1 maggio 2018, Roma 2017.

Per approfondire i Paesaggi di Terra: AA.VV., I Messapi, Atti del Convegno internazionale di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1990; F. D’Andria, K. Mannino (a cura di), Ricerche sulla casa in Magna Grecia e  in Sicilia, Atti del Colloquio, Lecce 23-24 giugno 1992, Galatina 1996; Th. Van Compernolle, Dall’insediamento iapigio alla città messapica: dieci anni di scavi e ricerche archeologiche a Soleto (Lecce), in “Studi di Antichità” 11, 1998, pp. 149-167; L. Giardino, P. Arthur, G.P. Ciongoli (a cura di), Lecce, frammenti di storia urbana. Tesori archeologici sotto la Banca d’Italia, Catalogo della mostra Lecce, Museo Provinciale dicembre 2000 – marzo 2001, Bari 2000; V. Cazzato, M. Guaitoli (a cura di), Lo sguardo di Icaro.  Insediamenti del Salento dall’Antichità all’età moderna, Galatina 2005; D’Andria (a cura di), Cavallino. Pietre, case e città della Messapia arcaica, Ceglie Messapica 2005; E. Ingravallo, G. Aprile, I. Tiberi, La grotta dei Cervi e la preistoria nel Salento, Lecce 2019.

Anna Lucia Tempesta

 

 

 

di Anna Lucia Tempesta (foto di Raffaele Puce)

Per una quercia

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Sul mio campo ho visto spuntare tra le erbe la piccola foglia di una quercia spontanea. L’ho protetta dalla concorrenza, favorendo la sua crescita. Ora è un albero, la sua chioma sale e allarga l’ombra in terra. Così ho saputo che il suolo era adatto e ne ho piantate altre. Non sono contadino, non saprei ricavare dal campo di che vivere. Da circa mezza vita sono diventato, per residenza, un ammiratore della terra. Guardo diversamente da prima la varietà di forme che produce. Oltre alle querce, vengono bene le mimose e i mandorli. In pieno inverno la loro fioritura aggiunge al profumo la bellezza.

Da quando abito sullo stesso piano della terra ho cominciato a ricordare gli alberi. Il mandorlo indiano in un villaggio della Tanzania: sotto i suoi rami larghi la sera traducevo proverbi napoletani nella lingua del luogo, il Kiswahili.

Le immense sequoie della California cariche di neve, i ciliegi di Mostar fioriti nei campi minati, il fico mutilato da una granata che perdeva a gocce linfa bianca, il carrubo in un giardino di Ischia sul quale mi sapevo arrampicare. Gli alberi hanno formato un parco personale di ricordi.

Oggi uso per il camino il legno di mimose cadute e mi sembra strano sopravvivere agli alberi. Eppure anche loro subiscono stragi, come gli abeti schiantati dal vento sulle Dolomiti, gli ulivi del Salento seccati dal batterio parassita.

Gli alberi sono al mondo da quando la terra è emersa dal marasma di ghiacci e di gas.

Si adattano a climi e suoli inospitali e in questo li imitiamo. Assomigliamo a loro, secondo la visione di Betsaida, riferita nel Vangelo di Marco. A un cieco dalla nascita si spalanca per miracolo la vista e la prima immagine che passa nei suoi occhi è una figura umana. La descrive come un albero che cammina. È il più generoso e nobile accostamento tra la statura eretta della nostra specie e quella di un tronco. Il seguito del Vangelo riferisce che su quella visione il guaritore torna a intervenire una seconda volta per ridurla a semplice vista. “Albero che cammina”: resta il migliore complimento rivolto alla persona umana. Dev’essere per questo che in un bosco mi sento di passaggio dentro un’assemblea di patriarchi e in un campo di ulivi mi sento in una classe di maestri. Marina Zvetaeva, mia poeta preferita, scrive: “Una preghiera: non trattatemi come una persona invece come un albero che vi stormisce incontro”.

Vengo a sapere che la quercia Vallonea di Tricase è nella lista dei migliori esemplari viventi in Italia. Le sue ghiande hanno fornito reddito ai dintorni, la sua chioma ha ospitato secoli di nidi. Scrivo questa nota in omaggio a lei e la concludo con un’altra lei, ancora con la russa Marina: “L’albero, questo salmo di natura”.

di Erri De Luca


Nato a Napoli, Erri De Luca ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio.  Ha studiato nelle scuole pubbliche De Amicis (elementari), Fiorelli (medie), Umberto I (liceo).  A 18 anni lascia Napoli e inizia l’impegno politico nella sinistra extraparlamentare, che dura fino ai 30 anni.   Termina nell’autunno ’80 con la partecipazione alla lotta contro le ventimila espulsioni dalla FIAT Mirafiori a Torino. Tra il ’76 e il ’96 svolge mestieri manuali.

Tra il 1983 e il 1984 è in Tanzania volontario in un programma riguardante il servizio idrico di alcuni villaggi. Durante la guerra nei territori dell’ex Jugoslavia, negli anni ’90, è stato autista di camion di convogli umanitari. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento.

Per il cinema ha scritto il cortometraggio “Di là dal vetro”, “Il Turno di Notte lo Fanno le Stelle” (premiato al Tribeca Film Festival di New York 2013), la biografia musicale “La Musica Provata” e il documentario “Alberi che camminano”. Ha tradotto in napoletano e sceneggiato “La voix humaine” di Cocteau per l’interpretazione di Sophia Loren. In teatro è stato in scena con “Attraverso” (Mario Brunello, Gabriele Mirabassi, Marco Paolini, Gianmaria Testa); “Chisciotte e gli invincibili” (Gabriele Mirabassi e Gianmaria Testa); “In nome della madre” (Sara Cianfriglia e Simone Gandolfo); “In viaggio con Aurora” (Aurora De Luca); “Chisciottimisti” (Gabriele Mirabassi e Gianmaria Testa); “Solo andata” con il Canzoniere Grecanico Salentino. Pratica alpinismo. Le sue montagne preferite sono le Dolomiti. Nel settembre 2013 è stato incriminato per “istigazione a commettere reati”, in seguito a interviste in sostegno della lotta NO TAV in Val di Susa. Il processo iniziato il 28 gennaio 2015 si è concluso dopo cinque udienze il 19 ottobre 2015 con l’assoluzione ”perché il fatto non sussiste”. A sua difesa ha pubblicato “La Parola Contraria”, Feltrinelli. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi.

(Biografia tratta dal sito Fondazione Erri De Luca – Ultima revisione gennaio 2019).

Un Turismo che si nutre “dei respiri del territorio”

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Unicità dei luoghi, prodotti innovativi e diversificati, sostenibilità e responsabilità sociale


Il Turismo è un settore strategico e di primaria importanza per l’economia pugliese. Un settore in crescita, che ha dato grande soddisfazioni, soprattutto per quanto attiene immagine e reputazione. Anche i numeri degli arrivi e delle presenze turistiche, soprattutto straniere. I dati forniti dall’Osservatorio regionale del turismo di Puglia Promozione, per il periodo 2018-2019, delineano un quadro decisamente positivo, a cominciare dagli arrivi, giunti a quota 4.2 milioni (+4% rispetto al 2018). Ben 15,5 milioni le presenze (+2%), 1,2 milioni gli arrivi dall’estero (+11,5%), 3,8 milioni i pernottamenti internazionali (+8%). Incrementi decisamente più leggeri sul fronte domestico con 3 milioni di arrivi nazionali (+1%), 11 milioni di pernottamenti di italiani (+0,1%), 3,7 notti di permanenza media.

La Puglia si dimostra sempre più un brand conosciuto all’estero: nel 2019 il tasso d’internazionalizzazione ha raggiunto il 28% per gli arrivi e il 25% per le presenze/pernottamenti. Rispetto al 2015 il tasso dell’incoming è cresciuto di ben 7 punti percentuali. Gli stranieri scelgono la Puglia soprattutto a luglio (18% sul totale annuo) e settembre (17%), mostrando un trend tendenzialmente equidistribuito nei mesi da maggio a ottobre.

In termini di crescita agosto ha registrato l’8% in più degli arrivi (60mila), ottobre l’11% in più (30mila), aprile il 7% in più (20mila), maggio il 5% in più (18mila), rispetto al 2018. Tra i mercati più presenti ci sono Germania (22%), Francia (14%), Regno Unito e Svizzera (8%), Paesi Bassi (6%), Usa e Belgio (5%), Polonia, Austria, Russia e Spagna (3%), Australia, Romania e Rep. Ceca (2%). Dal punto di vista economico, il turismo in Puglia impatta per 6,5 miliardi sui consumi finali (12,3% sui consumi totali), 9 miliardi in termini di valore aggiunto (13,6% del totale), 135.000 addetti (15,4% del totale) direttamente e indirettamente coinvolti nella filiera turistica formata da 52.000 imprese (il 38% del totale). Il turista arriva in Puglia per provare esperienze uniche, in particolare enogastronomiche e naturalistiche: in questo caso la Puglia si posiziona terza dopo Toscana e Veneto. Ma anche il binomio turismo e cultura è vincente: la Puglia custodisce un ricco tesoro artistico-culturale che viene costantemente valorizzato e promosso dalle politiche regionali che punta a mettere in campo prodotti turistici diversificati e innovativi: poli museali, paesaggi e borghi, i 5 beni Unesco, tradizioni rurali, percorsi ciclo-turistici, cammini, enogastronomia, turismo congressuale e wedding.

Ma quali le ragioni del successo?

Il target per il quale stiamo lavorando da anni, ed il turismo che da anni oramai con modalità costanti e non spot sta dando soddisfazione, è proprio un turismo di territorio, un turismo che si nutre dei respiri che il territorio esprime, che considera gli anelli di una bellissima collana che dovrà però essere armoniosa ma anche funzionale ed efficiente. Valorizzazione delle risorse ambientali, culturali, identitarie, materiali ed immateriali: bellezza, unicità, integrazione. Ma anche e soprattutto un settore che viene considerato, “tessuto connettivo di molteplici altre attività economiche che possono dare slancio ad un territorio obbligato innanzitutto a proteggere ambiente paesaggio e puntare sulla cultura…, agroalimentare…, artigianato…, stile…, innovazione…, con modalità sistemiche…”. Una sorta di meta settore, vocazione naturale, sembrerebbe, del territorio, grazie anche alla risorsa, al di sopra di qualunque altra, che è quella dei beni culturali, materiali e immateriali, che fanno dell’Italia il Paese più ricco al mondo (sicuramente di beni Unesco) o tra i più ricchi al mondo, tracciando così un legame stretto, inevitabilmente, tra turismo, cultura e territorio. Unicità e la bellezza dei luoghi, dei nostri borghi, delle nostre campagne, delle nostre coste, sono quindi elemento fondante del futuro economico. Una programmazione che va nella direzione della sostenibilità e della responsabilità sociale, nel rispetto del paesaggio naturale ed urbano, del capitale umano, ed in cui il territorio ritorna ed essere centrale nella produzione di ricchezza e di vantaggi competitivi sostenibili nel tempo: una sorta di antidoto ai non luoghi dell’imperante omogeneizzazione culturale. Un settore però che ha evidenziato le sue maggiori criticità per quanto attiene qualità dell’offerta, dei servizi e più complessivamente qualità dei sistemi territoriali.

Ed è questa la nuova sfida che la Regione Puglia con il piano strategico e con la nuova programmazione ha voluto cogliere: valorizzazione delle risorse territoriali, ma anche costruzione di prodotti di qualità, efficaci, efficienti e competitivi. Gli asset di un progetto che, dalla valorizzazione delle risorse territoriali, dalla rimozione dello svantaggio, delle diseconomie esterne derivanti da carenze materiali ed immateriali, sa di dover passare alla creazione del vantaggio competitivo, alla creazione del sistema turistico capace di offrire prodotti turistici efficienti, razionali, trasparenti, in grado di competere con altri sistemi, con altre destinazioni, lavorando sulla qualità dei sistemi territoriali.

È con questi obiettivi che il turismo è divenuto un asset strategico in Europa, con il trattato di Lisbona e con la Comunicazione Com 2010 2020 della Commissione Europea “Strategia Europa 2020”, che delinea proprio la necessità di conciliare crescita economica con la sostenibilità ambientale e la dimensione etica e che pensa ad un’occasione per creare coesione territoriale e sociale e aiutando e sostenendo anche le aree rurali.

Ed è questo il turismo che vogliamo, in Puglia: uno strumento di miglioramento della qualità della vita, di equità sociale, attraverso le rimozioni delle diseconomie esterne, delle disfunzionalità di un territorio, condizione necessaria per rimuovere uno svantaggio e per creare inclusione e coesione sociale. Il turismo per il quale abbiamo lavorato, da anni, consapevoli che bellezza, qualità e autenticità facciano la differenza.

di Stefania Mandurino

Bilancio duemiladiciannove del turismo in Puglia …

Da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Intervista all’assessora regionale Loredana Capone

Qual è il bilancio del turismo in Puglia in questi cinque anni?

Sono stati cinque anni di crescita costante del turismo in Puglia. Per accorgersene é sufficiente girare per le nostre città che solo cinque anni fa non erano città vocate al turismo e oggi pullulano di turisti, soprattutto stranieri. Infatti è cresciuto in particolare il tasso di internazionalizzazione di ben sette punti percentuali, passando dal 21% del 2015 al 28%, e nel 2019 l’incoming dall’estero in Puglia ha segnato + 12% e ha riguardato soprattutto le stagioni autunnali e primaverili. Ci siamo dati due obiettivi tra loro collegati: fare venire i turisti tutto l’anno, non solo in estate, (e l’Istat dice che nella primavera del 2019 per crescita siamo secondi in Italia dopo la Toscana), e fare venire in Puglia più turisti stranieri: e anche questo obiettivo abbiamo raggiunto. La Puglia è oggi una comunità accogliente, ha un patrimonio paesaggistico, culturale ed enogastronomico magnifico da offrire ai viaggiatori ed è sempre più facilmente raggiungibile, grazie al grande sviluppo di collegamenti aerei. A tre anni dall’ approvazione del Piano strategico Puglia 365, che ha messo in campo azioni per l’allungamento della stagione turistica, l’internazionalizzazione del turismo pugliese e il turismo sostenibile, l’attenzione è centrata proprio sul turismo internazionale, grazie al quale è possibile allungare la stagione, decongestionando i periodi più “caldi” e favorendo una industria del turismo che funzioni tutto l’anno.

Alcuni dati: 52mila aziende, 135mila addetti, un valore aggiunto di 9 miliardi di euro. Quanto può crescere ancora questo settore?

I margini sono ancora notevoli, soprattutto in termini di quote dall’estero. L’incidenza del Pil turistico è cresciuta dal 7,7 per cento del 2010 al 9 per cento nel 2019. E però siamo lontani dai grandi del settore. Nel 2018 la Puglia è risultata ottava per presenze turistiche sul totale nazionale, con il 3,5 per cento di presenze, al pari della Liguria e superando la Sicilia. Ma il 16 per cento di presenze del Veneto e l’11 per cento di Toscana e Trentino sono ancora lontane. Del resto la Puglia ha cominciato solo da una decina di anni, rispetto ad altre regioni italiane che sono ormai destinazioni turistiche mature, a sentirsi una destinazione turistica e a promuoversi e organizzarsi in questa direzione. La crescita è stata comunque esponenziale. Possiamo crescere ancora. Rivitalizzando e qualificando la nostra offerta.

Le mete preferite dai turisti restano Gargano e Salento. Il settore pugliese è ancora una importante metà per il turismo balneare

La Puglia consente di fare in ogni stagione una esperienza di viaggio in pieno stile mediterraneo, dove i luoghi, le persone e le storie rappresentano gli elementi di forza. Il lavoro per migliorare l’accoglienza e l’offerta turistica, costruendo veri e propri “prodotti turistici”, oltre a quello del mare, è in corso, ma la risposta degli operatori turistici c’è. Si punta decisamente su qualità e sostenibilità per i quali la rete e il dialogo sono fondamentali. Stiamo promuovendo la destinazione attraverso il racconto di una Puglia inedita che va oltre il posizionamento “vacanza al mare d’estate” facendo emergere un’offerta turistica variegata e diversificata e favorire la destagionalizzazione e le “vacanze brevi” in Puglia tutto l’anno. Ed è la Puglia, autentica, inedita e accogliente, della costa ma anche dell’entroterra, che preserva la tradizione ma è anche capace di innovare, che abbiamo raccontato per promuoverla in Italia e all’estero. Ed è questa la Puglia che vogliamo ancora lanciare, promuovere, far conoscere al mondo ed anche preservare.

Federalberghi ha censito 40mila alloggi per affitti brevi su Airbnb solo da dicembre 2018 a agosto 2019. Quanto pesa ancora oggi questo fenomeno nel settore?

Secondo lo studio di Becheri del New Mercury Consulting un turista su cinque è sommerso in Puglia. Per questo abbiamo introdotto il codice identificativo di struttura e il registro regionale delle strutture ricettive non alberghiere che sicuramente costringerà le piccole strutture non alberghiere ad uscire dal sommerso.

Cosa deve fare la Regione nei prossimi cinque anni per potenziare il settore?

Migliorare l’accoglienza, sviluppare ulteriormente la rete degli infopoint nei comuni e negli hub di arrivo come porti ed aeroporti, incentivare voli diretti intercontinentali e promuoversi in nuovi mercati con nuovi prodotti. Importante anche l’attuazione di politiche con le comunità accoglienti rispettose dell’ambiente e della natura, come lo sviluppo dei cammini  che con il riconoscimento da parte  della Associazione europea dei cammini  della Via Francigena fino a Santa Maria di Leuca e la nascita del Cammino materano ha avuto un nuovo impulso. Infine proseguire nella realizzazione di interventi  legislativi e di formazione per un salto di qualità  nelle competenze al servizio del turismo, per un turismo che aumenta la spesa diminuendo l’impatto, come è stato nel 2019 per la  classificazione degli stabilimenti balneari, la nuova disciplina delle Agenzie di viaggio, la Semplificazione amministrativa, l’ introduzione del codice identificativo di struttura e di un registro regionale delle strutture ricettive non alberghiere  e l’iter di abilitazione per  guide turistiche e accompagnatori. La Puglia poi è la prima regione che ha varato una legge sulle spiagge “plastic free”, condivisa da tutti gli operatori.

Che opportunità di lavoro si aprono per quei ragazzi che vogliano dedicarsi al patrimonio artistico, storico e archeologico?

Nel Mezzogiorno d’Italia la gestione del patrimonio culturale come fonte di sviluppo e occupazione appartiene alla categoria delle opportunità mai colte pienamente. La mancanza di investimenti e politiche eccessivamente vincolistiche, e per nulla orientate alla fruizione, hanno impedito di mettere a valore la più grande ricchezza del paese: il suo Patrimonio. Occorre passare dalla tutela alla valorizzazione. Che significa semplicemente rendere contemporaneo il nostro patrimonio artistico e culturale e connetterlo con le altre arti, il teatro, la musica, le arti visive, il cinema, l’artigianato, il design. Tutto ciò naturalmente ha bisogno di investimenti ma ha bisogno anche di competenze. Sul piano degli investimenti, la scelta della Regione di legare il recupero alla gestione dei contenitori culturali e alla produzione di nuovi contenuti apre opportunità enormi.

E l’arte, in quanto tale, in tutte le sue forme, cinema, teatro, danza, fotografia, pittura e quant’altro, che opportunità di lavoro e guadagno riserva ai giovani? Ci sono misure a sostegno anche in questo senso?

Bisogna essere prudenti e non far passare l’idea che l’arte e la cultura possano essere la soluzione alla disoccupazione giovanile. La carriera artistica è di per sé più difficile rispetto a tanti altri lavori. Alla domanda di un intervistatore che gli chiedeva chi può fare teatro oggi, Eugenio Barba ha risposto: «Chiunque purché abbia una volontà di acciaio e dopo essere caduto sette volte sia capace di rialzarsi un’ottava, sempre con la voglia di avanzare sulle cime delle montagne, danzando». Una risposta che può essere estesa a tutti i mestieri della cultura. Nonostante le difficoltà non si può negare come, sempre più giovani, siano attratti dal lavoro culturale. Non è una moda. Io vedo in questa tendenza una preoccupazione verso i destini del mondo. Una preoccupazione quasi politica. La consapevolezza di un investimento su di sé e nello stesso tempo sulla società. Ma non bisogna fermarsi davanti alle difficoltà. E i giovani, infatti, vanno avanti con coraggio e determinazione sapendo, per continuare con le parole di Barba, che “ognuno deve saper trovare la sua soluzione prendendo in considerazione le circostanze che lo soffocano. Ma le circostanze non possono essere una scusa o un alibi per non intraprendere”. Intraprendere, ecco la parola giusta. Il lavoro culturale è un lavoro collettivo. Infatti, per lo più, lo si intraprende attraverso differenti forme associative e d’impresa. La Regione ha deciso di dare fiducia ai giovani mettendo alla base delle sue politiche il sostegno alle imprese culturali e creative. In questa direzione va il bando sulla valorizzazione degli attrattori culturali che individua nelle imprese dello spettacolo dal vivo i beneficiari di una misura che vale complessivamente oltre dieci milioni di euro e che finanzia 21 imprese e altrettanti progetti di gestione di teatri, castelli, piazze, palazzi. Mettendo a valore un patrimonio altrimenti condannato all’abbandono. Ugualmente il bando triennale sullo spettacolo e le attività culturali(18 milioni e 250 mila euro) vede le imprese culturali e le associazioni iscritte alla Camera di Commercio come prime beneficiarie, sia direttamente che indirettamente attraverso il finanziamento ai Comuni. Tutta la strategia Smart In (100 milioni di euro destinati a biblioteche, siti archeologici, teatri storici, laboratori di fruizione e restauro, empori della creatività) mettendo al centro il tema della gestione, diventa una straordinaria opportunità per tutte le arti.

Qual è il progetto d’insieme? Quale il disegno per il futuro culturale della Regione? Quali le aspettative economiche per le attività collegate?

Potrei sintetizzare la risposta con l’acronimo del piano strategico della cultura cui la Puglia, tra le prime regioni in Italia, sta lavorando: PiiiL, prodotto, innovazione, impresa, identità, lavoro. Dietro ognuna di queste parole c’è un pensiero collettivo frutto del confronto serrato e franco con la grande e variegata comunità dell’arte e della cultura che fa della Puglia la Puglia. Il futuro, anche quello economico, passa da qui. Dalla nostra capacità di mettere a valore il bene più prezioso che abbiamo, che non sono soltanto le pietre, i siti archeologici, i castelli, le masserie fortificate, le piazze, le grotte, i menhir e i dolmen, i parchi, i cammini, i tratturi, i musei, le biblioteche, gli archivi, i teatri, i cinema, ma l’intelligenza di chi li abita, li vive, li gestisce, e li agisce, li cura, li studia, li promuove trasformando con il proprio lavoro, giorno per giorno, un valore potenziale in un valore reale. Che è valore sociale, valore simbolico, valore identitario e valore economico insieme. Perché queste cose o stanno insieme, o coesistono oppure semplicemente non esistono.

di Maria Rosaria De Lumé

Puglia, l’accoglienza ha radici lontane…

da “Puglia tutto l’anno” aprile 2020

Non è ininfluente il luogo dove si viene al mondo. Si conosca o si ignori del tutto la storia della terra che calpestiamo, tutti ci portiamo dentro la memoria del tempo passato e degli uomini che l’hanno attraversato. Deve pure significare qualcosa essere stati messi alla luce in questo ponte che si allunga nel mare Adriatico e guarda da una parte a Est e dall’altra sempre più a Sud. La stessa morfologia, un ponte lungo 400 chilometri, ti dà subito la sensazione del passaggio, della condivisione; lo sguardo che si allunga e spazia da un mare all’altro ti suggerisce l’attesa, qualcuno che prima o poi verrà a trovarti. Così, infatti, è sempre avvenuto.

Non sempre, in verità, si è trattato di visite pacifiche e di cortesia.  La Puglia, crocevia di popoli, ha visto il suo suolo calpestato da popolazioni preromane e preelleniche (Dauni, Peucezi e Messapi); poi è stata la volta dei Greci che hanno lasciato numerose tracce non solo nelle forme d’arte, di cui è testimone il patrimonio archeologico della Magna Grecia, ma anche nella letteratura, nella filosofia, nella lingua. Ancora oggi nel Salento c’è una piccola isola linguistica (la Grecìa salentina) in cui il grico, conosciuto e parlato dagli anziani, costituisce un patrimonio letterario e musicale che viene custodito e tramandato.  Dopo i Greci furono i Romani a fare della Puglia un teatro di guerra contro i Cartaginesi e Annibale.  La pianura di Canne della Battaglia racconta ancora oggi con l’aiuto di Polibio e Tito Livio lo scontro che non fu solo tra due eserciti, ma tra due civiltà.

Dopo i Romani vennero i Goti, i Bizantini, i Longobardi, i Saraceni, i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Spagnoli, gli Austriaci. E ognuno di questi popoli ha lasciato un segno: nel nord della Puglia resistono eredità linguistiche franco-provenzali a Faeto e Celle San Vito collegabili a una colonia di provenzali, il cui arrivo in Puglia fu voluto da Carlo II d’Angiò per conquistare Lucera, dove Federico II precedentemente aveva insediato una comunità di Saraceni, deportati dalla Sicilia,  costituendo una vera e propria isola islamica.

Le sopravvivenze albanofone a Chieuti ci riportano alla fuga degli albanesi dopo l’invasione della loro terra da parte dei Turchi nel 1466. A questo proposito Paolo II (1464-1471) scriveva in una lettera di provare dispiacere “per quelle navi che dai porti dell’Albania riparano ai porti d’Italia, quelle famiglie nude e miserabili che, cacciate dalle loro case, seggono sulla spiaggia del mare, protendono le mani al cielo, riempiono l’aria di gemiti”. E guardando la storia del passato ancora non è tutto: tracce degli Armeni a Bari e degli Ebrei dappertutto anche nei piccoli paesi dove ancora quartieri conservano il nome di “Giudecca”. A metà del secolo scorso i flussi migratori verso la Puglia partono soprattutto dall’Africa, il sud più a sud cerca ospitalità nel suo nord. Vu’ comprà li chiamavano sulle spiagge e nei paesi, occupati a vendere mercanzie più varie. Hanno trovato accoglienza soprattutto nei centri storici, hanno messo nuove radici, hanno creato nuove famiglie. Negli ultimi 50 anni la caduta di alcuni muri ha favorito la mobilità dai paesi dell’Est, le lingue e le culture si sono confuse, è stato necessario uno sforzo maggiore delle realtà ospitanti. C’è anche da dire che non sempre i processi migratori sono stati gestiti bene e in maniera coerente. Ma la Puglia è rimasta fedele alla sua natura di terra aperta all’accoglienza, all’ospitalità. Basta riportare alla memoria quello che fu l’esodo albanese negli anni Novanta, quello che più di un esodo, dal punto di vista numerico, sembrava un’invasione. Ma anche allora la Puglia per la maggior parte dei casi ha funzionato da ponte, di passaggio, cioè, verso altre realtà.  Ha dato il suo contributo ospitale, alcuni sono rimasti, ad altri ha dato le ali per volare.

E allora l’accoglienza, la solidarietà, la condivisione appartengono al Dna della Puglia, vengono da lontano e sono state messe alla prova numerose volte. Se il turismo pugliese ha un volto “più umano” è merito sì di quanti hanno contribuito alla sua promozione, ci hanno messo impegno, dedizione, creatività, fantasia, generosità. Però l’essere nati su questo lungo ponte lanciato verso sud est, l’aver disteso lo sguardo su due mari, l’aver respirato culture diverse e l’esserne stati contaminati, non è stato davvero ininfluente.

di Maria Rosaria De Lumé