Non ti perdona, la Puglia. È un po’ come l’Africa, e la Grecia. Ha ricevuto linfa ideale da entrambe, e d’altronde ne è separata da uno specchio d’acqua ricco di strade: perché tale è, a fronte della maestosa lontananza degli oceani da ogniddove, il Mediterraneo. Così quando chiedi a Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicaria del Corriere della Sera e direttore del magazine “Sette”, pure nata a Milano – nel 1965 – di parlarti della “sua” Puglia, lo sguardo si accende, la voce si riscalda, un po’ di comprensibile imbarazzo da mancanza di consuetudine tra intervistata e intervistante si attenua. Anche se la Puglia per varie, attuali ragioni è lontana. Ma solo fisicamente.
Papà di Botrugno, mamma di Santa Maria di Leuca: non è che d’altronde si possa giostrare molto e fingere distacco, con geni di questo tipo. Il sangue è sangue. E poi chi va via per lavoro, come accaduto agli Stefanelli negli anni Sessanta – quelli del Boom Economico e del Grande Esodo – non perde occasione per tornare. Soprattutto d’estate: “Mia madre cercava di diventare insegnante di ruolo, così spesso mi lasciava alla nonna materna”, racconta lei dal capoluogo milanese, stretta tra una variante inglese del Covid e un Draghi al Quirinale. Ovvero, “gli anni meravigliosi lì nel Salento, e i ricordi di un’infanzia felice. Uno stuolo di zie giovani, le donne nei cortili delle case di paese che infilavano il tabacco cantando, una campagna incantata e pulita, pre-Xylella…”. Ahia, chi ama davvero nota tutto: anche le più piccole sfumature. “Tutte quelle spiagge incontaminate, tutto quel mare… tanta bellezza rimasta intatta ancora oggi, anche se molte cose, purtroppo, sono state realizzate con grande fretta, soprattutto sulla costa”. Ma questo non ha intaccato i ricordi, e gli affetti, che anzi la pandemia – con le sue strane conseguenze, a volte – ha rinsaldato: “Ho ritrovato “pezzi” della mia famiglia d’origine grazie a una chat di Whatsapp che mette insieme tutti, dai genitori ai nipoti, e che ci serve per scambiare foto, aneddoti, racconti, cose del passato rimaste nella memoria e resoconti quotidiani. Un vero dono, servito a preservare uno spazio di salentinità e a riallacciare relazioni in tutte le direzioni… e poi l’occasione per scambiare espressioni in dialetto, per le quali però noi del ramo milanese della famiglia veniamo spesso bacchettati”, racconta ridendo. “Una delle poche sorprese positive di questo periodo”.
Il Salento in presenza, d’altronde, è di questi tempi un po’ difficile per chi già non ci stia di suo. “Manco da tanto, un po’ per motivi professionali – lo smart working ha reso in realtà abbastanza complicata la gestione di opere collettive come i giornali – un po’ perché il 2020 è stato un anno durissimo, con turni di vacanza strettissimi e poche persone ai posti di comando. Un lungo tunnel di cui non si vede ancora l’uscita”. Una delle ultime volte, la più importante è stata tragica e liberatoria insieme: la morte di sua madre. “Era il 26 aprile 2018, e avvenne tutto all’improvviso. In quelle ore di shock cercammo – mio padre, mio fratello ed io – di capire dove portarla. Dopo la prima idea di un cimitero milanese, però, la scelta: una tomba a Botrugno, con una messa funebre. È stato un momento fondamentale per gestire il dolore, terribile eppure bellissimo. Perché è venuto tutto il paese a salutarci: grandi abbracci con persone della mia infanzia, parenti, amici, tutti arrivati a rendere omaggio a una famiglia che era parte di quel territorio, e questo è servito in parte a lenire il dolore, a elaborare un lutto così pesante. E a dare l’idea dell’appartenenza a una terra d’origine che ti riaccoglie sempre, mentre il sole splende e la campagna è già piena di fiori… giorni impressi nella mente per sempre. Quelle ore nel Salento sono state calmanti”. Balsamiche.
Che colore ha la parola speranza, di questi tempi? “Con il primo lockdown cantavamo sui balconi e scrivevamo “andrà tutto bene”: adesso sembra che questa propensione all’ottimismo si sia alquanto appannata. Abbiamo imparato infatti che la speranza non può essere associata a forme di ottimismo un po’ passivo, fatalista e poco realistico. Al contrario, la speranza è la consapevolezza di essere in difficoltà, immersi in una crisi, ma di avere anche uno spazio di intervento per cambiare le cose. La speranza è azione”, continua Barbara Stefanelli. “Su questa interpretazione mi piace citare un’autrice davvero interessante, la filosofa e scrittrice Rebecca Solnit, che studiando le reazioni di alcune popolazioni dopo grandi cataclismi – New Orleans dopo l’uragano Katrina, la California alle prese con i terremoti – ha notato come in questi luoghi si generi immediatamente un’onda lunga di solidarietà e desiderio di aiutarsi che però poi si disperde, come successo anche da noi dopo la prima fase della pandemia… Rabbia, paranoia, intolleranza le emozioni negative del dopo: perché questo accade?”.
Misteri dell’animo umano: può essere che questa pandemia, in maniera del tutto inattesa, ci insegni qualcosa? “Intanto un rapporto molto più consapevole e attento con l’ambiente, si spera, perché è ormai chiaro che la diffusione del Covid e delle sue varianti sia l’esito di uno squilibrio ecologico generale. Quella del clima è una sfida molto più grande della stessa pandemia, rappresenta solo una piccola parte di questa mutazione che sta interessando le nostre vite e deteriorando il nostro futuro. La speranza è dunque che tutti noi – come singoli e come istituzioni – decidiamo di dedicare a questo obiettivo ben altra disponibilità di comportamenti quotidiani, reinventando anche un’idea di sviluppo e di crescita rivoluzionaria rispetto ai nostri attuali stili di vita. E che la politica diventi gestione intelligente delle risorse e delle leggi, e capacità di generare comportamenti utili a mutare le nostre abitudini e limitare i nostri errori. Abbiamo bisogno di guardare avanti con fiducia, di credere nelle possibilità del progresso tecnologico nella parte forse anche meno raccontata dello stesso, di intervenire per colmare gli squilibri, produrre grandi idee in grado di cambiare il mondo, risorse e investimenti da dirottare su questi ambiti di intervento”.
E buona parte di questi auspici poggiano sulle spalle delle donne: perché, come sostengono ormai anche molti intellettuali di sesso maschile, solo la sensibilità femminile potrà dare il contributo necessario a cambiare le cose. “Necessario cancellare asimmetrie secolari, gap millenari che, una volta colmati, creeranno benefici anche per gli uomini, auto-rinchiusi in una gabbia in cui è vietato piangere, prendersi cura dei figli, fare uso di una forza non muscolare. Pari opportunità di partenza e di riconoscimento dei meriti in base alle persone, invece: niente scatole rosa e scatole azzurre”. E largo alle donne, che continuano ad essere discriminate un po’ ovunque: “Le cose stanno cambiando dappertutto, ma l’Italia è sempre lenta al riguardo, e rischia di bruciarsi il rapporto con il meglio dell’Europa su questo. Questo è un Paese in cui le studentesse si diplomano o laureano prima e meglio, ma perdono posizioni già nei primi cinque anni di vita professionale. Non parliamo poi di quando si tocca l’argomento maternità… Un sistema punitivo che abbiamo cercato di indagare nel decimo anniversario della nascita del blog del Corriere “La 27esima ora”: risultato, gli altri Paesi europei hanno fatto grandi passi in avanti, mentre in Italia meno di una donna su due ha un lavoro retribuito. Un disastro, per il sistema Paese… E non è neppure un discorso di figli”, prosegue giustamente indignata la vicedirettrice del Corriere della Sera, “perché in Italia l’indice della fertilità è fermo a 1,2 figli per donna. Del resto è chiaro: senza lavoro, senza indipendenza economica, le donne tendono a non fare figli, mentre dove il mercato del lavoro è più “femminile” le donne sono incentivate a diventare madri, perché attorno a una giovane famiglia il sistema di welfare funziona”.
Sud e speranza: l’iniziale è la stessa, ma poi le strade dei due concetti si dividono, e spesso si elidono a vicenda. Il nuovo governo Draghi ha previsto un ministero per il Sud e la coesione, “ma il Sud dovrebbe essere un pensiero di tutti i ministeri, come le donne. Sono argomenti che andrebbero integrati in ogni attività di organizzazione della politica e gestione delle risorse: anche qui, meglio non chiudere il Sud nella scatola del Sud”.
E poi andare sul personale per chiudere in bellezza: cosa spera dal futuro Barbara Stefanelli per se stessa? “Avendo una figlia di sedici anni, la mia speranza è tutta per lei. La sua generazione sta rischiando tantissimo a causa di questa interruzione della crescita e della formazione, non solo scolastica ma anche psicologica, ma viene spesso dimenticata nel discorso pubblico… eppure dovremmo concentrare tutte le nostre energie per costruire un futuro pieno di speranza per questi ragazzi a tutti i livelli, metterli in cima nell’agenda del governo. Farci raccontare come stanno, e dove siano finiti i loro desideri. E poi mi auguro di poter continuare a fare i giornali al meglio possibile. Quella digitale, per la mia generazione, è una prova enorme. C’è stato un tempo in cui il Corriere era solo cartaceo e usciva in prima edizione verso le 22-23, in seconda all’una di notte… oggi, attorno a questo, è cresciuto un bosco di possibilità, dai social ai podcast, che spero di seguire sempre con entusiasmo. Al massimo della capacità possibile, per una nata a metà degli anni Sessanta”.
A cura di Leda Cesari