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giovedì, Novembre 21, 2024

Terra d’Otranto, volti e paesaggi nella pittura del XVI-XVIII secolo

L’identificazione impossibile

La pittura della Terra d’Otranto nei tempi di Antico Regime (XVI-fine XVIII secolo) – quale la si può vedere nei musei, nelle chiese, nelle gallerie e nelle sale di qualche palazzo aristocratico – non offre quasi mai volti di persone identificabili storicamente.

A volte, di un dipinto si intravedono i committenti, di piccolo ‘taglio’, collocati anonimi ai piedi di un santo o di una Madonna, con eventualmente la loro impresa araldica (che può condurre a qualche identificazione). I guerrieri dei non molti “battaglisti” – concesso che ve ne siano nativi della provincia – sono convenzionali (molti vogliono rappresentare dei turchi, naturalmente) e anonimi. E tali sono anche, riflettendo sugli sfondi paesaggistici, le scene agiografiche e bibliche, che adoperano ‘materiale’ sostanzialmente fissato nella tradizione. Un’eccezione al generico, al cliché e quindi all’anonimato si può forse trovare negli abiti indossati da alcuni personaggi, con vestiti e stoffe individuabili, ben curati e certamente più realistici.

Un pensiero di Gogol contribuirà ad approfondire questa riflessione. Nel racconto “Roma”, parlando del dipinto di una donna di Albano, senza nome e di celestiale grazia ammaliatrice, la dice modello di “tutte le donne che solo la tela ha tramandato” senza nome, appunto. Quella bellissima donna è una tradizione, una consegna, il dono – dell’anonimo pittore – di un suo sogno di donna. Si potrebbe pensare, quindi, che i pittori di Terra d’Otranto del XVI-XVIII secolo, spesso essi stessi anonimi, abbiano voluto donare al futuro solo modelli ideali, consegnare ai posteri semplicemente un’eredità di sogni. Forse pensavano che la vita non sia sui volti e nelle sembianze esteriori, che l’uomo non sia, o non debba essere, un mercante della propria identità: il cammino, cioè la vita, è cosa intima e segreta, mentre la memoria spinge verso un futuro altrettanto segreto. Gli occhi degli umani devono essere spalancati e insieme chiusi, ora a guardar fuori ora a guardar dentro, perché la vita, la propria e quella degli altri, non è un feticcio da proporre e far adorare, ma un viaggio nel silenzio e nell’oscurità delle grandi incertezze.

Un volto identificato è una mera constatazione, una curiosità da ammirare, uno ‘strumento’ che stimola ricerche di contesti storici. Un volto anonimo, invece, è un simbolo che nasconde qualcosa da scoprire e interpretare. Forse quei pittori, allora, non intendono abbandonare all’ammirazione altrui i volti dei loro personaggi, ma donare un simbolo da scrutare.

Non discendono forse i pittori Terra d’Otranto dai ‘filosofi’ della Magna Grecia? E dagli iconografi bizantini delle grotte rupestri e degli affreschi medievali?

Se le pitture degli artisti di Terra d’Otranto offrono il ‘teatro’ della vita d’ogni giorno più che la vita stessa, e suggeriscono un’immedesimazione in maschere di drammi scritti da altri, forse questi artisti sono personalità senza sufficiente autocoscienza storica, uomini privi del senso del passato e del valore della testimonianza? Uomini senza progetti, senza prospettive?

O si tratta di orgoglio e di pudore? Come dicessero: non vogliamo i nostri volti in vetrina, noi non esibiamo le nostre vite, le nostre famiglie, la nostra intimità, a estranei sconosciuti, anche i nostri posteri ivi inclusi.

 

Si può anche pensare – mettendo un po’ da parte la ‘filosofia’ – che quegli artisti fossero scollegati dalla pittura nazionale, dove il contesto storico è in primissimo piano, e non si confrontassero con colleghi di altre aree del regno di Napoli e d’Italia. Ma esisteva davvero questo scollegamento e in che misura? Se è vero che non erano al centro del mondo culturale del tempo, erano indubbiamente in contatto con artisti di scuola napoletana, romana e veneziana, attivi in Terra d’Otranto; e d’altronde, nel susseguirsi delle dinastie nelle signorie locali, nella frequentazione salentina di mercanti, banchieri, militari e prelati di varie aree d’Italia, verifiche e influssi non dovevano certo mancare.

La trasfigurazione della natura

Nelle opere dei pittori della Terra d’Otranto del passato c’è un’altra assenza, oltre a quella di volti identificabili: quella del paesaggio. Dove sono i boschi, i prati, i vigneti, gli uliveti, i giardini, le colombaie, le serre, le greggi, il mare, le torri, i velieri nei porti? E le case e i loro interni?

Nelle loro opere si vedono talvolta profili di anonime città, campagne aride o fantasiosamente boscose, scorci di costa in lontananza e tristi tramonti su un mare verde scuro, tutto in un contesto quasi senza vita, lontano, ignorabile. Dove stanno la luce del Salento, il suo cielo caldo, azzurro, limpido, Il suo mare magico e ammiccante? Non c’è il sole: paura della luce, timor panico del sole?

Sembrerebbe che l’attitudine estetica di questi artisti verso il loro territorio si inserisca in una specie di noncuranza nei confronti della natura, una dimensione di distacco dal reale concreto quotidiano, che rivelerebbero non tanto o soltanto insensibilità o immobilismo apatico, quanto il desiderio e il bisogno interiore di trasfigurare anche la natura circostante, di cui proporrebbero dunque una metamorfosi, timorosa ma coraggiosa, che metabolizzi il terrore di un mare portatore di crudeli invasori, e l’angoscia di una campagna associata al duro e poco redditizio lavoro agricolo e ai soprusi dei potenti di ogni tempo.

Una tale trasfigurazione di terre, colline e mari non era compiuta anche nella locale poesia di quei tempi, barocca o arcadica, nella quale, tra attardati petrarchismi e generiche scene pastorali, la campagna e il mare diventano una realtà magica, come un sogno di irraggiungibile felicità?

Uomini che non si “vedono”

Qualcuno potrebbe dire: una terra che per secoli ha subìto la storia, che ha combattuto guerre di altri, che è stata costretta a vedere il mondo e se stessa con gli occhi di altri, può forse concepire il desiderio di dialogare con i contemporanei (che la mal-governano), l’utilità di confrontarsi con le loro realizzazioni planetarie, esibite in ogni angolo della terra, può mai avere l’idea di proporre la propria ‘diversa’ realtà, dopo aver ammirato sì tanto l’invasiva realtà altrui?

Possono sfoggiare i volti dei loro contemporanei, esibire la bellezza delle loro città e della natura che le circonda, uomini che non ‘si vedono’ – e sostanzialmente non sono visti – dentro nella loro vera realtà, ossia una società che non è e non sentono propria?

Ma questa è la scivolosa strada della Questione meridionale! Una strada … pericolosa.

Fernando Cezzi

La solitudine dell’artista?

La solitudine dell’artista salentino già nel Cinquecento e nel Seicento? Egli forse avvertiva una certa diffidenza – nei confronti dell’arte e degli artisti – nel suo ambiente che, da un lato, era ‘troppo’ tradizionalista e aristocratico, chiuso in se stesso nella sua eccentricità anche geografica, e, dall’altro, nel suo ceto popolare, non era in grado di ‘spingere’ la cultura.

Nel cuore di questa riflessione assume il ruolo centrale la ‘provincia’ e la sua ‘borghesia’: la prima, nel suo cul-de-sac, si mostrerebbe incapace di cercare il nuovo e il confronto, cronologicamente sfasata e in ritardo rispetto al ‘moderno’ che altrove si affacciava e veniva accolto; la seconda – professionisti, mercanti, finanzieri, agiati agricoltori ed ecclesiastici – non trasforma la propria ricchezza in propulsione artistica, spesso incantata dall’aristocrazia cui aspira. E, nel mezzo si ritrova l’artista, stimato inutile, bloccato e impotente.

Ma qui si aprirebbero di nuovo le pagine della Questione meridionale, e anche questa volta è opportuno fermarsi.

A cura di Fernando Cezzi

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